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Libia 1911 - Europa 1914 (parte II)
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Limpero russo: il grande malato

Ma la polveriera europea non era pronta ad esplodere soltanto per la contrapposizione dei due blocchi anglo-francese e austro-tedesco. Nel gioco delle alleanze avevano un ruolo, non secondario, anche gli altri due imperi, tradizionali, che calcavano la scena: quello zarista e quello ottomano.

Entrambi alle prese con problemi atavici e con tentativi di modernizzazione che rendevano quei problemi ancora più critici e che ne indebolivano la strutture portanti.

Vediamo di farne un cenno iniziando dalla Russia zarista.

L’aspirazione tradizionale della Russia era quella di aprirsi uno sbocco nel Mediterraneo facendo leva sulla delicata situazione dei Balcani, da secoli entrati a far parte del dominio ottomano della Sublime Porta. Pertanto, la Russia soffiava sulle rivendicazioni nazionaliste dei popoli slavi insofferenti del dominio ottomano, in particolare su quelle degli slavi di fede cristiano-ortodossa ai quali lo Zar si presentava come una sorta di protettore. La Russia zarista perseguiva questa politica perlomeno dai tempi napoleonici.

Era inevitabile che l’impero russo sarebbe venuto a scontrarsi con quello ottomano.

Francia ed Inghilterra sostennero l’impero turco fino a quando l’Austria, abbandonando a seguito del Risorgimento lo scenario italiano, non spostò il baricentro dei propri interessi geopolitici verso i Balcani, contendendone, a fronte della declinante potenza ottomana, l’egemonia alla Russia.

La guerra di Crimea, a metà XIX secolo, era stato l’esito di questo appoggio anglo-francese all’impero ottomano in funzione antirussa.

Ma con l’arrivo dell’Austria sullo scenario balcanico, le alleanze iniziarono a rovesciarsi. Francia ed Inghilterra paventando la sostituzione dell’egemonia ottomana nei Balcani con quella asburgica, si fecero sostenitori dell’irredentismo dei popoli slavi. In tal modo esse finirono per convergere con la politica di espansione russa verso i Balcani, pur senza troppo agevolarla ed anzi cercando di sostituirsi, o perlomeno di aggiungersi, alla Russia nelle alleanze con i piccoli Stati balcanici nati nel corso delle guerre nazionali antiottomane del primo ottocento: Grecia, Serbia, Montenegro, Bulgaria, Romania.

Questo spiega l’accordo tra Francia, Inghilterra e Russia detto Triplice Intesa.

Ma, come si diceva, la Russia viveva una stagione di grandi sofferenze interne, che l’avrebbero condotta per una serie di errori e sventure, inclusa la partecipazione alla Prima Guerra Mondiale, al tragico esito della Rivoluzione d’Ottobre.

Nel corso del XIX secolo l’intellighenzia russa era stata lacerata dalla polemica tra slavofili e occidentalisti. I primi si opponevano ad ogni ipotesi di avvicinamento della Santa Russia ai modelli liberali occidentali. I secondi invece erano favorevoli, in nome del progresso, all’occidentalizzazione della Russia. Si trattava, da un altro punto di vista, dell’eterno dilemma della Russia a proposito della propria identità: europea o asiatica? Posta tra l’Europa e l’Asia, la Russia si è sempre cimentata con questa sua duplice appartenenza geopolitica e geoculturale, senza essere mai riuscita, per davvero, a giungere ad una definizione compiuta della propria identità che sapesse fondere entrambe le predette appartenenze.

Attratta nell’orbita europea e mediterranea per la sua fede cristiano-ortodossa, d’altro canto essa rimaneva sedotta dalla cultura asiatica molto evidente sia nelle forme dell’autocrazia – che se per un verso possono ricondursi all’eredità bizantina di tipo cesaropapista, per altri versi risentono del dispotismo orientale (1) – sia nella forte gerarchizzazione sociale che, ad esempio, aveva dato al feudalesimo russo un carattere peculiare e, a differenza di quello europeo, molto prossimo all’antica schiavitù (2).

