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Affamano ancora Gaza
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Un gruppo di Medici Senza Frontiere venuto dalla Grecia, bloccato da due giorni al valico di Rafah, con tutti i suoi medicinali ad aspettare sotto il sole. Al valico di Kerem Shalom, gli israeliani non lasciano passare nè medici nè volontari di soccorso nè i giornalisti, ma «solo le merci»: 80 camion al giorno invece dei 475-500  normali. Una immane quantità di Tir carichi di cibo aspetta nei parcheggi. Al valico di Eretz i giornalisti sono ammessi: ma «solo otto ogni giorno, di cui sei israeliani». Lo racconta Michael Jansen, l’inviato dell’Irish Times (1).

Il giornalista, insieme a quattro colleghi svedesi, respinto da Eretz, ha affrontato 14 ore di viaggio nel Negev per raggiungere Rafah in Egitto, sperando di passare: niente. E’ rimasto lì fra una torma di troupes TV e di corrispondenti che trascinano la loro valigia a rotelle e telefonano alle loro redazioni, chiedendo di mandare fax e fax a qualche autorità competente. Invano.

«Gaza è chiusa fuori dal mondo», scrive Jansen: «Sono tenute fuori anche organizzazioni umanitarie internazionali e ONG di soccorso. Tutti noi sospettiamo che le autorità stiano socchiudendo i valichi per impedire che il mondo sia inondato di storie di orrore, come avverrebbe se tutti i giornalisti qui in attesa entrassero insieme».

I grandi media abbassano la notizia, anche la BBC ha fretta di fare diventare Gaza una storia superata. Torna il silenzio, e il milione e mezzo di prigionieri resta consegnato alla fame, con la complicità europea; a una catastrofe  umanitaria aggravata, visto che i bombardamenti hanno distrutto tutte le strutture civili. Gli ospedali sovraffollati di feriti e di mutilati dalle bombe ad alta densità mancano di carburante per i generatori. I telefoni fissi non funzionano.

I pochi che sono entrati, di storie d’orrore non fanno fatica a trovarne. Donald McIntyre dell’Independent ha raccolto la testimonianza di un padre, Abed Rabbo di Jabalya: «Soldati isareliani hanno sparato a due mie bambine, uccidendole. Sotto i miei occhi» (2).

E’ accaduto alle 12.50 del 7 gennaio. Un carro armato si piazza davanti alla casa e un megafono ordina in arabo di uscire. Esce tutta la famiglia, con la nonna di 60 anni che agita una sciarpa bianca.

«Sul tank c’erano due soldati che mangiavano patatine», racconta Rabbo: «Poi ne esce un terzo dalla torretta, con un fucile, e comincia a sparare ai piccoli. Da 15 metri, con un M16. Uccide Amal, di 2 anni, e Suad, di 6. Viene colpita anche la nonna. La terza figlia, Samer, di 4 anni, è gravemente ferita alla spina dorsale, ora è in un ospedale del Belgio in terapia intensiva. Il padre, sotto i cui occhi si è svolto il massacro (ironicamente, lavora per Fatah e non per Hamas) sostiene che i soldati avevano i riccioletti che uscivano dall’elmetto: estremisti religiosi, spesso raggruppati in corpi speciali, cui piace assassinare animali parlanti».

La storia è stata poi confermata dalla BBC. Medici egiziani che hanno ricevuto bambini feriti durante le tre settimane di guerra nei loro ospedali, hanno segnalato l’enorme numero di piccoli con ferite di proiettile di piccolo in testa.

Tutto ciò, si deve pensare, in pia ottemperanza al Salmo 137: «Figlia di Babilonia, votata alla distruzione: beato chi ti ricambierà di quanto hai fatto a noi! Beato chi prenderà i tuoi pargoli e li sbatterà contro la roccia».

O più probabilmente in obbedianza al Salmo 109, contro qualunque nemico: «Diventino orfani i suoi figli/ e vedova sua moglie./ Vaghino i suoi figli mendicando/ siano scacciati dalle loro rovine». La parola si è adempiuta alla lettera per opera del religioso Tsahal.

Rory McCarthy del Guardian riferisce (3) che 48 membri di una sola famiglia - i Samouni, contadini -  sono stati uccisi lunedì 5 gennaio. La giornalista legge le scritte sui muri, in ebraico e in inglese, che gli eroici soldati hanno lasciato sulle pareti semidistrutte delle due o tre casette dei Samouni:

«Arabi dovete morire», «Crepate tutti», «Fate la guerra non la pace», «Uno giù, altri 999.999  devono andare»; poi un graffito che imita rozzamente una lapide mortuaria, con sopra scritto: «Arabi, 1948-2009». Nel 1948, terroristi talmudici comandati dal futuro premier Begin massacrarono 300 arabi nel villaggio di Deir Yasin. Molti anche graffiti che raffigurano la stella di Davide, e la scritta: «Gaza, siamo arrivati».

