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Eutanasia degli italioti
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La morte come cura

Mentre faccio altro, sento distrattamente Radio Radicale. A cura della associazione «Luca Coscione», una tizia sta promuovendo «la morte come terapia delle inabilità». La tesi della tizia – che risulta essere ginecologa – è che per le «inabilità» essendo incurabili, la vera, logica terapia medica è l’uccisione degli inabili. Consenzienti, è ovvio: siamo o no liberisti, liberali e libertari?

Confesso che il ragionamento mi pare inattaccabile, nel quadro della ideologia della secolarizzazione e dell’edonismo totalitario di cui i radicali sono l’avanguardia avanzante, ma in cui tutti siamo già immersi. La sofferenza non ha alcun senso nè valore, l’uomo è un essere meramente zoologico, l’aldilà non esiste. Dunque, perchè no?

Alcuni disabili militanti vengono incoraggiati ad approvare; essi lamentano la propria mancanza di «autonomia», ripetono alcuni luoghi comuni del radicalismo, però – stranamente – non sembrano convinti. Esitano a sottoscrivere, a impegnarsi alla propria soppressione.

La tizia pontifica, paterna e superiore verso quegli esitanti. L’esperienza radicale le dice che questo genere di battaglie vengono vinte sempre, dal divorzio all’aborto alla libera droga all’eutanasia, è un percorso unitario e perfettamente corente. Spengo la radio. Scusate, non me la sento di commentare.

«Il papà di Eluana»

Immagino che anche a voi, come a me ormai, la sola menzione del nome «Eluana»  in qualunque media dia la nausea. Quelle voci di giornalisti (più spesso giornaliste) che trasudano pietà per quella che chiamano così familiarmente «Eluana», e ammirazione per il «papà di Eluana», così impegnato nella battaglia dell’amore – vuole farla finita con la figlia in coma da 17 anni. Contrastato da un ministro che cerca, il mostro, di «annullare una sentenza di Cassazione» intimando alle cliniche convenzionate con il Servizio Sanitario di non procedere alla soppressione.

Qui, reprimendo i conati, sale una domanda: ma perchè il caro papà di Eluana, alla sua figlia, non gli spara? Lui, personalmente? Perchè pretende che tutto avvenga in clinica, togliendo a Eluana l’alimentazione e l’idratazione, il che implica intollerabili lungaggini?

Già ha ottenuto la sentenza della Cassazione; quindi ha dalla sua l’ala più progressiva del diritto, tutti i media, e l’atmosfera collettiva in cui è immersa la pubblica opinione. Papà ammazzi la sua Eluana in proprio; non rischia che qualche mese ai domiciliari, i media e i giudici sono pronti a riconoscergli l’alta motivazione morale e civile della revolverata. Lo faccia. Perchè il più l’ha già fatto.

Mi riferisco al modo in cui il «papà di Eluana» ha ottenuto la sentenza di Cassazione a suo favore. Ha dichiarato che, vent’anni fa, Eluana aveva detto a lui che non avrebbe «voluto vivere in quello stato», ossia in coma. Eluana non può confermare nè smentire. La Cassazione ha preso per buona la dichiarazione verbale del «papà».

E’ qui che c’è qualcosa che non va. Di solito i giudici non accettano dichiarazioni verbali fatte da uno a nome di un altro, che non può confermare. Richiedono, come minimo, una manifestazione scritta di volontà  dell’interessato. E non in casi di vita e di morte, ma molto meno importanti.

Se io sostengo che un ricco defunto, magari mio parente stretto, mi aveva fatto erede delle sue sostanze – parlandomene a tu per tu – mica i giudici ci credono. Anche se io dico che il ricco defunto mi voleva dare 5 mila euro soltanto, i giudici non ci cascano. Vogliono vedere un testamento scritto, una lettera autografa, una cambiale firmata dal defunto: fanno i tignosi, per 5 mila euro. Invece, per liquidare «Eluana», si contentano di una auto-dichiarazione del «papà». La prendono per buona e provata.

Vedi, caro «papà», che i giudici sono d’accordo con te, ti fanno l’occhiolino, scavalcano un principio fondamentale del diritto (la volontà di una parte non può essere presupposta in base a testimonianze interessate e incontrollabili, deve essere «provata») per venirti incontro.

I magistrati italiani si lagnano che Berlusconi li «delegittima»; sorvolando sul fatto che loro si delegittimano da sè, minano la loro autorità manipolando i principi del diritto per fare piaceri a chi è loro «amico» contro chi è loro «nemico», o per mostrare la loro adesione all’ideologia alla moda.

