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Libia 1911 - Europa 1914 (parte V)
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Europa 1914: uno sparo a Sarajevo e la polveriera esplode

Francesco Ferdinando, arciduca ereditario, giunse a Sarajevo, capitale della Bosnia Erzegovina, il 28 giugno 1914 con l’obiettivo di dare un concreto segnale di distensione verso il mondo slavo.

Come si è detto, l’erede al trono di Vienna rappresentava in seno alla corte la corrente della politica asburgica che da oltre settant’anni anni spingeva verso la confederalizzazione dell’Impero. Di tale politica la trasformazione in Duplice Monarchia, con la parificazione tra tedeschi ed ungheresi, era stato solo il primo passo. Tuttavia una battuta d’arresto di tale processo era stata determinata proprio dagli ungheresi che per l’intero XIX secolo si erano posti a guida della rivoluzione onde ottenere quella parificazione. Dopo quel primo passo, infatti, gli ungheresi si erano arroccati in difesa della loro egemonia su cechi, boemi, slovacchi e slavi, trovando nella parte più conservatrice dell’elemento di lingua tedesca un alleato contro ogni altra ipotesi di ulteriore confederalizzazione.

Invece l’unica strada per il futuro passava proprio per la confederalizzazione ed il vecchio Francesco Giuseppe lo aveva ben compreso, a partire almeno dal 1848.

L’allargamento del dominio asburgico nei Balcani, mediante l’annessione della Bosnia Erzegovina, fu malvisto dalla Russia, che, come sappiamo, mirava ad esercitare un ruolo egemonico nella regione, ma anche da Londra e da Parigi, dove i governi erano in sostanza espressione dei due Grandi Orienti massonici. Francia ed Inghilterra vedevano nel vecchio impero asburgico l’ultimo oscurantista residuo dell’Europa cattolica medioevale. Un bastione cristiano da abbattere per realizzare la Repubblica Universale Umanitaria.

Non c’erano solo questi motivi ideologici. Londra e Parigi paventavano anche l’appoggio che le risorse balcaniche, in particolare quelle minerarie ed il petrolio del Mar Nero, potevano apportare alla Germania guglielmina mediante l’alleanza con l’Austria-Ungheria.

Di più: lo scacchiere geopolitico balcanico, per Londra e Parigi, era delicato in quanto l’eventualità di un crollo della sublime porta avrebbe aperto alla Russia l’intero spazio regionale troppo prossimo al medio oriente colonizzato da Francia ed Inghilterra.

Per questi motivi, Londra e Parigi fomentavano la rivolta irredentista serbo-slava anche finanziando diversi gruppi terroristici come la Mlada Bosna (Giovane Bosnia) cui apparteneva il serbo, di origini israelite, Gravilo Princip, autore dell’attentato di Sarajevo.

Come si vede, il richiamo mazziniano dei movimenti nazionalisti europei (Giovani Turchi; Giovane Bosnia) denota l’esistenza, in quell’epoca, di una rete irredentista della quale la nostra Giovine Italia era solo un elemento. Una rete che, con una certa probabilità, coincideva in gran parte con quella massonica, le cui logge erano sparse per tutt’Europa sin dal settecento.

Molto probabilmente l’intera operazione dell’assassinio di Francesco Ferdinando fu preparata dai servizi segreti anglo-francesi con l’apporto logistico del governo di Belgrado. Il governo di Vienna, a suo tempo, vide giusto nell’indicare nella Serbia un possibile complice dell’attentato.

Anche nell’intento di riportare la Serbia, che si atteggiava a grande potenza tutrice delle aspirazioni nazionali slave, ad una più realistica visione della sua reale forza politica e militare, Vienna, senza prevedere gli esiti globali di questo gesto, lanciò il 22 luglio 1914 un ultimatum alla petulante piccola nazione vicina, non senza aver ricevuto un assenso dall’alleata Germania e nella speranza che la Russia non avrebbe reagito perlomeno in modo plateale.

Nell’ultimatum la Serbia era accusata di aver favorito l’irredentismo nella Bosnia Erzegovina e di aver collaborato alla preparazione dell’attentato di Sarajevo. Si imponeva inoltre a Belgrado di sconfessare la propria politica jugoslava e di consentire ad una commissione austriaca di recarsi in Serbia per indagare sulle responsabilità dell’assassinio dell’arciduca ereditario. Venivano concesse 48 ore di tempo per la risposta.

La Serbia si dimostrò disponibile a trattare, anche perché la Russia era intervenuta presso il governo di Vienna chiedendo una attenuazione delle richieste ed una proroga della scadenza fissata.

L’Italia, nel frattempo, faceva sapere a Vienna che, visto il carattere difensivo dell’alleanza che univa i due Stati, un eventuale attaccò austriaco alla Serbia non sarebbe stato appoggiato da Roma. Era un’ulteriore passo verso il definitivo distacco del nostro Paese dalla Triplice Alleanza.