Non si pensi, però, che gli slavofili fossero insensibili alle istanze di modernizzazione. Nient’affatto. Essi cercavano una strada russa alla modernizzazione che da un lato preservasse l’anima della Russia tradizionale e dall’altro, conservando le forme comunitarie rurali della comunità di villaggio (mir) ma non la sottomissione gerarchica feudale, impedisse l’espansione dell’individualismo liberale occidentale.

Dal canto loro i filo-occidentali, le cui idee erano molto diffuse tra le classe alte urbane (l’aristocrazia russa cittadina e la borghesia parlavano francese, anche per distinguersi dal popolo e dalla sua cultura atavica), miravano invece ad una modernizzazione di tipo liberale, che facesse della Russia una monarchia costituzionale ed uno Stato ad economia di mercato aperta al libero scambio.

Quando nel 1861 lo zar Alessandro II abolì la servitù della gleba sembrò che gli auspici degli slavofili fossero sul punto di realizzarsi. Infatti, l’abolizione della servitù non comportò anche l’abolizione della comune rurale o mir. I contadini rimasero sottoposti alla gestione comunitaria delle terre. Essi erano solo gli assegnatari periodici di terre da coltivare, senza però che ne diventassero proprietari.

Sergeij Julevič de Witte
   Sergeij Julevič de Witte
Sotto il regno di Alessandro III, figlio di Alessandro II morto per mano assassina, e padre di Nicola II l’ultimo zar ucciso, con tutta la sua famiglia, dai bolscevichi ad Ekaterinburg, il ministro Sergeij Julevič de Witte, un aristocratico vicino ad ambienti teosofici (era cugino di Helena Blavatsky) e molto addentro ai circoli finanziari transnazionali dell’epoca, si era impegnato in una politica di modernizzazione industriale ed infrastrutturale dell’impero russo (suoi i meriti della costruzione di diverse reti ferroviarie tra cui quella siberiano-manciuriana). Il capitalismo in Russia, a dire il vero molto embrionale, si presentò tuttavia con gli stessi tratti di estrema durezza che aveva caratterizzato il feudalesimo russo.

De Witte rappresentava, in qualche modo, la tendenza occidentalista della cultura russa.

Questo sforzo di modernizzazione in senso filo-occidentale aumentò, invece che placare, le proteste sociali, rafforzando in particolare i gruppi più estremisti della sinistra, dai nichilisti filo-anarchici (quelli de I demoni di Dostoevskij) ai socialisti rivoluzionari (menscevichi) staccatisi dagli slavofili per dar vita al partito socialdemocratico, fino ai marxisti veri e propri che erano, all’epoca, ancora una minoranza (bolscevichi) interna allo stesso partito socialdemocratico.

Nel 1905 Nicola II concedeva, anche a seguito della disastrosa guerra russo-giapponese dell’anno precedente che contribuì a portare la Russia in una fase pre-rivoluzionaria, l’elezione di una Duma (assemblea parlamentare) con limitati poteri legislativi ed una costituzionale di tipo liberale.

In questa critica situazione politica, una speranza fu rappresentata da Pëtr Arkadevič Stolypin, un aristocratico di origini lituane e natio della Sassonia (Dresda) da padre militare al servizio degli Zar.

Nominato nel 1906 Presidente del Consiglio, Stolypin attuò una riforma agraria, che aveva già con successo sperimentato nei suoi possedimenti di famiglia, intesa a distribuire le terre ai contadini in proprietà personale ereditaria, affrancandoli in tal modo dal mir ma senza formare nuovi latifondi al posto di quelli feudali o borghesi. Affiancò tale riforma con la creazione di una banca agraria di Stato, vero e proprio primo passo verso una più vasta nazionalizzazione del credito, che aveva il compito di fornire ai contadini prestiti agevolati e a bassissimo interesse affinché gli stessi potessero acquistare i mezzi necessari non solo alla conduzione delle loro aziende agricole ma anche alla modernizzazione dei sistemi di coltivazione per renderli competitivi con quelli di altri Paesi.

Inoltre Stolypin rafforzò le competenze, che fino ad allora erano state solo amministrative, degli zemstvo, ossia delle assemblee popolari locali, per trasformarli in veri e propri organi di autogoverno locale nel quadro di una vasta decentralizzazione che preludesse ad una compagine di tipo confederale, che egli sperava l’impero assumesse, all’interno della quale risolvere anche l’antico problema delle nazionalità diverse da quella russa e in passato sottoposte a processi di russificazione forzata. Processi che non avevano dato esiti positivi ma aumentato la resistenza nazionale dei popoli non russi – in particolare quello cattolico polacco – allo zarismo.

