Augustin Bea, al Vaticano II, getta la maschera
Il cardinal Bea aveva gettato la maschera e non aveva più nessuna necessità di nascondere il suo vero volto, dietro l’apparenza dell’esegeta conservatore nonché venerato confessore di Pio XII.
Oramai, papa Pacelli era defunto e non era più necessario fingere di essere un teologo pienamente cattolico e in linea con il Magistero costante della Chiesa. I nuovi Pontefici (Roncalli e Montini) erano pienamente in linea con le idee della “Nuova Teologia” condannata dall’Enciclica Humani generis del 12 agosto 1950 di Pio XII.
Per comodità del lettore riassumo, ora, brevissimamente la vita del cardinal Bea. Egli nacque il 20 maggio del 1881 nel Baden in Germania. Venne ordinato sacerdote nella Compagnia di Gesù nel 1912. Nel 1924 venne nominato professore di teologia biblica e di esegesi dell’Antico Testamento al Pontificio Istituto Biblico. Nel 1930 divenne Rettore del medesimo Pontificio Istituto Biblico. Dal 1942 al 1954 fu confessore di Pio XII. Nel 1959 venne creato cardinale e nel 1960 venne nominato da Giovanni XXIII Presidente del Segretariato per l’unità dei Cristiani. Morì il 16 novembre 1968 a Roma[1].
La sua attività in Concilio, durante il quale si avvalse della collaborazione teologica di monsignor Johannes Willebrands, è legata soprattutto alla Dei verbum, a Nostra aetate e a Dignitatis humanae, ossia alla dottrina sulle Fonti della Rivelazione, sui rapporti tra Cristianesimo e Giudaismo e sulla libertà delle false religioni[2].
Nel presente articolo studio la sua azione apertamente modernistica al Vaticano II. Senza tema di esagerare si può dire che Bea è stato per Giovanni XXIII quello che Carlo Colombo è stato per Paolo VI: il confidente, il consigliere, l’amico fidato e il teologo privato[3].
Vi sono alcune personalità le quali hanno svolto un ruolo eminente nel Vaticano II, ma che sono state poco studiate, pur avendo esercitato un ruolo fondamentale durante il Concilio, ad esempio Dossetti e Lercaro.
Inoltre abbiamo visto come la battaglia di Bea a favore della Gregoriana e del Biblicum, ove si riunivano i teologi progressisti, contro la Lateranense di monsignor Antonio Piolanti, ove risiedevano i teologi romani, è stata ben documentata da monsignor Francesco Spadafora oltre che nel volume La Nuova Esegesi (Sion in Svizzera) del 1996, che abbiamo citato nello scorso articolo, anche in altri due suoi bei libri: La Tradizione contro il Concilio, (Roma, Volpe, 1989) e Il postconcilio (Roma, Settimo Sigillo, 1991)[4].
La libertà delle false religioni
Celebre è la sua battaglia per la “Libertà religiosa” (Dignitatis humanae) nella quale si scontrò col card. Alfredo Ottaviani il 19 giugno del 1962, che era specialista in materia, avendo insegnato, alla Lateranense, Diritto Pubblico Ecclesiastico per numerosi anni durante i quali pubblicò le famose Institutiones Juris Publici Ecclesiastici in 3 volumi (Roma, 1936), che assieme ai manuali di padre Felice Maria Cappello (1923), del card. Felice Cavagnis (1893) e del card. Camillo Tarquini (1862) sull’argomento dei rapporti tra Stato e Chiesa hanno fatto scuola dall’Ottocento sino al 1965.
Ottaviani difendeva la Tesi insegnata comunemente e ininterrottamente dai Padri ecclesiastici sino a Pio XII sull’unione di subordinazione dello Stato rispetto alla Chiesa, data la gerarchia del fine (naturale per lo Stato e soprannaturale per la Chiesa)[5]. Mentre Bea presentò un documento (De Libertate religiosa) diametralmente opposto a quello non solo del card. Ottaviani (De Tolerantia religiosa) ma anche all’insegnamento comune e costante della Tradizione.
Il 19 giugno del 1962 alla vigilia del Concilio (11 ottobre), durante l’ultima seduta della Commissione preparatoria, vi fu uno scontro verbale violento tra i due.
