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Su Giappone, Italia e Stato sgangherato
27 Settembre 2011
A proposito del mio tema sul perchè i mercati non attacchino i titoli del debito pubblico del Giappone e invece attaccano l’Italia, il lettore Cesco scrive: «Caro Direttore mi dispiace contraddirla, ma in questo articolo c’è qualche inesattezza. ... Se il Giappone stampasse moneta a suo piacimento avrebbe una forte inflazione, ma così non è, infatti da quando ha un forte debito publico non ha più crescita, perchè come noi deve pagare grossi interessi sul debito; la differenza sostanziale è che loro non si sono posti limiti al debito, almeno fino a ora, invece l’Europa sì. C’è ancora una considerazione da fare riguarda al Giappone, ed è che sono un Paese molto unito, lavorono molto e neanche vanno in ferie, hanno delle grosse industrie all’avanguardia ed esportano prodotti eccellenti, pagano tutti le tasse, e con l’altissimo debito che hanno riescono ancora a pagare gli interessi senza problemi, ma anche loro prima o poi devono smettere di accumulare debito. Anche con la Lira ci sarebbero gli stessi problemi, anche senza limiti al debito perchè prima o poi non ce la fai più a crescere per pagare gli interessi sul debito». E il lettore Giorgio aggiunge: «Volevo ricordare, Dottor Blondet, che il debito pubblico del Giappone è pressocchè interamente sottoscritto dagli stessi giapponesi. Grazie». ttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttt ttttt ttttttttttttttttt ttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttt ttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttt ttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttt ttttttttttttttttt ttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttt tttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttttt Ovviamente sono d’accordo con voi, cari lettori. Infatti, se ben leggete il mio articolo, ho scritto che «molte cause si possono citare» per la diversità del Giappone, e del suo debito pubblico, rispetto al caso-Italia. Là, gli interessi sul debito sono mantenuti bassi da vari fattori nazionalistici (i giapponesi non hanno grande propensione a comprare titoli di debito esteri, di Paesi che giudicano in ogni caso meno solidi della loro patria), fattori normativi (le banche nipponiche sono obbligate a detenere una quota rilevante delle loro riserve in attivi sicuri, che guarda caso sono i BOT giapponesi; attivi di Stati esteri non contano, in quanto non sono calcolati come attivi dal ministero delle Finanze). A tutte le altre cause che avete citato voi, ne vorrei aggiungere però una decisiva: il prestigio, l’alta qualità e l’immensa competenza che in Giappone ha quel che Carl Schmitt chiama «lo Stato amministrativo», distinto dallo «Stato legislativo» o politico. Parlo dell’apparato tecno-burocratico pubblico, che assicura la continuità e l’efficacia del governo concreto, qualunque sia il partito al potere o la maggioranza nella Dieta (parlamento). Grandi direttori generali di ministeri, funzionari di carriera, selezionati dalle migliori università, che affiancano i ministri politici (e passeggeri) dettano la «politica industriale» ed economica di lungo termine ai politici e alla Dieta (il parlamento). In passato ho avuto modo di studiare – scusate il gioco di parole – il mitico MITI, Ministry of International Trade and Industry, il quale, attraverso una stretta relazione con le industrie private ed una funzione informale di dirigismo di dette industrie, ha di fatto lanciato lo sviluppo post-bellico e la modernizzazione industriale nipponica, sia fornendo protezione contro la concorrenza delle importazioni, sia consulenza tecnologica e sostegno nell’acquisizione di tecnologie estere, sia nell’accesso a valute estere e assistenza nelle fusioni fra aziende. S’intenda, questa burocrazia pubblica non è stata esente da errori: in anni lontani, il MITI iniziamente rifiutò alla Sony l’acquisto della tecnologia dei transistori abbandonata dagli americani (anche se cambiò idea due anni dopo, cioè con rapidità notevole). Ma nel complesso, il MITI e il ministero delle Finanze sono alla base del miracolo economico giapponese, insieme all’alto tasso di risparmio dei privati (quasi il 32% del PIL negli anni ‘70) che rendeva disponibili i grandi capitali necessari alla formazione di colossi come Sony, appunto, e Toyota. Oggi molte cose sono cambiate, soprattutto perchè il potere politico dovette piegarsi alle