Dunque fallo, papà di Eluana: ammazza tu tua figlia. La giustizia te lo consente, chiuderà l’altro occhio. Ne ha già chiuso uno. Si è già suicidata da tempo, la giustizia. Di fronte a questa eutanasia, cosa vuoi che sia quella di Eluana. Solo una conseguenza.

Il «federalismo»

I lettori più giovani prendano nota su chi ha votato a favore della legge-delega che istituisce il federalismo alla Bossi. Perchè di questa legge pagheranno le conseguenze quando saranno vecchi, o di mezza età.

Ai lettori giovani posso trasferire la mia esperienza vissuta di giornalista che, 40 anni fa, vide varare la «grande» riforma delle pensioni, quella che prometteva l’80% dell’ultimo salario dopo 40 anni di lavoro. Già allora era chiaro che la cosa non sarebbe stata sostenibile; lo dicevano i calcoli dell’INPS, allora governata non da sindacalisti, ma da competentissimi contabili «attuariali» con criteri tecnico-assicurativi. Essi furono all’occasione privati del potere, perchè la loro oggettività non piaceva ai politici, e l’INPS – ente istituzionale, ossia delegato di funzioni proprie dello Stato – fu messo in mano a CGIL-CISL-UIL.

La riforma, che mi pare si chiamasse Brodolini dal nome del suo confezionatore socialista, si fondò sul sistema a ripartizione pura: le pensioni non erano più il frutto di investimenti (in immobili e titoli) dei capitali raccolti con prelievo sui salari, ma venivano pagate mese per mese con i soldi prelevati dagli stipendi e salari guadagnati quel mese stesso dai lavoratori. Per funzionare, presupponeva dunque che il monte-salari restasse nei decenni e nei secoli enormemente superiore al monte-pensioni, anzi costantemente aumentasse. Per di più, presupponeva che il lavoro sarebbe stato per sempre di tipo dipendente; dipendente per di più da grandi imprese, dotate degli uffici, delle competenze (e dei profitti intramontabili) per eseguire i prelievi sulle paghe.

In quegli anni di boom e di vigoria della classe dei baby-boomers, era effettivamente così; ma la denatalità era già in corso, il miracolo economico tirava gli ultimi respiri, cedeva sotto gli scioperi degli autunni caldi, l’età del benessere tramontava per dare il passo agli anni di piombo e alla crisi economica semi-permanente in cui da allora siamo immersi.

La «riforma» però rispondeva ad esigenze demagogiche momentanee, e aspirazioni elettorali immediate, e passò. I politici che la votarono sapevano che, quando l’INPS sarebbe diventata un buco, non sarebbero stati chiamati loro a renderne conto. Sarebbero passati i decenni, loro – i colpevoli – sarebbero morti sereni e ben-pensionati nei loro letti; ad altri il compito di disinnescare la bomba che avevano fabbricato a scoppio ritardato.

Oggi abbiamo due lavoratori che mantengono con le loro paghe un pensionato, e perciò il costo del lavoro fra i più cari del mondo insieme ai salari più bassi. E la figura del lavoratore dipendente da grande azienda, regolare nel prelievo e nel versamento dei contributi, è diventata una rarità, sostituita da precari, partite IVA, cococo, che contribuiscono poco e se possono evadono del tutto: giustamente, perchè loro, la pensione all’80% non l’avranno mai, e devono mantenere una torma crescente di vecchi che ce l’ha per «diritto acquisito». Del resto, quei «diritti acquisiti» sono stati a poco a poco limati e ridotti a nulla dai governi di questi ultimi anni, a cominciare da Dini, costretti a pelare la patata ormai bollente lasciata loro dal defunto Brodolini. Ma furbescamente, in modo surrettizio, con la complicità dei sindacati sempre più grassi e sempre più nemici del lavoro, senza dirlo, in modo che «l’opinione pubblica» se ne accorgesse a cose fatte. All’italiana.

La legge sul «federalismo» sarà di questo tipo. Aumenterà i centri di spesa pubblica incontrollata, quindi i tributi; moltiplicherà l’incompetenza e la corruzione. Ma il centro-destra berlusconiano l’ha approvata per tenersi stretto Bossi e i suoi neanderthaliani; Veltroni e il suo PD hanno esercitato «l’astensione costruttiva», perchè contano di portare Bossi e la Lega dalla loro parte.