Vienna, però, non ritenne sufficiente la risposta serba e, allo scadere del’ultimatum, ruppe le relazioni diplomatiche con Belgrado.

La Serbia ordinò la mobilitazione generale mentre la Russia fece sapere a tutte le cancellerie europee che essa non sarebbe rimasta inerte di fronte ad un ulteriore allargamento della sfera di influenza austriaca nei Balcani. A nulla valse neanche la proposta inglese, il 26 luglio, di una conferenza di pace. L’Austria si affrettò ad assicurare la Russia che sarebbe stata rispettata, dopo la lezione, l’integrità territoriale serba. Ma tale assicurazione non placò le preoccupazioni dello Zar.

La Germania, che pur aveva pubblicamente dichiarato la propria approvazione alla presa di posizione di Vienna contro Belgrado, intervenne a sua volta con un tentativo di mediazione che non sortì alcun effetto.

Nel frattempo già dal 28 luglio l’Austria aveva mobilitato ed iniziato il bombardamento di Belgrado. La Russia mobilitò a sua volta il 30 luglio, ammassando truppe sia alle frontiere austriache che a quelle tedesche.

Il 31 luglio l’ambasciatore tedesco a Parigi presentava un ultimatum nel quale si chiedeva la neutralità francese in caso di conflitto della Germania e dell’Austria contro la Russia.

Lo stesso 30 luglio un altro ultimatum era presentato dalla Germania alla Russia intimando la sospensione della mobilitazione in atto.

A questo punto gli eventi precipitarono come in un effetto domino. Il sistema nefasto delle alleanze si era messo irrimediabilmente in moto portando l’Europa alla catastrofe.

Dopo la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia il 28 luglio, seguirono quelle della Germania alla Russia il 1° agosto, della Germania alla Francia il 3 agosto, dell’Inghilterra alla Germania e della Germania al Belgio il 4 agosto, del Montenegro all’Austria il 5 agosto, dell’Austria alla Russia e della Serbia alla Germania il 6 agosto, del Montenegro alla Germania il 9 agosto, della Francia all’Austria l’11 agosto, dell’Inghilterra all’Austria il 12 agosto, dell’Austria al Belgio il 22 agosto, del Giappone alla Germania il 23 agosto, del Giappone all’Austria il 25 agosto, della Russia alla Turchia il 1° novembre, della Serbia alla Turchia il 2 novembre, dell’Inghilterra alla Turchia il 5 novembre, della Turchia all’Inghilterra il 5 novembre. Oltre a tutta una serie di altre dichiarazioni di guerra tra Stati minori secondo la rete delle alleanze che si era andata costituendo da mezzo secolo a quella parte.

L’inutile strage, lamentata Benedetto XV, era purtroppo iniziata e con essa la fine dellEuropa.

L
Italia tra neutralismo ed interventismo

L’Italia, come detto, per il momento restò neutrale ma già aveva in corso contatti con Francia ed Inghilterra. Contatti non tanto segreti visto che la Germania spinse Vienna a fare al nostro Paese la proposta della cessione pacifica di Trento e Trieste nonché, in caso di vittoria della Triplice, ampi riconoscimenti nei Balcani meridionali ed assegnazioni di parte delle colonie francesi ed inglesi in Nord Africa.

Ma nella scelta italiana di capovolgere il fronte delle proprie alleanze giocarono, oltre alle promesse di Francia ed Inghilterra (poi in parte disattese: Trento e Trieste, Fiume e Dalmazia, Albania, Rodi ed isole egee), un forte ruolo le connessioni massoniche del governo liberale italiano con i Grandi Orienti di Londra e di Parigi, che, come si è detto, costituivano in pratica i governi francese ed inglese. In tal senso, il Risorgimento veniva davvero a compimento e nel peggiore dei modi, ossia ponendo l’Italia tra i responsabili della fine dell’Europa e facendole perpetrare il primo dei suoi tradimenti nelle guerre mondiali. Nel 1915 anche l’Italia, infatti, sarebbe scesa in campo contro gli ex alleati austro-tedeschi.

Nei mesi precedenti la dichiarazione di guerra, il dibattito nel nostro Paese, a proposito dell’entrata o meno in guerra, divampò con tanto di mobilitazione di massa e vide il formarsi di due fronti contrapposti di opinione pubblica: gli interventisti ed i neutralisti.

Tra gli interventisti si contavano i nazionalisti, i liberali, i demonazionali di matrice repubblicana (mazziniani), i dannunziani, i futuristi, gli irredentisti, molti sindacalisti rivoluzionari, come Corridoni, che inseguivano il mito della guerra di massa quale preparazione alla rivoluzione sociale interna.