ingiunzioni e minacce statunitensi e rivalutare lo yen. Ma l’eccellenza della classe burocratica permane, e fa del Giappone la potenza che sappiamo, nonostante il succedersi di governi politici scoloriti e non esenti da corruzione. Ora, temo, è appunto lo Stato amministrativo ad essere stato sgangerato dalla politica italiana. Anche se mai il nostro Paese ha avuto una burocrazia pubblica paragonabile per competenza e prestigio a quella nipponica, e nemmeno a quella francese uscita dall’Ecole Nationale d’Administration (ENA), qualcuna delle qualità superiori dovette esistere anche da noi in passato. Basti pensare a quella burocrazia pubblica che aderì alla Repubblica di Salò essenzialmente mettendo se stessa fra il Paese e la vendetta tedesca (Hitler in persona minacciò di trattare l’Italia «peggio della Polonia», come Paese occupato e abbandonato al saccheggio, se Mussolini non avesse accettato di formare il nuovo governo nel Nord): questo Stato amministrativo, nonostante le rovine, gli sfollamenti e i bombardamenti, riuscì ancora a provvedere ai bisogni alimentari con provvedimenti efficaci per l’agricoltura (il raccolto granario del ‘45 fu uno dei maggiori della storia). Il ministero delle Finanze, capeggiato da Domenico Pellegrini Giampietro, un giurista di Napoli prestato alla politica, riuscì a mantenere il valore della lira e a scongiurare l’inflazione, nonostante le SS di Kappler avessero sequestrato le riserve della Banca d’Italia (3 miliardi di lire di allora, di cui 2 in oro), e Berlino avesse preteso che l’Italia di Salò pagasse le spese della guerra che conduceva al posto degli italiani, e per di più dopo l’8 settembre avesse messo in circolazione una moneta tedesca d’occupazione. Pellegrini Giampietro riuscì ad ottenere dai tedeschi dopo poche settimane (25 ottobre del ’43) il ritiro di questa moneta, che faceva incombere il disastro dell’inflazione, facendo valere lo status di alleato e non di nemico della RSI. Dopodichè riprese saldamente in mano l’economia e salvaguardò il potere d’acquisto (e dunque i salari); nonostante il tributo pagato all’armata tedesca e le riparazioni dei danni causati dai bombardamenti, Pellegrini Giampietro, con operazioni finanziarie straordinarie, riuscì a colmare l’enorme passivo pubblico, 300 miliardi, chiudendo il bilancio 1944 persino con un attivo. Qualcosa di questa tradizione dovette continuare anche nel dopoguerra, quando il potere politico passò alla DC. A lungo, direttori generali, alti funzionari pubblici, ragionieri dello Stato, prefetti – che incarnavano la continuità scavalcando le continue crisi di governo – mantennero uno status di un certo rilevante prestigio, di fronte alle pretese d’occupazione dei politici. Ricordo persino dei grand commis, alti dirigenti di imprese pubbliche o IRI, magari di nomina politica, che – una volta pagato il tributo all’occupante democristiano – tennero la linea, ed erano competenti nel settore, resistendo a lungo a quella che sarà chiamata «lottizzazione». I massimi dirigenti dell’INPS, allora, erano non capi dei sindacati come oggi, bensì esperti di calcolo attuariale. Le mutue sanitarie erano governate da esperti del settore. Basti pensare alla RAI di Ettore Bernabei, democristiano di ferro, che mantenne l’emittente di Stato nel quadro di una precisa idea del bene comune, e fece da argine alla deriva immoralistico-consumistica che domina le televisioni di oggi. La stessa Azienda Tranviaria Milanese (ATM) ebbe come presidenti e direttori generali docenti del Politecnico, che per lo più non reclamavano emolumenti, e non come oggi dei politicanti di seconda fila in quota a La Russa o in quota a Pisapia. Da questi ed altri fatti possiamo indovinare che nella nostra alta burocrazia pubblica restasse una traccia di quelle virtù che brillano, alla massima potenza, nella burocrazia nipponica. Sono virtù che, direttamente o no, hanno a che fare con la sovranità e con le forti responsabilità che questa comporta (perchè quando sei sovrano, sei il responsabile di ultima istanza verso i cittadini): ne elenco qualcuna. Patriottismo. Quella oggi indefinibile virtù che si chiamava senso dello Stato, nutrita anche da buona cultura storica. Competenza acquistata con studi e avanzamenti di carriera non automatici. E prestigio: al MITI come in qualunque ministero giapponese, il prestigio degli alti gradi non solo supera il prestigio dei politici e dei governanti, ma di più: quelle personalità hanno un’idea troppo