Stolypin non dimenticò, certo, l’industrializzazione ma, consapevole della vocazione tradizionale della Russia, puntò alla modernizzazione dell’economia agricola dell’impero per costituire una nuova classe di piccoli proprietari che, per vocazione naturale, rappresentasse la solida base sociale di una rinnovata monarchia zarista. Da tale riforma nacque quel ceto di contadini piccoli proprietari, meglio noto con l’appellativo dispregiativo di kulàki, traducibile pressappoco come sfruttatori, loro assegnato dalla propaganda bolscevica. Un ceto successivamente vittima della politica di Stalin il quale, per imporre la collettivizzazione forzata delle terre, responsabile della rovina dell’economia agricola e della condanna di milioni di russi alla morte per fame, destinò al genocidio un numero di tali contadini proprietari che gli storici accreditano in circa undici milioni.

In sostanza, Stolypin si fece carico degli auspici degli slavofili ma senza restare prigioniero delle loro utopie romantiche e arcadiche, ma al contrario indicando una via alla modernizzazione che rispettasse l’anima russa e al contempo non restasse chiusa alle innovazioni moderne.

L'assassinio di Stolypin
   L'assassinio di Stolypin
Una via che, probabilmente, come soleva affermare lo stesso Stolypin, avrebbe avuto bisogno di almeno vent’anni per dare frutti compiuti. Purtroppo, il 1° settembre 1911, esattamente all’inizio dello stesso mese che alla sua fine segnò l’aprirsi delle ostilità tra Italia e Turchia in Libia, Stolypin fu colpito a morte (morì dopo qualche giorno di agonia) nel teatro di Kiev da un rivoluzionario socialista, un certo Bogrov, armato molto probabilmente dai servizi segreti – deviati diremmo oggi – espressione degli interessi della parte più conservatrice della società russa impaurita dalle riforme del primo ministro.

In qualche modo, gli interessi della sinistra rivoluzionaria, che aveva ben compreso come le riforme di Stolypin segnassero la fine delle sue aspirazioni rivoluzionarie, e quelli della destra conservatrice, e filo-occidentale, finirono per fondersi contro la politica dello statista, per decretarne – chissà in quale circolo o loggia o ufficio di Polizia – la condanna a morte (3).

La famiglia di Nicola II
   La famiglia di Nicola II trucidata dai bolscevichi
La morte di Stolypin – quasi egli avesse svolto la funzione di estremo katéchon – lasciò aperta la strada ai movimenti rivoluzionari più estremisti, sostenuti dalla finanza occidentale. La corte, nel frattempo, andava distaccandosi completamente dalla realtà, sia per le debolezze caratteriali di Nicola II sia per l’imperversare di loschi figuri come Raspuntin, sedicente monaco guaritore, promotore di ambigue dottrine spirituali ereticali che amava circondarsi soprattutto di discepole femminili sulle quali esercitava un forte ascendente mistico-erotico. Rasputin, essendo riuscito a guarire o perlomeno a controllare l’emofilia di cui soffriva lo zarevic, aveva acquisito sulla zarina e sullo zar un potere di seduzione spirituale tale da influenzare persino le decisioni di Stato e, per questo, fu assassinato da alcuni nobili di corte.

L’avventura, poi, della Prima Guerra Mondiale, che lo zar sperava potesse essere uno sfogo delle tensioni interne, fece deflagrare il vacillante impero che scomparve nei gorghi della Rivoluzione, prima borghese e poi bolscevica (4).

Limpero ottomano: laltro grande malato

Se la Russia non se la passava bene, l’altro grande malato dello scenario geopolitico dell’epoca era, senza dubbio, l’impero ottomano.

Passati i fasti del XV e del XVI/XVII secolo che videro la potenza turco-ottomana in costante ascesa nei confronti di un’Europa sulla difensiva, e lacerata al suo interno dalle guerre di religione, la sublime porta viveva, ormai da secoli, di inerzia sul retaggio delle sue antiche glorie.