Tra i neutralisti invece oltre ad alcuni liberali si schierarono gli anarchici, i repubblicani di sinistra, i socialisti e – questa volta in obbedienza al Papa – i cattolici. Fu tuttavia la sinistra ad essere maggiormente sconvolta, sotto il profilo politico, nella scelta tra intervento e neutralità.

Se il PSI prese posizione ufficiale per la neutralità («la guerra è un affare delle borghesie europee contraria agli interessi della classe operaia», questa la motivazione ideologica del socialismo italiano), la sinistra eretica, che aveva diverse convergenze all’interno del PSI con l’ala massimalista e che ad un tempo contestava dal di fuori il socialismo ufficiale accusandolo di imborghesimento, dopo un iniziale neutralismo in chiave antimilitarista, assunse una posizione interventista inseguendo il mito della guerra come rivoluzione sociale. Su questa strada sindacalisti rivoluzionari e socialisti massimalisti si ritrovarono ben presto a fianco di nazionalisti, futuristi e dannunziani.

Questo dilemma fu particolarmente lacerante per uno dei socialisti all’epoca più in vista e già noto come duce del socialismo romagnolo. Nel 1914 egli era il capo riconosciuto dell’ala massimalista del PSI (tanto che successivamente confiderà, non a torto, a Yvon De Begnac, che il vero padre ideologico dei comunisti italiani era stato lui) e, dopo che i massimalisti avevano vinto sebbene di misura il congresso nazionale, dirigeva, valente giornalista, LAvanti, il quotidiano del partito socialista. Benito Mussolini nel giugno del fatale 1914 aveva fatto parte, insieme all’anarchico Enrico Malatesta ed al repubblicano Pietro Nenni, della giunta rivoluzionaria che si era installata in Romagna e nelle Marche durante la cosiddetta settimana rossa: una sommossa socialista, anarchica e repubblicana, scoppiata, in quelle regioni, con tanto di instaurazione di un governo provvisorio ed innalzamento di alberi della libertà, gli antichi simboli del giacobinismo. L’insurrezione fu repressa duramente. Alla fine di quel mese di giugno sopraggiunsero gli spari di Sarajevo e si aprì, di fronte alla mobilitazione degli interventisti, che dimostrarono una capacità di dinamismo di massa tale da far impallidire i socialisti, e al consenso che essi andavano ottenendo, la crisi interna al PSI già da tempo in bilico tra ala massimalista e ala riformista.

Oltretutto la neutralità in nome della solidarietà internazionale di classe, predicata ufficialmente dal PSI, si dimostrò ben presto una utopia: i socialisti francesi scendevano nelle piazze cantando la Marsigliese inneggiando la restituzione alla Francia dell’Alsazia e della Lorena per vendicare la disfatta del 1870; i laburisti inglesi si erano immediatamente schierati con il governo di Sua Maestà Britannica contro l’imperialismo teutonico; i socialdemocratici tedeschi avevano deposto ogni contesa antipadronale in nome della difesa del Reich dalle potenze capitaliste occidentali; i menscevichi russi aderirono alla guerra patriottica.

«I proletari di Germania hanno dichiarato di essere prima tedeschi e, poi, socialisti. Ecco un fatto nuovo che noi ignoravamo e che abbiamo avuto il torto di non intuire»: sono parole pronunciate, durante un comizio interventista, da Filippo Corridoni, l’apostolo dei lavoratori, il più movimentista tra i sindacalisti rivoluzionari che in quegli anni avevano iniziato a percorrere la via verso il socialismo nazionale (1).

Mussolini, infatti, non era solo nel suo dilemma ma rappresentava una intera generazione di socialisti massimalisti e di sindacalisti rivoluzionari che avevano letto e cercavano di mettere insieme Marx con Nietzsche e Pareto con Sorel.

Il futuro duce apparteneva ad una élite di rivoluzionari che avevano iniziato a riflettere sul ruolo che in una società di massa poteva giocare il mito della nazione e che si stavano rendendo conto che esso era, in quanto a capacità di mobilitazione rivoluzionaria, altrettanto efficace di quello, che gli faceva concorrenza, della classe.

Mussolini, in altri termini, era, e non dal 1914, tra quelli che cercavano la quadratura del cerchio tra nazione e classe, tra nazionalismo e socialismo, tra destra antiparlamentare e sinistra rivoluzionaria. L’idea di una Patria di Popolo ossia di tutte le classi sociali, e non della sola borghesia, si faceva strada contemporaneamente sia a destra tra i nazionalisti – ed in questo grande influsso ebbe l’opera letteraria di Enrico Corradini – sia a sinistra tra i socialisti massimalisti ed i sindacalisti rivoluzionari in marcia verso il sindacalismo nazionale.