Monsignor Marcel Lefebvre che assistette al duello narra: «Il card. Ottaviani si alza e, segnandolo col dito, dice al card. Bea: “Eminenza, lei non aveva il diritto di fare questo schema, perché è uno schema teologico e dunque di pertinenza della Commissione di Teologia”. E il card. Bea alzandosi dice: “Scusi, avevo il diritto di fare questo schema come presidente della Commissione per l’Unità: se c’è una cosa che interessa l’unità è proprio la libertà religiosa”, e aggiunse rivolto al card. Ottaviani: “Mi oppongo radicalmente a quanto dite nel vostro schema De Tolerantia religiosa”»[6].
Insomma, per Bea, l’errore non andava più tollerato, ma occorreva dargli diritto all’esistenza e alla propaganda.
Papa Giovanni avocò a sé la questione “dibattuta” (che in realtà era comunemente insegnata sino a Pio XII) e permise allo schema di Bea di continuare il suo iter, quando invece era gravemente erroneo.
Inoltre, Giovanni XXIII, il 20 novembre del 1962, dopo la discussione e votazione sulle “Fonti della Rivelazione”, dietro richiesta del card. Frings concesse la deroga al regolamento del Concilio, che prevedeva i 2/3 dei voti per bocciare uno Schema della Commissione preparatoria (ossia quella presieduta da Ottaviani dal 1960 al 1962) e abbassò la quota al 50% più 1.
Facendo così, Roncalli «superò la lettera del Regolamento […], sbloccò una crisi estremamente complessa, decidendo che la votazione riguardante lo schema “De fontibus Revelationis”, che era stato elaborato in prospettiva interamente “romana”, equivaleva ad una respingimento del testo (20 novembre 1962). Qualche giorno dopo il Papa affidò la rielaborazione dello schema in questione a una commissione mista. […]. Con questa decisione papa Giovanni liberò il Concilio, appena iniziato, dalla duplice ipoteca che gli oratori della scuola romana avevano cercato di imporre alla corrente maggioritaria: abolì il divieto di respingere gli schemi preparatori […], e inoltre tolse l’ipoteca del monopolio dottrinale che il card. Ottaviani non aveva mai cessato di reclamare per la propria commissione preparatoria»[7].
Insomma, tutto il lavoro fatto dal Sant’Uffizio veniva cestinato ed era accolto al suo posto il lavoro che i teologi renani avevano portato avanti in maniera abbastanza riservata sino al 1962, quando gettarono la maschera, potendo godere dell’appoggio di Roncalli e poi di Montini.
Inoltre, non si tratta soltanto di divergenze di opinioni tra due diverse scuole teologiche. Infatti, la dottrina delle due Fonti della Rivelazione (Scrittura e Tradizione) è un dogma di fede definito dal Concilio di Trento (sessione IV, DB, 783) che ha condannato l’eresia luterana, secondo la quale la fonte era una sola: la Scrittura senza più la Tradizione.
Questi due strappi alla regola fatti da papa Roncalli sono stati paragonati a quelli celeberrimi fatti da papa Montini (eletto il 21 giugno del 1963): il primo, l’8 novembre del 1963, alla richiesta del solito Frings assieme al suo teologo Joseph Ratzinger di non tener conto della bocciatura fatta dal S. Uffizio sulla dottrina della collegialità. E, il secondo, sulla “Libertà religiosa”, il 15 settembre del 1965, quando Paolo VI «spinto dalle insistenze di Bea, trasmise al Concilio un quesito che, ottenendo il 90% di voti favorevoli, salvò la libertà religiosa dall’impasse in cui rischiava di cadere. In una fase in cui il Concilio, o perlomeno la sua maggioranza, appariva del tutto incapace di decidere, la fermezza del card. Bea, unitamente alla volontà di Paolo VI, consentì di procedere e di arrivare a una votazione assembleare, la cui cruciale importanza è paragonabile a quella dell’intervento fatto da Giovanni XXIII l’8 novembre del 1962 per permettere al progetto sulla Rivelazione di uscire da un “imbroglio” procedurale»[8].
Non mi sembra esagerato affermare che ciò che fece Bea riguardo alla Rivelazione, ai rapporti Cristianesimo/Giudaismo e alla libertà delle false religioni, lo completò il giovane Ratzinger quanto alla Collegialità episcopale.