Anche l’impero turco era venuto a scontrarsi con la modernità dalla quale era stato investito a seguito dell’impresa napoleonica in Egitto. Da quel momento infatti in tutto l’impero si diffusero in gran numero le logge massoniche che facevano leva su presunte eredità sapienziali egizie (l’impresa egiziana del generale franco-corso fu ispirata anche da questi influssi esoterici molto diffusi nelle logge europee del settecento, e che ancora oggi ritroviamo evidenti nel new age). Queste logge si fecero portatrici delle idee di nazionalità e di libertà liberale inventate dall’Occidente e mutuate, attraverso di esse, dalle borghesie nazionali dei diversi popoli riuniti nella compagine ottomana.

Questo processo, che era insieme spirituale e politico, diede fuoco agli irredentismi nazionali anti-ottomani che, nell’area dell’impero, attingevano anche agli antichi dissidi, dinastici o identitari (ma non religiosi, almeno tra mussulmani), sussistenti tra il sultanato turco ed i popoli di etnia non turca: dagli arabi, ai berberi, ai curdi, alle minoranze cristiane ed ebraiche.

L’impero ottomano, però, come ogni altro impero tradizionale possedeva l’innata capacità di contemperare le diversità culturali e religiose tra i popoli e di tenerli uniti in una compagine sovranazionale che tutelava in via di fatto – certamente tra alti e bassi e non senza ineguaglianze giuridiche ed imposizioni autoritarie – ciascuna comunità secondo precisi e particolari statuti attribuiti ad ognuna di esse.

A cavallo tra XIX e XX secolo, la diffusione delle aspirazioni nazionaliste aveva già inferto ferite profonde alla compagine imperiale ottomana. In Europa essa si era ridotta ad una striscia balcanica circondata dai nascenti regni nazionali serbo, greco, bulgaro, montenegrino, rumeno. In Asia i’Impero aveva perso, a vantaggio della Persia e delle potenze coloniali europee, gran parte dei suoi possedimenti. In Africa, le potenze europee avevano gradualmente sottratto alla sublime porta quasi tutto il Maghreb occidentale (Marocco, Tunisia ed Algeria) per mano francese nonché l’Egitto ed il Sudan per mano inglese.

Oltre alla striscia balcanica, alla Turchia vera e propria, all’area palestinese-mesopotamica ed alla zona costiera occidentale ed orientale della penisola arabica, all’impero restava anche la Libia sulla quale, come diremo, si appuntarono le mire italiane.

A fronte di questo progressivo sgretolarsi dell’antico impero, la componente turca fu anch’essa, inevitabilmente, pervasa da istanze nazionaliste e modernizzatrici. Ne fu espressione il movimento dei Giovani Turchi che negli ultimi anni dell’impero, imponendosi sul debole sultanato, intraprenderà una politica di modernizzazione autoritaria e di laicizzazione che troverà, dopo la Prima Guerra Mondiale, tolto di mezzo l’impaccio del vecchio regime imperiale, nel giovane turco Kemal Atatürk la propria guida – il duce – nella transizione verso la moderna Turchia laica (5).

In realtà, però, il movimento dei Giovani Turchi più che di un irredentismo genuinamente turco – i turchi in quanto componente egemone nella compagine imperiale avevano tutto l’interesse a difendere la sublime porta piuttosto che avventurarsi in rivoluzioni nazionali – era l’espressione politica dell’antico sabbatanesimo coltivato, in seno all’impero, dalla setta gnostica dei dunmeh. I dunmeh erano gli eredi dello pseudo-messia ebraico Sabattai Zevi che nel secolo XVI, dopo aver infiammato tutta la diaspora ebraica mediterranea mettendo a rischio la pace religiosa e civile dell’impero, aveva apostatato in favore dell’Islam quando, catturato dal sultano, era stato posto di fronte all’alternativa di convertirsi all’islam o di essere giustiziato. Sabbattai Zevi, come detto, si convertì ed i suoi seguaci, che lo seguirono nell’apparente conversione, interpretarono quel gesto alla stregua di una discesa ad inferos, una sorta di necessaria dissimulazione cui il loro messia si sarebbe sottoposto per poi, in futuro, tornare a manifestarsi nella sua gloria (6). L’eredità sabbatiana continuò quindi ad essere coltivata dai seguaci dello pseudo-messia sotto mentite spoglie islamiche (7). Il millenarismo sabbattiano fu accolto soprattutto dalle borghesie mercantili ebraiche, come quella potente di Salonicco. L’irredentismo nazionalista e modernizzatore dei Giovani Turchi, che riprendeva diverse istanze del precedente movimento massonico dei Giovani Ottomani, fu, appunto, l’espressione politica otto-novecentesca di questa ambigua eredità spirituale.