Il percorso di Mussolini verso il fascismo, già iniziato da almeno un decennio e che aveva avuto un primo punto di svolta in occasione della guerra italo-turca nel 1911, giunse a maturazione proprio in quelle settimane di neutralità dichiarata dell’Italia e del suo PSI.

Preceduto da un articolo con il quale il suo compagno di cammino, verso l’interventismo, Filippo Corridoni spiegava, sul giornale sindacalista rivoluzionario l’Avanguardia, le ragioni storiche e rivoluzionarie della guerra che si stava combattendo in Europa (2), Mussolini ufficializzò la propria svolta interventista con un famoso editoriale sull’Avanti nel quale proponeva il passaggio da una neutralità assoluta e passiva ad una neutralità attiva. Egli indicava, in quell’editoriale, la necessità politica di riconsiderare la posizione ufficiale del PSI perché l’eventualità dell’entrata in guerra dell’Italia, in un conflitto che sarebbe stato di popolo e non solo borghese, poteva essere l’occasione propizia per la trasformazione delle strutture sociali del Paese.


1915: Mussolini, Corridoni e De Ambris ad una manifestazione interventista


La pubblicazione di quell’editoriale, non concordato con i vertici del PSI, gli costò l’espulsione dal partito. Andandosene, Mussolini ammonì i suoi ex compagni che egli sarebbe rimasto sempre un socialista ed in effetti, nonostante i compromessi con il capitale durante il regime fascista – compromessi che tuttavia non impedirono l’avvio dell’Italia verso l’implementazione di uno Stato sociale che sarebbe sopravvissuto alla Seconda Guerra Mondiale e si sarebbe ulteriormente sviluppato nel secondo dopoguerra –, non si può onestamente dire che non mantenne fede a quella promessa.

Espulso dal PSI, grazie all’aiuto di finanziamenti francesi (la Francia era interessata a finanziare tutto ciò che in Italia si muoveva in senso interventista) ottenuti per la mediazione dell’amico socialista Massimo Rocca, Mussolini fondò Il Popolo dItalia che ancora si definiva, non casualmente, quotidiano socialista ma già inneggiava ad un socialismo popolare della nazione e non più solo della classe. Nel primo dopoguerra il giornale fondato dal duce del socialismo, come lo avevano chiamato i suoi compagni romagnoli in tempi non sospetti, diventò, significativamente nel senso del percorso intrapreso, quotidiano dei produttori e come tale appoggiò, oltre che l’impresa dannunziana a Fiume (3), anche lo sciopero dei lavoratori di Dalmine che invece della bandiera rossa avevano innalzato, nella fabbrica occupata, il tricolore e che invece di sospendere la produzione l’avevano continuata in autogestione.

Riflessioni conclusive per una esegesi storica

L’Italia, tra le potenze europee, entrò per ultima nel primo conflitto mondiale, oltretutto rovesciando le sue alleanze.

Dalla nostra ricostruzione ci sembra evidente che proprio le aspirazioni coloniali dell’Italia, dell’Italietta fuoriuscita dal Risorgimento la quale si riteneva una grande potenza, hanno contribuito in modo determinante ad accendere la miccia della deflagrazione europea e mondiale.

Si potrà obiettare che la guerra italo-turca del 1911 non può ritenersi l’unica scintilla che fece deflagrare la polveriera europea e che, in fondo, se in quegli anni l’Europa tale era, non era certo per responsabilità italiana. Ma, a ben riflettere, non si possono affatto sminuire, così semplicisticamente, le responsabilità dell’Italia liberale nata dal processo risorgimentale. Responsabilità che senza dubbio non furono le sole ma c’erano ed hanno avuto un peso nient’affatto indifferente.

Si deve innanzitutto rilevare – sebbene il fenomeno fu europeo e non solo italiano – che il nazionalismo di fine ottocento ed inizio novecento ha le sue radici nell’ideologia liberale e nel giacobinismo. Liberalismo e democratismo avevano attraversato l’intero XIX secolo ponendo le basi della distruzione, che si realizzò definitivamente con il primo conflitto mondiale, dei grandi ed antichi imperi plurinazionali. Tra questi ultimi quello asburgico si era, nel frattempo, avviato su una strada che lo stava portando ad una trasformazione confederale, con la parificazione giuridica di tutte le nazionalità ricomprese nella compagine imperiale, capace di scemare irredentismi e nazionalismi bellicisti.

Non esiste pertanto alcun effettivo iato – sotto il profilo delle modalità con le quali era stata conseguita l’unificazione statuale della penisola italiana a discapito di una soluzione confederale che anche in tal caso era del tutto possibile se l’imperialismo sabaudo non ci si fosse messo di mezzo – tra il risorgimento liberale e democratico e l’esito nazionalista ed autoritario prima dell’Italia crispina, di fine ottocento, e poi dell’Italia fascista della nazionalizzazione e socializzazione delle masse. Vi è un innegabile filo rosso di continuità, pur tra molte discontinuità più che altro ideologicamente occasionali.