Come si vede i vescovi e i teologi neo/modernisti hanno vinto in Concilio solo grazie all’appoggio di Giovanni XXIII e Paolo VI, senza i quali sarebbero stati bloccati. Il piano della setta segreta modernista si era avverato, infiltrare la Chiesa a scalarne il vertice per cambiarla dal didentro.
Comunque, Grooaters spiega che «senza la presenza e l’azione di Bea il Concilio Vaticano II si sarebbe svolto in maniera diversa e non avrebbe conseguito i risultati raggiunti»[9], ma omette di far rimarcare soprattutto la presenza e l’azione di papa Roncalli e Montini, che difesero i novatori e avversarono il S. Uffizio, il quale – come più volte aveva spiegato il card. Ottaviani – era la “Suprema Congregazione” il cui Prefetto era il Papa e il cardinale ne era solo pro–Prefetto.
Quindi, gli schemi preparatori del Concilio, redatti in massima parte dal S. Uffizio (1960–1961) con il Papa quale Prefetto, e, che furono un’elaborazione dei quesiti spediti ai vescovi sparsi nel mondo ciascuno nella propria Diocesi, i quali risposero con circa 1900 “vota”, trasmettendo indicazioni in linea con il magistero tradizionale e la teologia scolastica e specialmente tomistica ufficiale, avevano già valore di magistero ordinario universale (il Papa, tramite la Suprema Congregazione del S. Uffizio, più i vescovi dispersi nel mondo, anche se non ancora riuniti in Concilio: magistero straordinario).
Anzi, gli schemi preparatori avendo valore dogmatico–morale erano dottrinalmente più sicuri e di valore magisteriale più alto del Concilio pastorale, che pur essendo magistero straordinario non ha voluto essere dogmatico e quindi infallibile.
Lo stesso card. Ottaviani spiegò ciò che il Concilio avrebbe dovuto fare nella sua fase preparatoria: «Difendere il deposito della Fede della Chiesa dalla minaccia dell’errore. I Concili dovevano essere difensivi e dogmatici; l’opera pastorale era per i vescovi e per i parroci e il loro compito era di applicare e realizzare le dottrine e le decisioni del Concilio»[10].
Insomma, anche il Vaticano II avrebbe dovuto – come tutti gli altri venti Concili della Chiesa – insegnare i princìpi e condannare gli errori e solo dopo, i vescovi, tornado nelle loro Diocesi avrebbero dovuto applicare la dottrina dogmatica del Concilio ai casi particolari e pratici, né più e né meno di quanto era avvenuto dopo il Concilio di Trento quando i dogmi definiti durante il Concilio vennero calati nella pratica pastorale delle varie Diocesi di tutto il mondo, dai vescovi sempre sotto la direzione del Papa.
Ecco ben definita, la pastoralità del Vaticano II: mettere in pratica le definizioni dogmatiche promulgate dal Concilio, da parte dei vescovi ritornati nelle loro Diocesi e coadiuvati dai parroci. Ora, il Vaticano II, dopo il colpo di mano che annullò gli schemi preparatori dogmatici, stilati dal S. Uffizio con l’approvazione del Papa, si è definito solo pastorale, ossia ha abbassato il suo livello e ruolo magisteriale verso ciò che avrebbero dovuto fare i vescovi, tornati nelle loro Diocesi alla chiusura del Vaticano II, vale a dire mettere il pratica la dottrina dogmatica del Concilio.
Questa è l’anomalia originale del Vaticano II, aver rinunciato alla dogmaticità che è la natura del Concilio ecumenico (magistero straordinario) e aver ripiegato al lavoro di applicazione pratica o pastorale nella vita dei fedeli, che è proprio del vescovo nella sua Diocesi.
Ora, tanto per fare un esempio, la dottrina (o meglio, la “pastorale”) dei vescovi novatori e anti–romani parlava di una sola fonte della Rivelazione: la S. Scrittura e ometteva la Tradizione. Tuttavia, la dottrina delle due fonti era stata definita infallibilmente dal Concilio di Trento (sess. IV, DB 783) e poi era stata ripresa e confermata dal Vaticano I (DB 1787), perciò il card. Alfredo Ottaviani per tre volte interruppe Bea in difesa dello schema preparatorio tradizionale mettendo in guardia i cardinali novatori «che stavano mettendo in pericolo la Fede»[11].