Oltre a queste testimonianze, i soldati, scrive la giornalista, «hanno lasciato i loro particolari detriti: cassette porta-proiettili, barattoli di noccioline con scritte in ebraico, un sacco di plastica contenente ‘High Quality Body Warmer’, decine di sacchi da spazzatura verde-oliva, alcuni vuoti, altri pieni e puzzolenti: le toilettes portatili della truppa». Segno, se vogliamo indovinare, che i 48 membri della famiglia Samouni non sono stati uccisi dall’alto, con le bombe, ma - diciamo - a mano, dagli eroici soldatini piazzatisi in casa loro, che hanno trasformato in casamatta con sacchetti di sabbia.

E i superstiti, sulle loro rovine, continuano ad essere affamati. Gente che già prima, secondo la Croce Rossa, soffriva di malnutrizione cronica in 70 casi su cento. Israele continua il blocco genocida, per un ovvio motivo: a Gaza, c’è ancora Hamas al governo.

Il che significa che l’aggressione totale da terra, dal cielo e dal mare coi grossi calibri, non è servita a niente: un puro atto di malvagità insensata, di idiozia strategica e di nichilismo militaristico.

«Hamas non è stata travolta, non ci riusciamo», ha detto indispettito Benjamin Ben Eliezer, il ministro della infrastruttura nazionale: «Non è solo una organizzazione militare, è un’ideologia, e quella rimane».

Avigdor Lieberman, capo del partito razzista-rabbinico Ysrael Beitein (Israele Casa Nostra)  ha tratto la tipica conclusione ebraica: «I soldati hanno vinto, i politici hanno perso. Non hanno lasciato che l’esercito finisse il lavoro».

Dunque altre stragi, o almeno, raggiungere lo scopo con la morte di massa per fame. La cosa è sicura, perchè la brava gente israeliana è insoddisfatta del risultato ottenuto da Kadima con le stragi: sicchè a vincere le elezioni in Sion sarà il Likud, la destra estrema, che si alleerà con Lieberman, che ha come programma la estinzione dei palestinesi.

Il che significa che gli israeliani, un’altra volta, si sentono sconfitti. L’esercito ai loro occhi non si è riabilitato dal colpo subito da Hezbollah. E l’angoscia esistenziale cresce.

Interessante a questo proposito la critica che viene non da un anti-israeliano, ma da William Lind, un analista strategico fra i più rispettati. «Israele continua a non capire la guerra di quarta generazione», scrive Lind sul Defense & National Interest del 18 gennaio (4).

Il ragionamento di Lind è che Israele, per durare, ha interesse che ai suoi confini ci siano degli Stati stabili, non «entità di quarta generazione» come Hamas. Gli Stati sono i nemici naturali di queste «entità» armate non-statali, ed è dunque essenziale che Israele accetti che gli Stati confinanti siano «forti, moralmente oltre che fisicamente» per contrastare i gruppi come Hamas o Hezbollah.

«In termini concreti», scrive Lind, «significa che Israele dovrebbe essere molto interessata alla forza e solidità di Egitto, Giordania, Siria e Iraq».

Invece, «l’attacco israeliano a Gaza ha gravemente minato la legittimità di tre dei quattro, con la sola eccezione della Siria. Egitto e Giordania hanno relazioni diplomatiche con Israele, l’Egitto è stato un fin troppo evidente partner di Israele nell’assediare Gaza... Sul piano morale, ogni bomba che Israele ha lanciato su Gaza è caduta anche sul Cairo, Amman e Baghdad», indebolendone i governi. Ciò che, alla lunga, finirà per ridurre questi Stati a Stati-falliti, generatori di «entità di quarta generazione».

«Il Likud è così ignaro della guerra di quarta generazione che propone per Israele una strategia di potenza, dettata dai neocon americani, che persegue la distruzione di ogni Stato arabo», continua Linda: «L’Iraq è stata la prima vittima di questa strategia, grazie al potere che i neocon hanno esercitato sull’amministrrazione Bush. Se il Likud vince le elezioni, c’è ragione di credere che spingerà ancora questa strategia, spingendo Israele in un gorgo» mortale.