Questo inquietante retaggio gnostico contribuisce a spiegare anche l’esplosione di intolleranza anticristiana che per due volte si accanì contro la componente armena cristiana dell’impero, segnando, con il tragico genocidio che ne seguì, l’inizio del secolo dei genocidi.

Gli eventi sono due ma tra essi ci furono grandi e sostanziali differenze. Un primo episodio di violenza fu la campagna anti-armena condotta dal sultano ottomano Abdul-Hamid II negli anni 1894-96. Il vero e proprio genocidio, invece, fu quello messo in cantiere dai Giovani Turchi al potere negli anni 1915-1916.

Il primo di tali episodi non può classificarsi come genocidio. Si trattò piuttosto di un tipico pogrom tradizionale, quali altrove si erano registrati contro diverse etnie minoritarie. In sostanza si trattò di un forte schiaffo che il sultano diede alla minoranza armeno-cristiana, analogamente a quanto fece nello stesso periodo con altre minoranze, responsabile di ribellione contro l’autorità sultanale. Gli armeni, infatti, appoggiati dalla Russia, si erano ribellati alla sublime porta, rivendicando maggiori autonomie, e contro di essi il sultano scatenò nel 1894 i loro tradizionali rivali curdi. Due anni più tardi, come risposta all’occupazione da parte di elementi rivoluzionari armeni della Banca Ottomana ad Istanbul, il sultano incoraggiò un altro pogrom anti-armeno messo in atto, questa volta, dagli stessi turchi.

Siamo, in questi casi, di fronte, appunto, a pogrom che, per quanto feroci, non hanno le stigmate – programmazione, intenzione di sterminio globale, accanimento motivato da odio etnico o religioso – del genocidio moderno.

La sublime porta, in altri termini, attuò nel 1894-96 una tradizionale, benché certamente brutale, repressione contro una comunità ribella all’autorità imperiale. La quale ultima, d’altro canto, al di là degli interventi punitivi per ribellione, si faceva garante della coesistenza di tutte le etnie e le comunità religiose sparse nell’impero. Il sultano, che pure non aveva fermato i pogrom, era al tempo stesso il baluardo contro lo scatenarsi dei nazionalismi e degli etnicismi forieri dello sciovinismo genocida.

Non a caso, quando il potere del sultano venne meno ed al governo dell’impero si installarono i nazionalisti turchi intervenne il vero e proprio genocidio, quello perpetrato durante il primo conflitto mondiale quando gli armeni furono accusati di essere le quinte colonne della Russia zarista in guerra, in quel momento, con la Turchia.

Mossi dall’ideologia panturca, l’analogo turco del pangermanesimo e del panslavismo, e quindi portatori del progetto politico – assolutamente distante dalle idealità di coesistenza plurinazionale e plurireligiosa dell’antico impero ottomano – mirante alla creazione in Anatolia di uno Stato turco etnicamente omogeneo, ed alla conseguente riduzione a colonie delle altre parti dell’impero, i Giovani Turchi si distinsero nel massacro, in Cilicia, di 30.000 armeni già nel 1909, appena un anno dopo la loro ascesa al potere e la trasformazione della sublime porta in una monarchia costituzionale, da essi stessi governata con pugno di ferro, nella quale il sultano in pratica non aveva più alcun effettivo potere.