Insomma, per calcoli bassi di brevissimo termine, questi hanno ipotecato il vostro futuro, giovani lettori. E quando ve ne accorgerete e li cercherete per fucilarli, saranno già serenamente defunti nei loro letti di piume, arricchiti dai loro «diritti acquisiti» che – loro – riescono a difendere nonostante tutte le crisi che fanno pagare a voi.

Onore a Casini, il solo che ha votato contro, e minaccia un referendum. Ma non godrà i legittimi frutti, in termini di voti popolari. E’ il bello della democrazia, unito al potere del tempo che passa.

Il federalismo dovrebbe almeno partire da una riflessione radicale sulla sua natura e i suoi scopi, e dunque sull’assetto giuridico da pensare da capo a piedi, sulle competenze amministrative da trovare (sempre rare, le competenze, in Italia) sui centri di spesa da chiudere a compenso di quelli che si apriranno, persino sulla quantità di «entità autonome» federali, per esempio se non convenga la creazione di tre sole macro-regioni; ma la Lega per prima non vuole abolire nemmeno una provincia, ha premuto sul federalismo come preliminare furbesca alla secessione, mantiene l’impianto delle regioni di prima. Che sono, come sappiamo, un disastro.

Anche qui posso trasferirvi la mia esperienza, quella che a voi manca per ragioni di età.

A volere le regioni, all’inizio degli anni ’50, gli italiani non ci pensavano nemmeno. A imporle fu Ugo La Malfa, allora capo del Partito Repubblicano Italiano (mai più del 3% di voti), ossia del controllore massonico internazionale del Paese sconfitto.

Le centrali internazionali – quelle che pagavano il piano Marshall solo se La Malfa era al governo, quelle che già stavano creando l’Europa senza democrazia con Jean Monnet, il fiduciario dei banchieri americani – avevano deciso che un Paese che s’era voluto unitario e nazionalista, troppo pericoloso, andava spaccato in entità sub-sovrane, esattamente come gli israeliani hanno ridotto l’Iraq d’oggi, per gli stessi motivi.

I socialisti erano entusiasti; i democristiani si adeguarono, ma escogitarono una furbata per impedire a queste nuove entità di acquistare un’autonomia politica minacciosa per l’amministrazione centrale, da loro gestita: accollarono loro la sanità. Con il 90% del bilancio bloccato per le prestazioni sanitarie, ragionarono, non avrebbero avuto modo di pensare ad altro.

Invece come sappiamo le regioni – restando assurde aziende sanitarie – si sono dedicate ad altro, si sono allargate, hanno sedi come ambasciate in Europa e in Cina; nel Sud sono gestite direttamente dalla malavita, nel Nord la Lombardia «efficiente» non ha la competenza (o ha dilapidato i fondi) per unire Malpensa alla ferrovia nazionale. E l’Italia è un pullulare di particolarismi micragnosi e litigiosi, l’un contro l’altro armati.

Dei responsabili di questo verminaio, chi resta?

Napolitano, Andreotti, Colombo, il senatore a vita con la coca, Ciampi. Venerati maestri, circondati dal rispettoso affetto di tutti noi. O almeno, dei nostri media.

Il vescovo lefevriano

Grande malumore dei nostri venerati media perchè Ratzinger ha tolto la scomunica alla Fraternità lefevriana, di cui uno dei vescovi è per giunta «negazionista». Il TG3 ha pontificato: il Papa accoglie un «negazionista» mentre  lascia «fuori della Chiesa» i progressisti della teologia della liberazione! Una evidente simpatia ideologica!

Qui, naturalmente, la rozzezza e l'ignoranza miscredente-italiota, di cui i giornali sono i banditori più imbarazzanti, non può nemmeno lontanamente cogliere il senso vero di quest’atto del Papa, la sua natura sacrale, il rispetto per l’Eucarestia che l’ha consigliata.

Quello di monsignor Lefevre fu uno scisma, non eresia. Significa che i preti che ha ordinato sono veri preti, che veramente consacrano pane e vino, e lo fanno corpo e sangue di Cristo. I vescovi che Lefevre ha consacrato possono, a loro volta, ordinare altri preti, «validamente». Altrettante mani capaci di evocare far noi la Presenza Reale, l’indifeso Salvatore crocifisso. E’ bene che queste mani siano raccolte nell’ovile, che il Salvatore indifeso sia protetto dagli insulti sacrileghi del mondo.