In questo senso, l’imperialismo sabaudo che aveva già colonizzato il meridione italiano ha trovato continuità, con perfetta coerenza, nell’imperialismo italiano il quale mirava alla colonizzazione del nord Africa alla ricerca – il motivo diventerà uno slogan nell’Italia fascista – di un posto al sole tra le grandi potenze europee. Che si trattasse di meridione italiano o di Africa la spinta coloniale del Nord, capitalista, verso Sud è evidente.

La guerra italo-turca del 1911, con il suo allargamento nell’Egeo, mise in movimento l’intero fragile equilibrio balcanico ossia della regione europea dove, da anni, si stavano dando appuntamento tutte le tensioni geopolitiche dell’epoca nella contesa tra le potenze del momento: Inghilterra, Russia, Austria, Germania, Francia, Turchia.

Certamente l’irredentismo dei piccoli Stati balcanici ci ha messo del suo nella marcia verso la catastrofe – e questo dimostra ancora una volta quanto i nazionalismi liberali ottocenteschi abbiano aperto la strada allo sciovinismo bellicista novecentesco – ma se l’Italia non avesse messo in difficoltà la sublime porta, già di per sé alle prese con i suoi tanti problemi interni, molto probabilmente quei piccoli Stati non avrebbero avuto – o almeno non avrebbero avuto in quel momento e per responsabilità italiana – l’occasione di spartirsi i resti europei del vecchio impero ottomano. Con la conseguenza di rafforzare una piccola e presuntuosa potenza regionale, la Serbia, che, protetta da Russia, Francia ed Inghilterra, si mise a capo dell’irredentismo slavo procurando all’Impero austro-ungarico, colto in una fase delicata del suo processo di confederalizzazione contro il quale si opponevano ungheresi ed una parte dell’elemento etnico di lingua tedesca, tanti problemi da costringerlo, dopo l’attentato di Sarajevo, goccia che fece traboccare il vaso, a muoverle guerra nell’intento di sistemare le cose nella regione balcanica ma, purtroppo, ottenendo la generale deflagrazione prima europea e poi mondiale.

La Prima Guerra Mondiale fu la fine dell’Europa, benché gli europei, che si illudevano ancora di essere al centro del mondo, dovettero attendere altri vent’anni per rendersene definitivamente conto, dopo un’altra disastrosa guerra mondiale.

Nel 1914-18 finì senza dubbio l’Europa tradizionale o ciò che di essa rimaneva. Il crollo dell’Impero asburgico ha rappresentato la fine – che i governi massonici di Londra e Parigi perseguirono come uno degli obiettivi principali del conflitto – dell’Europa cattolica ossia dell’ultimo residuo della Cristianità, in via di modernizzazione mediante la confederalizzazione che gli avrebbe consentito di sopravvivere.

Carlo I d’Asburgo
   Beato Carlo I d’Asburgo
Nel 1916 morì Francesco Giuseppe e, essendo stato assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando, gli subentrò al trono, per linea ereditaria collaterale, il nipote Carlo I d’Asburgo. L’ultimo imperatore è stato fatto beato nel 2004 da Giovanni Paolo II. Carlo, infatti, si adoperò in tutti i modi, attraverso la diplomazia asburgica, quella vaticana e quella che gli derivava dalla stretta parentela con diversi aristocratici francesi dalle buone entrature governative, per far cessare la guerra con un anticipo di due anni rispetto alla data nella quale poi effettivamente cessò. Carlo si muoveva, sul filo del rasoio delle alleanze, a dispetto dell’alleato germanico che, infatti, diffidava di lui e del suo cattolicesimo di pace.

La figura di Carlo d’Asburgo, quasi che la Provvidenza abbia voluto lasciare ai posteri un segno di cosa fosse la santità di una monarchia tradizionale, si staglia in modo impressionante, per altezza spirituale, sullo sfondo della grande tragedia europea e mondiale di quegli anni fatali.

Fu lui, mosso dalla cristiana considerazione delle sofferenze quotidiane dei soldati al fronte, ad imporre che a corte si mangiasse solo pane nero e si eliminassero radicalmente tutte le spese inutili. Fece in modo che ai soldati fosse recato ogni possibile conforto e che si rispettassero in ogni modo possibile anche i prigionieri ai quali si dovevano, secondo i suoi ordini, recare le stesse cure dei sodati imperiali. Purtroppo non sempre ubbidito, Carlo si oppose con fermezza, nonostante questo gli costasse uno scontro con l’alto comando imperiale e con l’alleato tedesco, a qualsiasi ipotesi di bombardamento sui civili ed all’uso dei gas tossici sui fronti austriaci.