Nel perseguimento del loro disegno panturco, ed anche come risposta agli appoggi francesi e russi alla comunità armena, nella notte tra il 23 ed il 24 aprile 1915, il governo nazionalista di Istanbul diede l’avvio alla mattanza eseguendo i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli. L’operazione seguì nei giorni seguenti ed in un solo mese furono arrestati e deportati più di mille intellettuali e professionisti armeni, nell’intento di decapitare la classe dirigente della comunità. Si passò poi alla deportazione in massa della popolazione armena. Circa un milione e mezzo di armeni furono trascinati per le strade anatoliche in quelle che saranno ricordate come marce della morte, organizzate con la supervisione di ufficiali dell’esercito tedesco in collegamento con quello turco, vigendo in quel momento l’alleanza tra il reich guglielmino e la Turchia.

Gli armeni avviati verso la deportazione morivano, sotto il caldo del deserto anatolico, di stenti, sete, fame, malattie, oltre ad essere oggetto degli assalti sterminatori dei soliti nemici curdi. Il numero ufficiale delle vittime è calcolato, come si è detto, in un milione e mezzo ma vi sono stime che giungono anche a due milioni e mezzo. Le testimonianze e la documentazione fotografica parlano di donne stuprate, bimbi sgozzati sotto gli occhi dei genitori, vecchi bastonati a morte, donne incinte sventrate. Insomma il repertorio assurdo di un odio satanico, inspiegabile solo con motivazioni storiche ed umane (8).

La responsabilità del genocidio armeno non può dunque, come troppo facilmente si continua a fare da più parti, essere attribuita all’Islam o alla Turchia tradizionale quanto piuttosto deve essere attribuita all’eredità gnostico-millenarista sabbattiana che ha nutrito, insieme con le suggestioni massoniche diffuse da Napoleone, il nazionalismo moderno turco.

Impadronitisi definitivamente del potere nel 1908, i Giovani Turchi impressero al governo dell’impero un carattere dinamico e nazionalista che, come vedremo, si sarebbe scontrato, in Libia, con gli interessi coloniali italiani.

D’altro canto, le spinte russe verso i Balcani e l’appoggio delle potenze occidentali all’irredentismo slavo costrinsero, alla lunga, l’impero turco ad avvicinarsi alla Germania guglielmina ed all’Austria-Ungheria, nonostante l’ingombrante presenza, in quel sistema di alleanze, dell’Italia.

Si trattava, per la sublime porta, di una lotta per la sopravvivenza, sempre più minacciata all’interno dall’irredentismo, compreso quello dunmeh, ed all’esterno dalle mire coloniali delle altre potenze che ambivano a spartirsi le spoglie dell’impero morente.

Luigi Copertino

(fine seconda parte di cinque)

Libia 1911 - Europa 1914 (parte I)
Libia 1911 - Europa 1914 (parte III)
Libia 1911 - Europa 1914 (parte IV)
Libia 1911 - Europa 1914 (parte V)




