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Mossad e finocchi contro l’Iran
20 Ottobre 2011
Singolare la sordina che i media italiani hanno messo sulle dimissioni vergognose di Liam Fox, ministro della Difesa britannico. Eppure il caso è pruriginoso e succoso come certe intercettazioni berlusconiane. Liam Fox, conservatore, atlantista di ferro, guerrafondaio (ha votato per l’aggressione dell’Iraq e dell’Afghanistan), si portava nelle missioni all’estero il suo amichetto (che aveva voluto anche come testimone di nozze) Adam Werrity: condivideva il letto con lui in hotel, lo faceva viaggiare a spese del contribuente, e lasciava intendere che fosse il «capo del suo staff», benchè Werrity non avesse alcun incarico ufficiale nel governo. Ciò non gli impediva di vantare con i delegati esteri importanti connessioni, e di accedere a informazioni segrete. I giornali inglesi (non i nostrani) hanno rapidamente scoperto che Werrity, inoltre, manipolava il suo ministro del cuore a favore di Israele. In febbraio, aveva organizzato un incontro fra Fox e i dirigenti del Mossad ad Herzliya, presso Tel Aviv, dove sorge l’Interdisciplinary Center, che è l’università del servizio ebraico, dove si discussero piani per rovesciare il regime iraniano. Risulta che il 33 enne amichetto del ministro avesse fatto viaggi in Iran «in diverse occasioni, per incontri segreti con gruppi d’opposizione», e vedeva spesso «agenti israeliani e membri di gruppi d’estrema destra USA», sempre allo stesso scopo: rovesciare Ahmadinejad. Il lato bello è che lo spionaggio inglese, il celebre MI6, sapeva tutto, e quando Werrity tornava dai suoi viaggi, lo convocava a regolare rapporto e debriefing: non sia mai che un qualunque servizio trascuri di servirsi di un finocchio che ha qualcosa da nascondere. (Israel’s mossad gets dragged into latest british political scandal)
Lorna Fitzsimons
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Werrity amava la gran vita, costosa. I mezzi per il lusso glieli forniva un’associazione per la promozione di Israele in UK, detta BICOM (che sta per British Israel Communications Research Center), capeggiata da Lorna Fitzsimons, già parlamentare, e animatrice dei Labor Friends of Israel, che riuniva e coccolava esponenti laboristi amici di Israele: insomma una Fiamma Nirenstein giudeo-britannica, con gli stessi ordini ricevuti e la missione di intortare parlamentari esteri. Anche la BICOM si rivela essere nient’altro che una facciata per certe operazioni del Mossad.
Chaim Zabludowich
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Altri soldi per i suoi lussi, Werrity li riceveva da una agenzia privata che formalmente offre servizi di «controspionaggio industriale e commerciale», da una ditta no-profit chiamata Pargav Ltd., e da una fondazione culturale detta Atlantic Bridge (ovviamente atlantista neocon, finanziata quasi interamente da un ebreo caporione di hedge funds di nome Michael Hintze): tutt’e tre queste entità hanno sede allo stesso indirizzo a Londra, e sono tutte pagate dal miliardario Chaim Zabludowich, detto Poju, mercante e fabbricante d’armi con legami con la SOLTAM (del gruppo militare-industriale israeliano) che è anche, guarda caso, il presidente della BICOM.
Michael Davis
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Un altro miliardario che coccolava l’utile finocchietto offrendogli voli in prima classe e hotel a cinque stelle si chiama Michael Davis, padrone del colosso minerario Xstrata, nonchè presidente della fondazione United Jewish Israel Appeal. E non va dimenticato un quarto generoso donatore dei lussi di Werrity: un finanziere di nome Michael Lewis, esponente di spicco della già citata BICOM. Lo scandalo ha dunque mostrato un istruttivo panorama delle organizzazioni di facciata messe insieme da volonterosi sayanim per strumentalizzare importanti goym secondo i suggerimenti del Mossad, capo-filiale unica di tutte queste opere caritatevoli e fondazioni culturali. Con un probabile retroscena di ricatti, cose che capitano abbastanza spesso a ministri finocchi ancorchè regolarmente ammogliati. (Liam Fox resignation exposes Tory links to US radical right) Ma dice qualcosa di ancor più inquietante, visto che lo scandalo è simultaneo ad un altro falso andato a male negli Stati Uniti: il complotto di un americano di origini iraniane, tale Mansur Arbabsiar, per uccidere l’ambasciatore saudita a Washington con l’aiuto di un criminale del cartello della droga messicano... il tutto su ordine del regime iraniano.
