La Marotta ricorda che Bea era conosciuto, prima del Concilio, come esegeta e studioso tradizionale dell’Antico Testamento e non assolutamente come novatore ed ecumenista.
La studiosa fa anche un paragone tra quello che comunemente viene definito il «mistero Roncalli[1]» con l’«enigma Bea». Anche se Roncalli sin da giovane era molto più apertamente schierato (pur con le dovute precauzioni) con il versante progressista dell’ambiente ecclesiale che non Bea, il quale seppe mantenere una certa riserbatezza almeno sino al 1949 per romperla apertamente solo nel 1958, dopo la morte di Pio XII.
Abbiamo già visto come la carriera di Bea sino al 1949 potesse sembrare agli occhi dei più quella di un esegeta conservatore, stretto collaboratore di Pio XI e poi soprattutto di Pio XII, di cui fu anche il confessore personale.
I più, perciò, si meravigliarono quando, durante il Concilio, Bea gettò la maschera e mostrò un volto che poteva sembrare completamente nuovo; mentre in realtà sin dal 1937 e soprattutto dopo il 1948 aveva già iniziato a lavorare - anche se discretamente - all’«aggiornamento» teologico, specialmente in tema di ecumenismo.
Opportunismo o paziente attesa?
Lo storico gesuita Giacomo Martina si è domandato (come molti altri) se Bea si fosse adattato per opportunismo al “nuovo corso”, passando dal conservatorismo teologico al progressismo sostenuto, oppure se Bea abbia rivelato più esplicitamente delle tendenze e idee che albergavano in lui da molti anni, ma che erano state messe in sordina poiché i tempi non erano ancora maturi[2].
Lo storico Giacomo Martina, giustamente, propendeva per l’ipotesi della “prudenza” e della “pazienza” (oggi si direbbe “vigile attesa”), scusando Bea da accuse di opportunismo o carrierismo, poiché sino alla morte di Pio XII non sarebbe stato prudente esternare pubblicamente le proprie convinzioni non in linea con il Magistero ecclesiastico e teologicamente troppo avanzate.
La Marotta spiega che Bea era stato «costretto a sottomettersi per lunghi anni a una sofferta prudenza, che tuttavia non gli impediva di esercitare, nella discrezione e nel silenzio, una certa cauta influenza, non solo sulla formazione dei propri allievi al Biblico, ma anche, più in generale, sull’ambiente romano» (cit., p. 33).
Insomma, l’attività di Bea durante i pontificati di Pio XI e XII (1922/1958) potrebbe essere presentata come un periodo di lungo “lavoro paziente”, sotterraneo e nascosto; mentre con Giovanni XXIII e Paolo VI venne il momento dei “colpi d’audacia”, aperti e persino provocatori (S. Marotta, cit., p. 34).
Bea scelto dai teologi di Paderborn?
Tuttavia, dal libro della dottoressa Marotta si evincerebbe che il cambiamento operato da Bea non sarebbe avvenuto «per una scelta personale, ma per effetto di una precisa strategia degli interlocutori germanofoni, i quali avevano selezionato un contatto di fiducia a Roma [Bea, ndr] che fosse in grado d’intercedere in loro favore presso la Congregazione suprema [il sant’Uffizio, ndr] e soprattutto presso il Pontefice» (cit., p. 38).
Insomma, Bea sarebbe stato scelto, dai teologi progressisti dell’area germanica e particolarmente della diocesi di Paderborn, data la sua posizione a Roma presso il Papa e il Sant’Uffizio, per poter essere utile alla loro causa. Perciò, l’aggiornamento non sarebbe stato tanto una scelta di Bea quanto una situazione in cui egli si sarebbe venuto a trovare poiché abilmente scelto da altri che si servirono di lui.
Sinceramente l’ipotesi (che ha un certo fondamento nella realtà) mi sembra un po’ troppo ardita… infatti, non mi sembra realistico presentare Bea come una creatura dei Paderbornesi, anche se egli iniziò la sua svolta “antropocentrica” proprio in collaborazione con alcuni teologi ed ecclesiastici di Paderborn, ma non come una loro “marionetta”.
Tuttavia, la Marotta aggiusta il tiro e deve riconoscere che se pur le cose fossero andate veramente così, già verso il 1949, Bea aveva acquistato tanta competenza e autonomia sul tema dell’aggiornamento ecumenico da poter sganciarsi completamente anche da chi lo aveva scelto e “aggiornarsi con le sue gambe”.
Perciò il decennio che va dal 1949 al 1959 si rivela essenziale per capire la genesi dell’aggiornamento teologico ed ecumenista del cardinale tedesco, ma non tanto da escludere ogni zona d’ombra, la quale permane anche dopo il libro della Marotta, pubblicato nel 2019, poiché riguardo a Bea restano molti documenti non ancora desecretati.
Infatti, ora possono essere consultati liberamente tutti i documenti relativi alla Santa Sede, ma soltanto sino alla fine del Pontificato di Pio XI (1939); mentre quelli relativi a Pio XII (1939/1958) restano ancora sub secreto.