E’ parimenti interesse di Israele «avere uno Stato palestinese forte in Cisgiordania», e invece con l’attacco a gaza «ha ottenuto di indebolire Fatah a favore di Hamas. Israele s’è sparata sul piede».

Il ragionamento vale persino per Hamas: «Vincendo le elezioni a Gaza, Hamas è diventato uno Stato... Israele avrebbe dovuto accettare Hamas come Stato, aprire i valichi, lasciare che Hamas si ingolfasse in tutti i problemi di un governo... Hamas sarebbe stato gradualmente ‘normalizzato’, anche se non voleva».

«Ora, con la sua invasione, Israele rischia di ridurre Gaza ad un caos ingovernabile... Hamas è ancora al timone; se vuole far cessare il lancio di razzi, Israele deve accordarsi con Hamas... è suo interesse vitale non  essere circondata da quei caos senza-Stato che sono il brodo di coltura naturale delle guerre di quarta generazione».

Il ragionamento di Lind ha due falle: presuppone che la politica di Israele sia razionale, e che voglia vivere in pace e sicurezza entro contini certi, a fianco di Stati di cui riconosce la legittimità e che non intenda minacciare. Il che è contrario alla psiche collettiva israeliana, lo spirito di Masada.

Tuttavia, l’avvertimento dell’analista strategico mantiene il suo valore: devastando gli Stati circostanti e non trattando con Hamas, Israele si vota - «vittoria» dopo «vittoria» - al suicidio.
Appunto, Masada.

Fra gli Stati alleati di fatto a Sion, che Israele ha minato alle basi, Lind dimentica di citare il più importante: l’Arabia Saudita.

La monarchia saudita ha tenuto bordone ad Israele contro Hamas, in cui vede una quinta colonna dell’Iran sciita nell’area sunnita. Secondo Meyssan di Réseau Voltaire, il regime dei Saud ha perfino finanziato l’aggressione anti-Hamas.

Oggi, il crudele massacro di Gaza, che non ha condotto ad una soluzione finale, ha un contraccolpo sinistro: fonti d’intelligence segnalano una spaccatura  sempre più profonda all’interno stesso della famiglia reale saudita, con le sue centinaia di prìncipi fannulloni e dediti a congiure di palazzo.

La non-sconfitta di Hamas, e le atrocità diffuse dalle TV arabe, costringono la fazione «liberale» e filo-americana (guidata dal principe Talal) ad accodarsi agli umori «antisemiti» delle masse,
interpretati dalle prediche degli imam wahabiti. Nessuna fazione può permettersi di contrastare  l’odio popolare per Giuda, riacceso alla grande.

E ciò complica le tensioni già gravi nel clan principesco, pieno di pretendenti al trono del vecchio re Abdullah; il principe Muqrin e il principe Saud, che guidano una fazione opposta al principe Bandar, suonano tutti insieme - per forza - la grancassa anti-israeliana, e con toni fanatici.

E’ possibile che presto il più ricco e «solido» alleato degli USA e di Giuda nell’area diventi uno di quei «caos senza-Stato» da cui nascono entità di quarta generazione: irregolari, mai mai abbastanza armate per prevalere su Israele, ma ingovernabili, irriducibili e alle lunga, invincibili con mezzi militari.




1) Michael Jansen, «Waiting and waiting for entry to the devastation that is Gaza», Irish Times,
21 gennaio 2009.
2) Donald McIntyre, «Gaza: ‘I watched an Israeli soldier shoot dead my two little girls’ »,
Independent, 21 gennaio 2009.
3) Rory McCarthy, «Amid dust and death, a family’s story speaks for the terror of war», Guardian, 19 gennaio 2009.
4) William S. Lind, «Israel doesn’t get 4GW», Defense & National Interest, 18 gennaio 2009. Dello stesso parere Patrick Cockburn su l’Independent, il 23 gennaio: «The Islamic movement Hamas is taking over from Fatah, the party created by Yasser Arafat, as the main Palestinian national organisation as a result of the war in Gaza, says a leading Fatah militant. ‘We have moved into the era of Hamas which is now much stronger than it was’, said Husam Kadr, a veteran Fatah leader in the West Bank city of Nablus, recently released after five-and-a-half years in Israeli prisons.
‘Its era started when Israel attacked Gaza on 27 December’. The sharp decline in support for Fatah and the discrediting of Mahmoud Abbas, President of the Palestinian Authority, because of his inertia during the 22-day Gaza war, will make it very difficult for the US and the EU to pretend that Fatah are the true representatives of the Palestinian community. The international community is likely to find it impossible to marginalise Hamas in reconstructing Gaza».


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