Mansour Arbabsiar
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Arbabsiar, un venditore di auto usate con qualche precedente per spaccio di droga e, apparentemente, con problemi psichici, è stato coinvolto nel presunto complotto – come risulta dal rapporto su di esso reso noto dall’FBI – da un agente della DEA (antidroga) lui stesso condannato per traffico di stupefacenti, che ha accettato di partecipare al complotto per farsi annullare la pena: un agente provocatore che ha contattato Arbabsiar, facendogli balenare un grosso affare di droga col cartello messicano. È stato questo individuo a suggerire l’assassinio dell’ambasciatore saudita ad un Arbabsiar che – risulta dalle intercettazioni – sembrava disinteressato, e soprattutto interessato allo spaccio. Secondo l’attorney general americano Preet Bahara, «nessuno è mai stato veramente in pericolo» in quanto «durante l’intera operazione, le fonti confidenziali sono state sorvegliate e guidate da agenti di Polizia». Dunque, si tratta di una infiltrazione-provocazione, o – come ha commentato il sito Salon.com – di un’operazione in cui l’FBI ha salvato l’America da un complotto dallo stesso FBI costruito. (The FBI again thwarts its own Terror plot) Con Arbabsiar è stato arrestato un suo cugino, Gholam Hussein Shakouri, che viene indicato nella versione ufficale (e costantemente nei media) come un esponente del Quds, o delle guardia della rivoluzione iraniana. In realtà, secondo Teheran, il cugino è un membro dello MKO, un’organizzazione di iraniani anti-regime indicata come terrorista dagli stessi USA; ma che ora ha sede in un suo campo ad Ashraf, in Iraq, sotto protezione americana (dove vi sarebbero circa 3 mila militanti). Teheran sostiene che può dimostrare come questo Shakouri abbia viaggiato in vari Paesi «con diversi falsi documenti d’identità, compresi falsi passaporti iraniani». E dà il numero di uno dei passaporti di Shakouri, «rilasciato a Washington il 30 novembre 2006, numero K10295631». Perciò il governo dell’Iran si è dichiarato «pronto ad esaminare» le accuse contro Arbabsiar. Si aggiunga che un membro dell’ISI (il servizio pakistano) si è fatto intervistare dal giornale pakistano in urdu Ummat Daily, per dichiarare che «l’accusato (Arbabsiar) ha ricevuto documenti falsi dal Mossad tre mesi fa», e il quadro si completa. Ma il lato allarmante è che nonostante l’inchiesta sull’attentato sia caduta rapidamente nel ridicolo, il governo americano la prende sul serio, sul serissimo, cominciando una serie di pesanti minaccie, fra cui gigantesche manovre militari contro l’Iran nel Golfo. (US Begins Huge Military Maneuvers Aimed at Iran) E l’opposizione repubblicana con i suoi soliti McCain e Gingrich urla che solo «un attacco preventivo può fermare l’Iran». (Cain tells McFarland: Only preemptive strike can stop Iran) Insomma, è ripreso con forza, sotto il ben noto direttore d’orchestra (la lobby) il coro che per qualche tempo era cessato a Washington: «Bomb, bomb, bomb Iran!». Con terrore dei militari americani, a cui proprio non occorre una terza guerra. Ma molte voci sostengono: Obama è così disperato in vista del voto del 2012, da non vedere altra speranza per la sua rielezione che riconquistare il favore dei J, attaccando l’Iran. Dico riconquistare, perchè a Chicago Obama aveva la lobby dalla sua parte, tanto da dichiarare una volta: «La mia vicinanza alla comunità ebraico-americana è probabilmente ciò che mi ha innalzato al Senato» (My closeness to the Jewish American community was probably what propelled me to the U.S. Senate). Ma erano gli ebrei della minoranza democratica, ininfluente. Alla Casa Bianca, s’è trovato contro la formidabile lobby neocon, abituata ad un presidente (Bush jr.) che le obbediva in tutto e per tutto, anzi preveniva ogni suo desiderio; e avendo contro quei J, addio rielezione del secondo termine, addio fondi per la campagna, addio stampa favorevole. Ma davvero può essere che un presidente scateni un’altra guerra, e di grandi proporzioni, per farsi rieleggere? È credibile? Vero è che soddisferebbe il complesso militare-industriale, l’unica attività economica (o anti-economica) a non essere delocalizzata, e da cui si possano sperare nuovi posti di lavoro. Senza contare che fare la campagna presidenziale nelle vesti di War President, di commander in chief, è sempre un bell’atout di fronte al pubblico americano: quant’è vero che le due paranoie deliranti a sfondo biblico, l’americana paurosa di declino e la sionista in delirio messianico, si abbracciano, si potenziano l’una con l’altra, e si compenetrano a vicenda. A chi si mostra incredulo di un simile sbocco, i ben informati additano alcuni indizi precisi. Da quando la US Air Force ha consegnato all’Iraq la gestione dello spazio aereo, e da quando le relazioni con la Turchia sono così cattive, Israele ha un solo alleato dal cui spazio aereo partire per l’attacco all’Iran: il regime saudita. Già in passato era sorta la voce secondo cui l’Arabia Saudita aveva offerto il suo spazio aereo ai sionisti per l’attacco, voce che Ryad aveva smentito con sdegno. Oggi, il complotto iraniano per uccidere l’ambasciatore saudita a Washington, offre alla decrepita monarchia la scusa di cui ha bisogno per giustificarsi.