Dopo la proclamazione nel 1918 della repubblica austriaca ed un tentativo di concerto con il Papa di conservare almeno la corona ungherese di Santo Stefano – tentativo che abbandonò quando comprese che insistere avrebbe provocato una guerra civile –, andò esule, insieme alla famiglia, a Madera, in Portogallo, dove morì nel 1922, circondato dall’affetto della consorte Zita di Borbone-Parma e dei suoi figli (tra i quali Otto, scomparso di recente agli inizi del luglio di quest’anno), ed invocando da Dio la pace per i suoi popoli. Le sue ultime parole furono Gesù Cristo.


Re Carlo IV d
Ungheria con la corona di Santo Stefano


Con la morte di Carlo veniva ratificata la fine epocale dell’Europa tradizionale.

Ma il vuoto mitteleuropeo lasciato dall’Impero austro-ungarico fu tragicamente riempito dal nazismo e dalla mala pianta del comunismo ed i popoli del vecchio impero non conobbero affatto quella pace che, paternamente, il loro ultimo imperatore aveva invocato per loro, da Cristo, sul letto di morte.

Se l’Europa che, con l’impero asburgico, moriva nel 1918 era quella tradizionale, non migliore sorte attendeva l’Europa moderna, nata a Vestfalia nel 1648, che credeva di aver trionfato. Come si diceva poc’anzi, gli europei si illusero di essere ancora al centro del mondo. In realtà la politica mondiale, dopo il trattato di Versailles (1919) che pose fine alla guerra, ormai non era più eurocentrica. Se gli imperi coloniali di Francia ed Inghilterra ancora si ergevano in apparenza possenti (solo in apparenza, però, visto come essi crollarono repentinamente nel secondo dopoguerra), l’Europa uscita dal primo conflitto mondiale era già un continente prossimo a quella divisione che sarebbe stata definitivamente ratificata a Yalta nel 1945 e che avrebbe trovato motivazioni anche nel nazismo che aveva travolto il vecchio continente, benché – è necessario ribadirlo con forza e chiarezza – il nazismo aveva trovato spazio per proliferare, facendosi paladino delle ragioni dei popoli tedeschi contro le – e tali erano veramente! – ingiustizie di Versailles, proprio nello spazio improvvidamente lasciato vuoto dai vincitori del primo conflitto mondiale con la loro decisione di appoggiare gli irredentismi nazionalistici che ambivano alla scomparsa dell’Impero asburgico.

Il quadro sopra descritto fu l’esito delle conseguenze di due eventi bellici intercorsi nel 1917, ossia nel pieno della guerra europea e che contribuirono a farla diventare mondiale.

In Russia la rivoluzione, prima menscevica e poi bolscevica, aprì la strada al comunismo che nel 1945 si sarebbe impadronito di mezza Europa e nei cinquant’anni successivi di mezzo mondo. L’imperialismo sovietico, che riprendeva d’altronde anche alcuni motivi tipici della politica espansionista della Russia zarista, iniziò proprio in quel 1917 la parabola che avrebbe portato l’Unione Sovietica ad essere la superpotenza che è stata fino al 1991 (4).

A Fatima, in Portogallo, ossia al polo opposto dell’Europa, il Cielo intervenne, in coincidenza con gli avvenimenti che andavano sconvolgendo la Russia, ammonendo del pericolo che sorgeva ad Est. Tuttavia bisogna osservare che, nel corso del XX secolo, è prevalsa una lettura della rivelazione mariana troppo condizionata in senso esclusivamente anti-comunista. Una lettura che, a seguito degli eventi del 1989, non regge più laddove si pretenda di presentarla ancora in quella chiave, come fanno molti gruppi catto-conservatori in odore di filo-americanismo. Non si riflette, infatti, abbastanza sul fatto, evidente, che la profezia di Fatima non si è ancora affatto conclusa. Non solo perché, come sostengono con dovizia di argomenti diversi esegeti, la profezia dell’assassinio di un Papa, che è la parte centrale del cosiddetto terzo segreto, non si è ancora avverata, dal momento che Giovanni Paolo II non è stato affatto assassinato ma solo ferito (e di tale ferimento ha piuttosto profetizzato un’altra rivelazione mariana ovvero quella di La Salette), ma soprattutto perché non si è ancora realizzata la promessa finale di Maria circa il trionfo del Suo Cuore Immacolato (leggasi: il ritorno del mondo alla fede cristiana) che, evidentemente, non era rivolta solo al trionfo della Chiesa sul comunismo ma anche sul liberalismo occidentale, non ancora storicamente debellato.