Grooaters spiega e conferma che: «Il Papa sembrava avallare quegli innumerevoli schemi preconciliari che con il suo assenso furono stampati e inviati ai vescovi. […]. Le risposte inviate da quasi tutti i vescovi nel corso dell’indagine preparatoria non offrivano certo spunti per un profondo rinnovamento»[12]. Ciò equivale a dire che l’episcopato universale sparso nel mondo aveva accettato la dottrina tradizionale degli schemi preparatori elaborati dal S. Uffizio, avallati (solo inizialmente) da Giovanni XXIIII e inviati ai vescovi con il consenso del Papa.
Come vedremo oltre, il card. Frings (con la consulenza del giovane teologo Joseph Ratzinger[13]), e i cardinali Bea, Döpfner, Alfrink, König, Léger (Canada), Liénart, Montini e Suenens[14] bloccarono e respinsero tali schemi e assieme ai teologi e vescovi modernisti rifecero il lavoro preparatorio dei dibattiti conciliari ex novo, elaborando una dottrina non solo nove sed nova.
Tra questi cardinali solo Frings e Döpfner (sostenuti da Ratzinger e Rahner) votarono non placet, reclamando una revisione completa; mentre tutti gli altri votarono placet iuxta modum (è approvata a condizione di essere corretta), indicando quali osservazioni dovessero essere tenute in conto per una revisione[15].
Non ci si può nascondere dietro un dito per affermare che Ratzinger è stato un teologo e poi un Papa integralmente cattolico. No! Egli, al pari di Rahner è stato eminentemente rivoluzionario e scardinatore del dogma cattolico, anche se poi, di fronte agli eccessi di Rahner ha dovuto prenderne le distanze, ma senza rinnegare le sue posizioni novatrici degli anni del Vaticano II.
Il “cavallo di battaglia” di Bea: i rapporti tra Cristianesimo e Giudaismo
Un altro tema in cui Bea esercitò un influsso veramente decisivo fu quello dei rapporti tra Cristianesimo e Giudaismo postbiblico, ribaltando radicalmente la dottrina cattolica, contenuta nella Tradizione, nella Scrittura e nei documenti del magistero ecclesiastico.
Come si è arrivati a tanto?
Assieme a Bea e Roncalli, Marx Jules Isaac, è stato uno dei protagonisti principali della formazione di Nostra aetate (d’ora innanzi “NA”); egli era un ebreo, non credente, tendenzialmente comunista ed iscritto al B’nai B’rith (la massoneria ebraica, d’ora in poi B.B.), come ha rivelato il presidente del B.B. francese Marc Aron, il 16 novembre del 1991, nel discorso in occasione della premiazione del card. Decourtray “per meriti giudaico/massonici” o “modernisti” (qui sunt idem), essendo l’occultismo massonico una delle componenti del modernismo[16].
Occorre sapere che il Magistero della Chiesa ha condannato la massoneria in circa seicento documenti; Leone XIII nell’Enciclica Humanum Genus del 1884 ha sviscerato il problema definendo la Libera–Muratoria come diametralmente opposta alla religione cattolica. Infatti, il fine della setta è la distruzione della Società civile cristiana e – se fosse possibile – della Chiesa. In realtà, essa vuole instaurare una “Repubblica universale”: il “Nuovo Ordine Mondiale”, con un “Tempio universale”: la “religiosità pan–ecumenista” di “Assisi/1986” e del “Pachamama/2019”, dell’unità trascendente di tutte le religioni, la quale sarebbe nient’altro che la preparazione del Regno dell’Anticristo, avente come sua “anima” la Cabala giudaica.
Le caratteristiche ideologiche della setta sono il laicismo, il pluralismo, il relativismo soggettivista, il liberalismo, il razionalismo naturalista, la tolleranza dogmatica o per principio e la libertà delle false religioni. Infine, secondo la Libera–Muratoria, Dio non esiste realmente, ma solo nella ragione degli uomini che hanno bisogno di “credere sentimentalmente” in un Ente che li aiuti a comportarsi bene, come insegnava Kant, la cui filosofia è il “cuore” del modernismo.