alta di sè, della loro dignità e competenza, per farsi lottizzare, per dovere il loro posto al fatto di mettersi in quota di quello o quest’altro partito. Men che meno, la burocrazia giapponese è sensibile alle mazzette e all’arricchimento con mezzi discutibili. Certo, queste virtù sono facilitare in un regime a partito unico. E la burocrazia italiana continuò a funzionare tutto sommato degnamente fino a quando anche la DC regnò, praticamente, come partito unico. Il degrado avvenne, penso, quando la Democrazia Cristiana si associò nel governo altri partiti, a cominciare dai socialisti. Allora cominciò la corruzione del sotto-governo, l’occupazione e la lottizzazione degli enti economici, e l’assegnazione-spartizione dei posti dirigenziali a gente che non aveva alcuna competenza, ma una precisa tessera di partito. Basti dire che ad un certo punto Francesco Cossiga, allora ministro degli Interni (e per di più docente di Diritto Pubblico, lo sciagurato), cercò di mettere al posto dei prefetti di carriera dei nominati, e precisamente dei candidati trombati alle elezioni. L’apparato ci mise del bello e del buono per far capire a questo sedicente docente di diritto che i prefetti erano le orecchie e gli occhi dello Stato sul territorio, e che da allora, mettendo prefetti DC, PPI, PRI, e magari PCI, lo Stato sarebbe rimasto cieco e sordo. Il fatto che Cossiga rinunciò alla sua idea mascalzona dice, almeno, che un apparato cosciente dei suoi compiti e del suo prestigio, dotato di senso dello Stato, ancora esisteva. Oggi, ho paura che non esista più. Lo suggeriscono la dilatazione della spesa pubblica, il politicantismo usurpatore della magistratura con la conseguente perdita della certezza del diritto, il mancato controllo di legittimità sugli impegni di spesa, la non-prevenzione degli abusi, l’incapacità di attuare grandi opere collettive. Per tutti questi compiti esistevano precise funzioni ed organi, oggi sgangherate dalla lottizzazione. Le Regioni si sono sottratte al controllo della Corte dei Conti e della Ragioneria dello Stato, in nome dell’autonomia: non a caso la spesa pubblica regionale aumenta più di quella statale, che almeno a qualche controlo contabile resta soggetta. Certamente, è persa la tradizione di patriottismo che deve assolutamente reggere una casta, la cui carriera non gode per lo più delle soddisfazioni meritocratiche di cui si gode, eventualmente, nel settore privato: un lavoro anonimo benchè di grande responsabilità, una carriera già tracciata in anticipo, va sostenuto psicologicamente dal senso di operare per lo Stato, la continuità della nazione nei secoli. La lealtà verso la patria è oggi sparita, sostituita dalla lealtà verso il partito o, ancor peggio verso il capo-bastone di partito che «ti ha messo su quella poltrona». Lo sgangheramento dello Stato amministrativo italiano ha raggiunto, credo, la sua fase terminale. Non si vede solo dalla sua trasformazione in una congerie di caste incompetenti e parassitarie. Lo si è visto, in modo tragicomico, nelle ultime vicende della Finanziaria, o delle molte finanziare varate discusse e corrette più volte in una settimana. Le colpe di Berlusconi, di Bossi e di Tremonti in questi vacillamenti e giravolte ridicoli sono enormi. Ma, evidentemente, i politici folli, furbetti e ignoranti non hanno avuto il sostegno competente delle direzioni generali, dello Stato-amministrativo, la forza stabile e costante ancorchèpoco visibile che – in altri Paesi, in altre patrie – consiglia i ministri e resiste alle loro propose più folli, fa presente i danni collaterali di idee avventate, valuta nella riservatezza necessaria in fase preliminare, fa i conti prima, e coordina i provvedimenti con la legislazione storica precedente. Lo Stato amministrativo, insomma, in Italia – temo – semplicemente non c’è più, o ha smesso di funzionare. Tutto è politica, ossia corruzione, ignoranza delinquenziale nell’uso della forza dello Stato e dei suoi complessi apparati, frivola leggerezza e incompetenza legiferante. Ora vediamo gli effetti di una politica che ha guastato il motore amministrativo, ma questa privazione del motore sarà addirittura fatale nelle tempeste finanziarie ed europee che cominciano. C’è un apparato capace di imitare il ministero di Pellegrini Giampietro, che salvò la lira nell’apocalisse della storia? C’è qualcuno che sa ancora come fare, poniamo, se dovessimo tornare alla lira?
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