Questo vale, dal punto di vista di Pietro, per ogni prete valido; anche per i pedofili, che (purtroppo) sono capaci di consacrare, e dunque profanare il Salvatore. Mantererli nell’ovile è un atto di supremo amore e delicatezza per Cristo, non per loro; perchè l’Ostia non finisca insultata in chissà quali postriboli del mondo, in quale messa nera. Le mani di ogni sacerdote sono assolutamente preziose.

E monsignor Williamson, che «nega l’olocausto»? Lui sì, andrebbe scomunicato, strillano i media, e gran parte del pubblico.

E’ l’ennesima conferma che l’olocausto è la sola religione pubblica rimasta alla società ufficiale secolarizzata, e che i media pretendano venga osservata obbligatoriamente e pubblicamente. A questo dogma esigono che tutti c’inchiniamo.

Ciò non vuol dire – rispondo ad alcuni lettori che me l’hanno chiesto – che approvi monsignor Williamson. A parte che non è obbligo riconoscere a un vescovo speciali competenze di storico, bisogna sapere che i dogmi teologici dell’unica religione rimasta non si devono discutere, perchè sono presidiati dalla legge penale e dalla potenza dei media.

Senza i media dalla propria parte – e la Chiesa non ce li ha, monsignore ancor meno – una simile affermazione ha un solo risultato: consentire agli sporchi media di fare titoli del tipo: «Il Papa toglie la scomunica a vescovo negazionista».

Di quel vescovo, il Papa ha a cuore il potere sacro: qualcosa di reale che sta nell’invisibile, e dunque infinitamente al disopra della canea ignorante che ci circonda tutti.

I nazionalisti pregano per l’esercito. Altrui.

Come segnala Miguel Martinez, c’è stata una grande manifestazione pro-Israele a Roma. C’erano « Piero Fassino, Ferdinando Adornato e Andrea Ronchi oltre ad Alessandro Ruben e Fiamma Nirenstein e leader ebraici fra cui il presidente UCEI Renzo Gattegna, il presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, il presidente del Benè Berith e consigliere UCEI Sandro Di Castro, il presidente del Keren Kayemeth Leisrael, Raffaele Sassun e la copresidente del Keren Hayesod Johanna Arbib. Nelle file che si estendevano a perdita d’occhio fra gli altri anche Giancarlo Elia Valori, Furio Colombo, Clemente Mimun, Gabriella Kostoris, Olga D’Antona, Fabrizio Cicchitto, Maurizio Gasparri».

Si è trattato di una cerimonia sacra, propria dell’ultima religione di cui è obbligatorio celebrare i riti. Gideon Meyr, l’ambasciatore di Israele, ha pregato e fatto pregare tutti i goym per il glorioso Tsahal genocida. Con queste parole:

«Il Signore renda i nostri nemici che sorgono contro di noi sconfitti davanti ai nostri soldati. Il Santo (Benedetto Egli sia) protegga e salvi i nostri soldati, in ogni luogo, da ogni disgrazia e avversità e da ogni malattia. Conceda benedizione e successo ad ogni opera delle loro mani».

Dev’essere stato commovente vedere i rappresentanti della nazione Italia – e soprattutto gli ex-fascisti, ex-nazionalisti – pregare per la vittoria di un esercito altrui. Mi sarebbe piaciuto vedere Gasparri intonare a YHVH che «conceda benedizione e successo ad ogni opera delle loro mani», ossia le mani dei massacratori di bambini.

Era fascista, quando l’ho conosciuto. D’accordo che ora riceve la paghetta da Israele, visto che l’hanno fatto direttore non esecutivo della Telit, agenzia israeliana di telecom agganciata al Mossad. «Non esecutivo» è ovvio, dato che Gasparri non sa eseguire niente, nemmeno con tutta la sua buona volontà di servire; e piacerebbe sapere quanto prende di paghetta. Dev’essere notevole per un ex attacchino missino, visto che prega così ferventemente per la vittoria dell’esercito straniero.

L’unica consolazione è che le preghiere di Gasparri non giungono in cielo. Animali parlanti, dopotutto.

Alema’, tu vuo’ fa lisraeliano o no?