1
) Usiamo i termini “bizantino” e “dispotismo asiatico” in senso lato solo per indicare modelli di organizzazione sociale e, naturalmente, senza voler affatto nascondere la varietà e complessità che si nascondono dietro tali modelli e ne impediscono la reductio ad unum. E soprattutto senza voler esprimere alcun giudizio di valore – qui cerchiamo, pur con tutto l’approccio personale proprio di ogni tentativo storiografico, di fare storia e non propaganda ideologica – circa la pretesa superiorità dei modelli politici occidentali, in particolare di quelli moderni.
2) Nel sistema feudale russo la persona del contadino era in pratica una proprietà del feudatario. Il contadino russo era legato, come il suo collega europeo, alla terra, ed alla comune della mir, ma senza quasi alcun diritto personale.
3) Su Stolypin si veda il bel libro di Bruno Tarquini Pëtr Arkadevič StolypinIl ministro dello Zar che fu ucciso per la sua riforma agraria. E cambiò il corso della storia, in vendita presso lo shop Effedieffe. Ma anche la bibliografia citata in detto volume.
4) Tuttavia senza l’aiuto della Germania guglielmina, che consentì a Lenin, esule in Svizzera, di attraversare il suo territorio per tornare in patria – dietro la promessa che il rivoluzionario marxista avrebbe operato in modo che la Russia stipulasse una pace separata con la stessa Germania e l’Austria –, forse l’esito bolscevico della Rivoluzione avrebbe potuto non esserci.
5) Non abbiamo usato a sproposito l’appellativo di duce. In effetti quello di Atatürk fu un regime autoritario di massa e modernizzante molto simile, fatte le debite differenze connesse con la diversa matrice culturale, al fascismo italiano.
6) È evidente nell’escatologia sabbattiana la luciferina scimmiottatura di quella cristiana.
7) Un caso simile a quello di Sabbattai Zevi è stato quello di un altro pseudo-messia ebreo-polacco, Jacob Frank, che nel XVIII secolo infiammò la diaspora ebraica europea e che, con giustificazioni simili a quelle sabbattiane, dissimulò la conversione al cattolicesimo.
8) Il genocidio armeno è ancora oggi oggetto di polemica dal momento che la Turchia non vuole riconoscerne la responsabilità storica e tenta di declassarlo a mero massacro. Bisogna, incidentalmente, notare che in questo tentativo gli storici turchi negazionisti del genocidio armeno, che non rischiamo a quanto pare alcuna galera, hanno come principali alleati gli storici israeliani sempre in prima fila quando si tratta di condannare un altro genere di negazionismo. Emblematica, in proposito, la tesi dello storico israelita Guenter Lewy per il quale lo sterminio degli armeni non sarebbe un genocidio perché, a suo dire, sarebbe mancata la volontà preparatoria, la programmazione, come dimostrerebbe l’assenza di un piano sistematico di eliminazione paragonabile, a suo dire, a quello messo in pratica dai nazisti contro gli ebrei venticinque anni più tardi. È evidente il motivo per il quale uno storico israelita tenti di giustificare l’ingiustificabile: ammettere che prima di quello ebraico vi sia stato un altro genocidio significherebbe dover riconoscere non solo lo sterminio ebraico come unico nella storia a poter pretendere di essere classificato nel novero concettuale e giuridico di genocidio, ma anche che, pertanto, quello subìto dagli ebrei non sia stato un evento senza paragoni e tale da dover assurgere ad un ruolo a-storico, metafisico, dogmatico, teologico. Ammettere che, al contrario, lo sterminio degli ebrei è un evento storicamente non isolato né esclusivo o unico e che si aggiunge ai tanti che sono stati registrati, e potrebbero esserlo anche in futuro, è esattamente quel che la storiografia di parte israeliana non intende accettare, con evidente spirito di partito che contraddice la stessa metodologia della ricerca storica. A Guenter Lewy ha replicato lo storico armeno Boghos Levon Zekiyan spiegando che la persecuzione degli armeni di Istanbul fu solo l’inizio e che lo stermino della popolazione armena si inscriveva perfettamente nel quadro del progetto panturco mirante alla creazione di una Grande Turchia etnicamente omogenea. Un progetto che, pertanto, non ammetteva sul territorio anatolico presenze allogene. Sicché affermare, come fa Lewy, che non vi fosse una programmazione preordinata al genocidio è assolutamente risibile. Se – continua Zekiyan – agli armeni di Istanbul andò meglio, limitandosi la persecuzione agli arresti, fu soltanto perché nella capitale e nella altre città erano presenti le delegazioni diplomatiche estere oltre ai giornalisti di tutto il mondo. In Anatolia, nelle campagne e nelle zone desertiche, invece le operazioni di sterminio avvenivano al sicuro da sguardi indiscreti. Va, infine, notato, da parte nostra, che il ricorso alla legge penale per risolvere questioni storiche, cercando di intimidire la libera ricerca storica, rischia di produrre anche nel caso del genocidio armeno risultati esilaranti: attualmente in Francia è reato penale negare il genocidio armeno mentre in Turchia lo è l’affermarlo. Ora, quando quest’ultima entrerà nell’Unione Europea, sulla base del mandato di arresto internazionale, potremmo avere l’incredibile situazione per la quale un procuratore francese potrebbe chiedere l’estradizione di uno storico turco che negasse il genocidio armeno laddove un procuratore turco potrebbe chiedere l’estradizione di uno storico francese che invece affermasse quel genocidio. Ora, come è evidente, quando si gioca con la libertà della ricerca storica si fa solo repressione intellettuale illiberale, si creano vittime e si smontano in concreto le pretese di civiltà giuridica avanzate da oltre due secoli dal liberalismo occidentale.


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