Se, infatti, nell’Est europeo appariva la potenza del comunismo, in quello stesso 1917, intervenendo nella guerra, con 175.000 uomini che raggiunsero alla fine del conflitto i due milioni, a fianco delle potenze occidentali, si affacciarono sul suolo europeo anche gli Stati Uniti. L’ideologia missionaria americana, di matrice puritana e codificata in termini politici dal presidente Monroe in pieno XIX secolo, quella per la quale gli Stati Uniti sarebbero investiti di un «destino manifesto», di una «missione» consistente, pur se da una posizione di isolamento rispetto agli altri Stati, nell’esportazione della libertà e della democrazia in tutto il mondo, ebbe così modo di fare la sua prima prova globale.

Thomas Woodrow Wilson
   Thomas Woodrow Wilson
Nel primo dopoguerra il presidente americano Wilson impose agli europei, sia ai vincitori che ai vinti, il suo programma democratico consistenti nei famosi 14 punti. Un programma che contemplava, al decimo punto, una vaga garanzia per la sopravvivenza dell’Austria-Ungheria e che non fu seguìto proprio e solo su questo punto, a causa della volontà annichilatrice anglo-francese.

Gli altri punti di tale programma furono, invece, ampiamente recepiti nel Trattato di Versailles soprattutto con riguardo al suo punto conclusivo: quello che prevedeva la costituzione della Società delle Nazioni, antefatto della successiva ONU.

Tale organismo internazionale, al quale tuttavia gli Stati Uniti non aderirono, negli anni Trenta non si dimostrerà affatto all’altezza del suo ruolo di arbitro internazionale dei conflitti, essendosi ben presto rivelatosi per quello che era, e per il quale era in fondo stato concepito, ossia il paravento gius-internazionale dell’egemonia franco-inglese in Europa (come l’ONU, poi, nel 1945, che altro non sarebbe stata che la maschera legale dell’egemonia mondiale sovietico-americana).

Il programma wilsoniano aveva alla sua base il principio di autodeterminazione dei popoli. Tuttavia si trattava di un principio del tutto astratto ed avulso dalla storia dei popoli e che, pertanto, era assolutamente difficile da concretizzare se non a costo di tradirlo o di applicarlo con metodi poco liberali.

Esempi di tale applicazione furono la creazione della Jugoslavia, che costrinse gli altri slavi a sottostare all’egemonia serba, e la creazione della Cecoslovacchia, nella cui compagine i cattolici slovacchi e le minoranze tedesche dei Sudeti (sulle quali fece leva Hitler per annettere quelle regioni alla Germania nel 1938) furono sottoposte allo strapotere, protestante, ceco e boemo (5). Sia la Jugoslavia che la Cecoslovacchia non hanno poi retto alla prova dei fatti.

Ma il programma wilsoniano, astratto perché basato su una visione astrattamente umanitaria, non teneva affatto conto delle ragioni complesse della storia dei popoli. Risultò, quindi, difficilmente applicabile anche in tanti altri casi, come subito dimostrarono le tensioni tra gli Stati europei circa le questioni di confine. Il caso che fu immediatamente più palese fu la questione dell’italianità di Fiume, città contesa al nostro Paese dalla neonata Jugoslavia.

Il problema stava nel fatto che nell’astratta visione wilsoniana si pretendeva di ritagliare i confini degli Stati nazionali su basi di presunta omogeneità linguistica ed etnica in modo da far scomparire queste stesse differenze in nome del più generale concetto globalista di Umanità, nella convinzione della realizzabilità dell’illuministica Repubblica Universale.

Da questa Repubblica Universale – che Wilson vide in fieri nella Società delle Nazioni, con sede a Ginevra, e che, strumento nelle mani dei vincitori, non fu capace di evitare la Seconda Guerra Mondiale accogliendo le istanze revisioniste del Trattato di Versailles, caldeggiate nell’anteguerra, tra gli altri, da un Mussolini ancora vicino a Francia e ad Inghilterra – gli Stati Uniti, in nome del loro magnifico isolamento finalizzato alla preservazione della loro purezza ideale, rimasero distanti: come dire che la legge internazionale doveva vincolare tutti tranne gli americani portatori di una missione che li rendeva automaticamente migliori e pertanto al di sopra di tutti.

Una cosa è, però, certa: il tentativo massonico di Wilson di realizzare una Repubblica Universale Umanitaria non ha affatto dato di sé, sotto il profilo della pacifica convivenza dei popoli, quelle buone prove che invece i secolari imperi plurinazionali, come quello asburgico, erano riusciti a dare tenendo unite genti diverse senza mortificarne eccessivamente le identità ma anche facendo in modo che tali identità non si trasformassero in micidiale nazionalismo irredentista.

Con la Prima Guerra Mondiale, l’Europa fu travolta dai due imperialismi, quello capitalista e quello comunista. Non si è più ripresa da quel colpo mortale ed oggi essa è nient’altro che una povera appendice di un Occidente, scimmiottatore dell’antica Cristianità, che pretende di imporsi, con il suo ateismo devoto, sul mondo intero.