E già che siamo nel registro del basso ridicolo, tipicamente italiota: Alemanno è nei guai, perchè a Roma si succedono le violenze carnali. Ammettiamolo, la causa è l’immane rigurgito di inciviltà, il vecchio sedimento della barbarie italiota – barbarie ineliminabile, ed ora trionfante perchè promossa e legittimata da tutte le pubblicità e le TV – che sfoga; sette stupri su dieci li fanno i fidanzati, i mariti, gli ex-amanti, gli zii e i nonni; Roma soffre perfino di inciviltà urbanistica, sedimentata in decenni di amministrazioni di ogni colore, che crea gli angoli bui, le lerce boscaglie e gli ammassi di ciarpame abbandonato, favorevoli agli stupri. Ma Alemanno aveva  puntato tutta la campagna elettorale contro la sinistra che aveva reso Roma insicura, ed ora la sinistra, gongolante, gli rimbecca che «non ha fatto nulla per la sicurezza», specialmente, ohibò, per «la sicurezza delle donne».

Eppure Alema’ ha la soluzione a portata di mano. Ha già elevato sul Campidoglio della città eterna la stella di Davide. Ora, è un sindaco di Israele.

Che ci vuole a chiedere in prestito una trentina di F-16, a far bombardare Primavalle, il Quartaccio e Guidonia? Chieda a Pacifici che ha la linea diretta, a quelli basta  pagargli il kerosene e i materiali di consumo (bombe al fosforo) e arrivano a liberarci dagli stupratori, zingari ed altre razze inferiori.

Alema’, visto che approvi ciò che i giudei fanno a Gaza, perchè non fai lo stesso a Roma?

Ma no, ma no. Alemanno resta un sindaco italiota. Almeno nella gestione del denaro pubblico: il museo della memoria a Villa Torlonia, per esempio, è una bella occasione per spendere non si sa come, altri 13 miliardi oltre ai 16 che aveva già dato, per l’opera insigne, Veltroni. Il tutto, senza concorsi ed aste.

Mi limito qui a citare (anche se a malincuore) la denuncia che Storace ha postato sul suo sito:

Giovedì prossimo, in Campidoglio, sarà proposta e approvata – ma non da me – una delibera che finanzia con ben 13 milioni di euro, un tempo li avremmo chiamati 26 miliardi, l’edificazione del museo della Shoah, localizzato dove volle Veltroni, ovvero a Villa Torlonia, residenza romana della famiglia Mussolini.

Memoria senza parsimonia, viene da dire, anche se so già quanta ipocrisia mi toccherà sopportare per dire semplicemente la verità. Ma è da chiarirla bene questa storia ai cittadini romani – e non solo – perché qui si tratta solo di sperpero di pubblico denaro. I 13 milioni di euro di Alemanno si aggiungono ad altri 16 decisi in precedenza da Veltroni.

Ricordare e sperperare, però, non va bene e indigna.

LA STORIA -  Negli anni Settanta, la Società Immobiliare Centrale S.I.C. Srl (ora denominata Soc. Alberghi riuniti via Veneto a r.l. dei fratelli Violante, proprietari dell’Hotel Majestic in via Veneto) acquista, dall’Istituto delle «Religiose Adoratrici Ancelle del S.S. Sacramento e della Carità», alcuni terreni all’interno di Villa Torlonia e da subito vi prevede la realizzazione di piani di sviluppo edilizio.

I residenti, varie Associazioni tra cui «Amici di Villa Torlonia» e il Comitato di Quartiere intraprendono annose battaglie, petizioni, ricorsi, per bloccare la cementificazione all’interno della Villa, finché con sentenza del 30 luglio 2002 il Consiglio di Stato, del tutto inaspettatamente e invertendo una precedente giurisprudenza, dà ragione alla proprietà immobiliare che successivamente ottiene il diritto (con concessione numero 305/C del 7 marzo 2003) a realizzare un immobile di quattro piani destinato ad abitazioni ed uffici. La direzione dei lavori fu affidata all’architetto Giorgio Tamburrini.

Già da alcuni anni, è stata recepita dagli organi dell’amministrazione comunale la volontà della comunità ebraica di erigere il museo nazionale della Shoah proprio in via Alessandro Torlonia, all’interno della storica villa, con decisione della giunta comunale dell’ 1 giugno 2005, adducendo che «tale iniziativa vuole soddisfare il debito d’onore nei confronti di una popolazione che ha subito una persecuzione di cui tutta l’umanità è cosciente».

13 MILIONI OGGI E ALTRI 16 IERI - Il terreno in Villa Torlonia di proprietà della Società S.I.C. Srl, del valore di
€ 16.345.313,36, è stato acquisito dal Comune di Roma attraverso l’applicazione del principio della compensazione edificatoria, mediante una permuta con aree comunali aventi una potenzialità edificatoria di pari valore economico del bene da acquisire. A tal fine è stata individuata l’area del comprensorio di Pietralata, destinato alla realizzazione del Sistema Direzionale Orientale (SDO) per una superficie corrispondente al valore di € 16.333.557,04, il cui trasferimento alla S.I.C. srl è stato autorizzato con Deliberazione C.C. numero 190 del 2 agosto 2005.