L’incontro tra Roncalli e Isaac (13 giugno 1960) fu organizzato dal B.B e da alcuni uomini politici socialcomunisti[17].
Agostino Bea, Nahum Goldman e Label Katz
L’altro artefice di “NA” fu il card. Agostino Bea[18], che volle incontrare – sùbito dopo aver ricevuto da Roncalli l’incarico di arrivare a un documento “revisionista” sui rapporti giudaico/cristiani – Nahum Goldman (Presidente del Congresso Mondiale Ebraico, nonché ideatore del Processo di Norimberga nel 1946) a Roma il 26 ottobre 1960.
Bea chiese a Goldman, da parte di Roncalli, una bozza per il futuro documento del Concilio sui rapporti con gli Ebrei e sulla libertà religiosa (“NA” e “Dignitatis humanae personae”).
Il 27 febbraio 1962 il memorandum fu presentato a Bea da Goldman e Label Katz (anche lui membro del B.B.), a nome della Conferenza Mondiale delle Organizzazioni Ebraiche. Ebbene, questa bozza ispirata dalla massoneria ebraica (B.B.) e dal Congresso Mondiale Ebraico, ha prodotto “NA”[19].
Abraham Yoshua Heschel
Lo stesso Bea, sin dal 1961, incontrava spesso, a Roma, il rabbino Abraham Yoshua Heschel, professore al “Seminario Teologico Ebraico” statunitense. Egli fu il padre spirituale dei “teo/conservatori” cristianisti dell’amministrazione Bush jr., e «come collega scientifico di Bea [...] esercitò un notevole influsso sulla elaborazione di “NA”»[20].
Congar, Isaac & Goldman
Nel 1990 Jean Madiran ha svelato l’accordo segreto di Bea–Roncalli con i due dirigenti Ebrei (Jules Isaac – Nahum Goldman), citando due articoli di Lazare Landau, sul Quindicinale ebraico/francese “Tribune Juive” (n. 903, gennaio 1986 e n. 1001, dicembre 1987).
Landau scrive: «Nell’inverno del 1962, i dirigenti ebrei ricevevano in segreto, nel sottosuolo della sinagoga di Strasburgo, un inviato del Papa [...] il padre domenicano Yves Congar, incaricato da Bea e Roncalli di chiederci, ciò che ci aspettavamo dalla Chiesa cattolica, alla vigilia del Concilio [...] la nostra completa riabilitazione, fu la risposta [...]. In un sottosuolo segreto della sinagoga di Strasburgo, la dottrina della Chiesa aveva conosciuto realmente una mutazione sostanziale» [21].
Marx Jules Isaac
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, Jules Isaac, discepolo di Péguy, lanciò l’offensiva volta a giudaizzare il Cristianesimo, partendo dalla shoah. Egli riuscirà a preparare (con l’aiuto del BB) il documento conciliare Nostra aetate, voluto da Giovanni XXIII e “imbastito” dal cardinal Agostino Bea, dal padre domenicano Jean de Menasce (ebreo “convertito”) e da padre Paul Démann (idem) della congregazione dei Padri di Sion. Loro scopo era soprattutto di impedire di «abbassare il Giudaismo biblico e postbiblico per esaltare il Cristianesimo»[22], di seppellire la Teologia della sostituzione e di mescolare il Giudaismo veterotestamentario con quello talmudico o anticristiano.
Nel prossimo articolo torneremo a scrutare l’attività ecumenista di Bea tra il 1948 e il 1958.
d. Curzio Nitoglia
Fine Della Terza Puntata
Continua
[1] Cfr. Aa. Vv., Simposio cardinale Agostino Bea (16–19 dicembre 1981), Roma, Segretariato per l’Unità dei Cristiani, 1983; v. anche R. Laurentin, La mort du cardinal Bea, in Le Figaro, 18 novembre 1968; St. Schmidt, Agostino Bea. Il cardinale dell’unità, Roma, Città Nuova, 1987.
[2] Cfr. A. Bea, La Chiesa e il popolo ebraico, Brescia, 1965.
[3] J. Grootaers, I protagonisti del Vaticano II, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1994.
[4] Cfr. PUL, Pontificia Università Lateranense. Profilo della sua storia, dei suoi maestri e dei suoi discepoli, Libreria Editrice Lateranense, Città del Vaticano, 1963; Ph. Chenaux, L’Università del Laterano, Roma–Milano, PUL–Mursia, 2001.