Gilad Shalit
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L’altro indizio è la liberazione di Shalit, in cambio del quale Netanyahu ha concesso il rilascio di un migliaio di prigionieri palestinesi, contro il parere dei suoi alleati di governo più estremisti di lui: molti vedono in questa mossa un preludio all’attacco, dato che nella paranoia israeliana l’aggressione all’Iran dovrà accompagnarsi all’apertura del fronte sud, ossia ad un nuovo massacro di Gaza, che – se Shalit fosse ancora nelle mani di Hamas – significherebbe la morte del soldatino-simbolo. Secondo altre voci, Hamas avrebbe ricevuto, per liberare Shalit, forti pressioni dai... Fratelli Musulmani egiziani, che si preparano ad una bella affermazione elettorale in Egitto, e – da sunniti – sono ostili all’Iran sciita, e più in combutta con Sion di quanto vogliano far sapere. (ÉGYPTE: Les Frères Musulmans à l’épreuve de la révolution) È questa la «finestra d’opportunità» cui sempre più spesso accenna Bibi Netanyahu? Possibile. Ultimo e più allarmante indizio: a novembre, la AIEA, l’agenzia ONU che effettua i controlli sulle installazioni nucleari dell’Iran, pubblicherà un nuovo rapporto – che i media israeliani e quelli americani (il New York Times per primo) sanno già conterrà un atto d’accusa contro il regime di Teheran: il suo programma nucleare ha natura militare e non civile. Fino ad ieri, la AIEA non è mai riuscita a raggiungere un solo indizio sull’atomica iraniana; ma adesso, il nuovo capo, il nipponico Yukiya Amano, è pronto a prendere per buone le prove top-secret che gli sono fornite da CIA e da Mossad: falsi come il falso attentato all’ambasciatore saudita, falsi come le boccette piene di talco che il povero Colin Powell, segretario di Stato in disgrazia (e che presto i neocon avrebbero gettato nel wc della storia) nel 2003 agitò davanti all’assembea dell’ONU sostenendo che erano piene di antrace fabbricato da Saddam Hussein, orribili «armi di distruzione di massa» che giustificavano l’invasione dell’Iraq.
Kenneth Pollack
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Nonostante il discredito, l’America è pronta a ripetere l’antica, archetipica favola di Esopo («Inferior stabat agnus, superior lupus ...»)? Tutto pare ricalcare le vicende a cui ci hanno fatto assistere già nel 2003. C’è persino il documento di pianificazione e istruzioni per la guerra a Teheran. Simile in tutto al documento Rebuilding the American Defense, emanato dal think tank Project for a New American Century che consigliava il presidente Bush jr. di avviare le grandi guerre contro l’Islam e un riarmo mai visto (per il quale, si riconosceva, «Occorrerà un evento catalizzatore, una nuova Pearl Harbor», che si verificò con il mega-attentato dell’11 settembre), il documento di ordini per Obama lo ha scritto Kenneth Pollack (J) che sta nella Brookings Institution, storicamente progressista (al modo americano, ossia liberal e radicalchic) e più precisamente a capo di un organismo incistato nella Brookings che si chiama Saban Center for Middle East Policy: il nome deriva dal fatto che il centro è stato fondato e finanziato dal defunto miliardario speculatore Chaim Saban, un altro dei volonterosi sayanim in febbrile e continua attività per Israele (come dice il salmo 68: «Lo zelo per la tua Casa mi divora»). Il foglio d’ordini per Obama ha per titolo Which Path to Persia (Quale strada per la Persia), e li potete leggere nei link a seguire – giusto per controllare fino a che punto il Nobel per la Pace abbronzato lo seguirà pedissequamente. (Un biglietto di sola andata, destinazione guerra: è tutta qui la politica americana per l’Iran | Which Path to Persia? Brookings Institution 2009.pdf)
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