IL DIRETTORE-COSTRUTTORE
- Già nel luglio 2006 il sindaco Walter Veltroni, insieme alla comunità ebraica di Roma e all’Associazione Figli della Shoah, costituiscono il Comitato promotore del museo della Shoah di Roma, con l’obiettivo di raccogliere fondi, ricerca di materiale, testimonianze su quanto accaduto nella Shoah e soprattutto con lo scopo di vedere realizzato il museo della Shoah, all’interno di Villa Torlonia.

La realizzazione del Progetto preliminare viene affidata alla Società Lamaro Appalti Spa: se ne occupano gli architetti Luca Zevi e Giorgio Tamburini. Non risulta che siano state indette gare d’appalto, non è quindi chiaro con quale criterio sia stata fatta questa scelta, ma è da notare che l’architetto Tamburini è anche l’architetto cui fu affidata la direzione dei lavori della palazzina che in origine avrebbe dovuto costruire la SIC srl all’interno della Villa.

Nel settembre 2008 Veltroni si dimette dal Consiglio di Amministrazione del Comitato promotore del museo della Shoah di Roma, a seguito delle dichiarazioni del nuovo sindaco della capitale sulla distinzione da lui affermata tra leggi razziali e fascismo. E a nulla sono valse le capriole successive di Alemanno.

E’ proprio Alemanno a stabilire che non bastava il precedente obolo veltroniano di 16 milioni di euro, ma per fare contento il solito Pacifici mette sul piatto altri 13 milioni. Memoria senza parsimonia, appunto…».

Capito? Siamo ancora italiani, almeno nei papocchi.

Analfabeti

Un francese su 10 , dopo dieci anni di scuola, non sa leggere. Specialmente i giovani. In Italia sarà lo stesso, Ma in Francia almeno le autorità sono coscienti del problema dell’illettrisme (analfabetismo di ritorno, funzionale) e cercano di correre ai ripari; fanno periodici sondaggi di controllo, hanno formato un’agenzia speciale per cercare di combattere questo degrado della civiltà, insomma riflettono sulle cause.

Così è il caso di riprendere da Avvenire quel che dice Alain Bentolila, un liguista che ha studiato la questione:

«Molti bambini che approdano alle elementari non hanno una padronanza sufficiente della lingua orale per essere poi capaci effettivamente di leggere e di scrivere». Questi bambini conoscono pochissime parole, «e scorte tanto esigue di parole vanificano anche i migliori metodi d’insegnamento alla lettura».

E perchè non conoscono le parole?

«Il dramma è che questi bambini spesso, durante i primi cinque anni di vita, non hanno beneficiato di una famiglia capace di dare i mezzi e il gusto della parola. Spesso hanno vissuto il proprio apprendimento linguistico nel silenzio».

Nel silenzio. Sono i bambini, magari viziati e rimpinzati, a cui nessuno parla davvero (ossia a lungo, e in modo impegnativo per la loro intelligenza), a cui nessuno accende la fantasia leggendo o raccontando le antiche favole, che vengono piazzati davanti alla televisione per giornate.

«La scuola si deve battere contro una televisione debilitante, che divora il tempo ed è nemica del dialogo familiare. Manca troppo spesso lo scambio».

In Francia hanno deciso di cambiare la scuola materna, di supplire al silenzio dei genitori nella prima età cercando che siano le insegnanti di nido a «fare di più per il successivo sforzo di apprendimento della lettura». Ammettono che non è facile. Ma ci provano, perchè si rendono conto che qui la civiltà sta regredendo verso una barbarie ibrida, assurda, dove sono proprio i mezzi tecnologici della «comunicazione» totale a provocare l’analfabetismo.

In Italia non pare che questo problema scuota alcuno. Nasciamo «già imparati».

Eppure ogni bambino alle materne costa da 7 a 17 mila euro l’anno (a Roma): magari qualche mamma preferirebbe avere quei non dico 17 mila, ma quei 7 mila, per stare col suo bambino di meno di cinque a raccontargli le favole. Ma gli asili-nido non sono fatti per i bambini; sono fatte per le maestre-nido, per pagargli lo stipendio. E’ pur sempre una casta.



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