[5] Vedi inoltre l’intervento del card. A. Ottaviani del 23 settembre 1964, in A. S., lib. III, cap. 2, p. 283 e l’intervento del 17 settembre 1965 in A. S., lib. IV, cap. 1, p. 179. Ottaviani parlava di “tolleranza” delle false religioni, poiché solo il vero ha diritti, mentre Bea insisteva sulla “libertà” di tutte le religioni. Ora se vero e falso, male e bene hanno pari diritti, teoreticamente si nega la sinderesi (“malum vitandum, bonum faciendum”) e praticamente il principio di identità e non contraddizione, secondo il quale “il vero è il vero, il falso è il falso e il vero non è il falso”.
[6] M. Lefebvre, Il colpo da maestro di satana, Milano, Il Falco, 1978, pp. 13–14
[7] J. Grootaers, cit., p. 37; cfr. anche G. Alberigo, Jean XXIII et Vatican II, in “Jean XXIII devant l’histoire”, Parigi, 1989, p. 193–195.
[8] J. Grootaers, cit., p. 81; Id., Paul VI et la déclaration conciliaire “Dignitatis humanae”, in “Paolo VI e il rapporto Chiesa–Mondo al Concilio”, Brescia, 1991, pp. 102–104.
[9] J. Grootaers, cit., p. 83.
[10] G. Alberigo (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. Il cattolicesimo verso una nuova stagione. L’annuncio e la preparazione, gennaio 1959–settembre 1962, Bologna, Il Mulino, 1995, vol. I, p. 325.
[11] G. Alberigo (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. Il cattolicesimo verso una nuova stagione. L’annuncio e la preparazione, gennaio 1959–settembre 1962, Bologna, Il Mulino, 1995, vol. I, p. 327.
[12] J. Grooaters, cit., pp. 26 e 28.
[13] Il giorno prima dell’inizio del Concilio «il 10 ottobre 1962 i vescovi tedeschi si riunirono. […]. Nella prima assemblea dei vescovi tedeschi il prof. J. Ratzinger tenne una relazione sullo Schema constitutionis dogmaticae de fontibus Revelationis» (G. Alberigo, cit., p. 517). Come si vede il ruolo di Ratzinger al Vaticano II fu quello di estrema punta di diamante del modernismo e per nulla affatto quello del propugnatore della cosiddetta “ermeneutica della continuità”.
[14] G. Alberigo (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. Il cattolicesimo verso una nuova stagione. L’annuncio e la preparazione, gennaio 1959–settembre 1962, Bologna, Il Mulino, 1995, vol. I, p. 325.
[15] Cfr. G. Alberigo (diretta da), Storia del Concilio Vaticano II. Il cattolicesimo verso una nuova stagione. L’annuncio e la preparazione, gennaio 1959–settembre 1962, Bologna, Il Mulino, 1995, vol. I, p. 327.
[16] Cfr. E. Ratier, Mystères et secrets du B’nai Brith, Paris, Facta, 1993, pp. 114–115 e 371–381; tr. it., Misteri e segreti del B’nai Brith, Verrua Savoia – Torino, CLS, 1995; cfr. anche Gioacchino Ambrosini, Occultismo e Modernismo, Bologna, Tipografia Arcivescovile, 1907.
[17] N. Goldmann, Staatmann ohne Staat. Autobiographie, Koln–Berlin, 1970, pp. 378 ss.
[18] J. Madiran, L’accord secret de Rome avec les dirigeants juifs, in «Itineraires», n. III, settembre 1990, p. 3, nota 2.
[19] S. Schmidt, Agostino Bea. Il Cardinale dell’unità, Roma, Città Nuova, 1988, p. 612, nota 179; cfr. anche S. Schmidt, Agostino Bea. Il Cardinale dell’ecumenismo e del dialogo, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1996.
[20] J. Madiran, in «Itinéraires», autunno 1990, n. III, pp. 1–20.
[21] Cfr. T. Federici, Israele nella storia della salvezza, in «Humanitas», 22/1–2, (anno 1967), pp. 75–109.
[22] Histoire du Christianisme Magazine, 2003, n.16, p. 69.