Questo dimostra che i sogni millenaristici, coltivati dai vari nazionalismi ottocenteschi e poi riproposti dalle ideologie nazista e comunista nel novecento, non sono affatto venuti meno con il 1989 ma hanno oggi acquisito una caratura globale la quale non annuncia nulla di buono per il futuro dell’umanità.

Luigi Copertino

(fine)

Libia 1911 - Europa 1914 (parte I)
Libia 1911 - Europa 1914 (parte II)
Libia 1911 - Europa 1914 (parte III)
Libia 1911 - Europa 1914 (parte IV)




1
) Confronta Ilario Fermi, Corridoni, La Tribuna Illustrata, Anno XI, 28 maggio 1933, pagina 15.
2) «La immane catastrofe – scriveva nel 1915 Filippo Corridoni nel suo editoriale – in cui è piombata l’Europa ha fatto crollare come fragili impalcature di palcoscenico tutte le costruzioni ideali ed umanitarie che i popoli avevano eretto in quarantanni di pace e di lavoro fecondo… Ma vi sono avvenimenti che scuotono la fede più cieca ed incrollabile: la guerra europea è uno di quelli. Noi non credevamo al tradimento dei proletari tedeschi ed austriaci: s’è consumato. Quando i nostri governanti ci prospettavano la possibilità di una guerra europea che travolgesse lItalia – e ne traevano conseguenza gli armamenti indispensabili – noi negavamo violentemente e rispondevamo trionfanti che se anche tale ipotesi avesse la possibilità di realizzarsi, lo sciopero generale insurrezionale del proletariato allatto della mobilitazione avrebbe stroncato la guerra sul nascere. Ci illudevamo. I fatti ci hanno dato la più solenne smentita, e noi se non siamo dei caparbi, della gente che vuole avere ragione ad ogni costo, siamo in dovere di riconoscere che non vedemmo giusto, e siamo in obbligo quindi di riprendere in esame tutti i nostri piani di guerra per conformarli allesigenza della mutata situazione». Confronta Tullio Masotti, Corridoni, Casa Editrice Carnaro, Milano, 1932, pagine 87-89. Filippo Corridoni, a differenza di Mussolini solo ferito, morirà, partito volontario, sul fronte del Carso nel 1915. Diventerà, successivamente, una icona del regime fascista ma c’è da chiedersi se effettivamente egli, seguendo l’orientamento produttivista emerso nel sindacalismo rivoluzionario, avrebbe aderito nel 1919 al fascismo sansepolcrista e socialista, poi condotto da Mussolini nel 1920-21 verso il compromesso con le forze conservatrici della monarchia sabauda e della confindustria, oppure sarebbe diventato antifascista, come l’altro sindacalista rivoluzionario e mazziniano Alceste De Ambris, braccio destro di D’Annunzio a Fiume, oppure ancora avrebbe aderito alla fronda di sinistra all’interno del regime per poi passare alla Repubblica Sociale nel 1943.
3) Quella fiumana fu un’impresa ad un tempo nazionalista e socialista, che vide a fianco di D’Annunzio sia il nazionalista Giulietti, sia il sindacalista mazziniano e rivoluzionario Alceste De Ambris e che attirò persino l’attenzione di Lenin, il quale vi inviò il suo commissario politico Cicerin per valutare le possibilità di fare della città istriana un centro rivoluzionario europeo.
4) La Russia di oggi, quella di Putin, è invece un tipico regime fascista (dirigismo economico, integrazione tra le classi sociali, politica di potenza nazionale) caratterizzato in senso nazional-ortodosso. Il ruolo che essa oggi svolge, di bilanciamento della potenza americana che dopo il 1989 sembrava globale, se da un lato ci riporta, per certi versi, al mondo bi-polare con la differenza che oggi sussistono anche altri attori globali come la Cina, l’India ed il mondo islamico, dall’altro lato potrebbe costituire una via di uscita dell’Europa, se solo essa avesse il coraggio di guardare a sé stessa ed alla sua storia, per sfuggire all’abbraccio con gli Stati Uniti: del resto, se le radici di questi ultimi sono certamente europee ma sin dall’origine in polemica, in nome della libertà, con l’Europa papista ed oscurantista (questa la polemica dei puritani fondatori delle prime 13 colonie, utero dei futuri States), sicuramente l’Europa, perlomeno quella mediterranea di radici cattoliche, meglio potrebbe intendersi con il mondo slavo e russo di radici cristiano-ortodosse. Ma queste sono solo ipotesi, o auspici, che saranno eventualmente materia per gli storici del futuro.
5) Edvard Beneš e Tomáš Masaryk, i padri fondatori della Cecoslovacchia, erano massoni anti-asburgici in collegamento e buoni rapporti con i governi di Londra e Parigi: fu naturale per Wilson, con l’assenso franco-inglese, premiarli.



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