Perciò, non si può avere la piena certezza dell’operato reale di Bea durante il ventennio 1939/1958, data la inaccessibilità dei documenti che lo riguardano. Tuttavia, vi sono alcuni archivi privati e non appartenenti alla Segreteria di Stato (ancora sub secreto), i quali sono custoditi (e sono consultabili) presso i gesuiti di Monaco di Baviera poiché il medesimo cardinale tedesco aveva lasciato scritto nel suo testamento, stilato il 18 luglio 1965 (circa tre anni prima di morire), che le sue carte personali sarebbero passate non alla Segreteria di Stato e quindi secretate, ma presso i suoi confratelli di Monaco e quindi oggi consultabili.
Nonostante ciò alcuni altri documenti di Bea e su Bea sono rimasti in Vaticano e occorre aspettare ancora per poterli studiare.
Comunque, si può disporre di molto materiale circa l’attività anche discreta di Bea, che la dottoressa Marotta ha potuto consultare e che ci permette di farci un’idea più chiara del suo modus operandi.
I tre gradini percorsi da Bea
A partire dai documenti oramai in nostro possesso, si può dividere in tre parti principali l’azione di Bea a Roma: 1° gradino: dal 1924 sino al 1939, di cui si conosce quasi tutto (almeno dopo il libro della Marotta); 2° gradino: durante il Pontificato di Pacelli (1939/58) di cui molto resta ancora da sapere e in cui Bea aveva iniziato ad agire più liberamente ma sempre con molta “pazienza e circospezione”; 3° gradino: durante i Pontificati di Roncalli e Montini, in cui Bea aveva gettato la maschera conservatrice, agendo in maniera apertamente progressista, soprattutto durante i lavori del Concilio Vaticano II e che è pubblicamente conosciuta anche ai meno addentro alle questioni vaticane.
Insomma, vi è 1°) un Bea “inedito” (che ha operato durante il Pontificato di Pio XII, i cui documenti in gran parte non sono ancora consultabili); 2°) uno un po’ meno sconosciuto (durante il Pontificato di Pio XI, oramai consultabile) e infine 3°) uno molto chiaro (durante il Vaticano II), che ha agito apertamente poiché non era più necessario nascondere le proprie tendenze modernistiche, le quali erano pienamente sponsorizzate da papa Roncalli e Montini.
Il libro della Saretta Marotta apre un sipario molto interessante riguardo al coinvolgimento sempre più crescente di Bea nelle questioni ecumeniste e teologicamente avanzate.
Bea: l’ecumenismo, la liturgia e il giudeocristianesimo
Tuttavia la sua attività, non va ristretta solo all’ecumenismo ma anche alla Riforma liturgica[3] (che monsignor Annibale Bugnini presenta un po’ arditamente come se fosse iniziata a partire dal 1948, pur se essa in realtà iniziò formalmente con il Concilio Vaticano II e approdò alla Nuova Messa di Paolo VI del 1968) e ai rapporti con il Giudaismo (di cui abbiamo parlato nella scorsa puntata) a partire dal 1960.
Per ora mi fermo qui, terminando con questa interessante citazione: «Attraverso l’indagine qui proposta sarà possibile desumere gli indizi dell’evoluzione del pensiero teologico del gesuita tedesco in un decennio sofferto per la storia ecclesiale, dipanatosi negli anni della Humani generis e della condanna della nouvelle théologie, del dogma dell’Assunzione (1950) ecc. Sono indizi che l’Autrice di queste pagine spera possano contribuire a far luce sull’«enigma» biografico di quei settantanove anni di vita del Bea, che precedettero la nomina del cardinale a Presidente del Segretariato per l’unità dei Cristiani e che il cardinale stesso in séguito ebbe a descrivere come provvidenziale “preparazione” al compito che nel 1960 papa Roncalli gli avrebbe affidato» (S. Marotta, cit., p. 51).
Compito che Bea stesso aveva definito così: «Tutta la mia vita è stata una preparazione a questo compito; quello che debbo fare oggi non potrei farlo se non fossi passato attraverso così tanti impegni e incarichi» (S. Schmidt, Agostino Bea, il cardinale dell’unità, Roma, Città Nuova, 1987, p. 881).
Insomma, il cardinale stesso ammette di essersi preparato lungo tutta la sua vita a mettere in atto l’aggiornamento conciliare, grazie agli innumerevoli incarichi che aveva ricoperto a Roma sin dal 1924 e che gli permisero di giocare un ruolo decisivo a favore del cambiamento modernistico della teologia cattolica messo apertamente in atto durante il Vaticano II.
Nel prossimo articolo inizieremo a seguire i passi felpati che Bea muoveva a Roma dal 1949 e che lo porteranno a marciare speditamente verso il modernismo a partire dal 1959, ossia dopo la morte di Pio XII che oggettivamente ha esercitato il ruolo del katékon.
d. Curzio Nitoglia
Fine Della Quarta Parte
Continua
[1] Cfr. R. Rouquette, Le mystère Roncalli, in «Etudes», n. 318, anno 1963, pp. 4-18; A. Melloni, Papa Giovanni. Un cristiano e il suo Concilio, Torino, Einaudi, 2009, pp. 5-45.
[2] G. Martina, A novant’anni dalla fondazione del Pontificio Istituto Biblico, in “Archivium Historiae Pontificiae”, n. 37, anno 1999, pp. 129-160.
[3] Cfr. A. Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), Roma, Edizioni Liturgiche, 1983.