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Dalla Franzoni a Sarah Scazzi, la cronaca nera è il piatto forte dei nostri tg, un serial infinito che intreccia lo show del dolore e la caccia al colpevole dal divano di casa. Una tendenza che fa dell'Italia un caso unico in Europa

La tragedia privata di Sarah Scazzi, esibita in pubblico in tv da "Chi l'ha visto?" e proseguita su "Linea notte", mercoledì scorso, ha sbancato l'auditel. Oltre 4 milioni di spettatori. Un trionfo di pubblico e di critica. Nonostante le polemiche violente.

Il delitto della giovane Sarah Scazzi ha suscitato sgomento. Per come è stato consumato. Ma anche per come è stato scoperto e comunicato. In diretta tv, presenti - e protagoniste - la madre, la zia e la cugina (di Sarah). Rispettivamente: moglie e figlia dell'assassino. A casa dell'assassino. La novità è che lo spettacolo del dolore, stavolta, non solo è avvenuto in diretta. Ma è stato predisposto prima - per quanto in modo inconsapevole. I protagonisti della tragedia erano presenti sulla scena del crimine, davanti alle telecamere. "Prima" del colpo di scena.

Così questa tragedia privata, esibita in pubblico, trasmessa da "Chi l'ha visto?" e proseguita su "Linea notte", mercoledì scorso, fino a notte inoltrata, ha sbancato l'auditel. Oltre 4 milioni di spettatori. Facendo balzare lo share, in pochi minuti, dal 10% al 33%. Un trionfo di pubblico e di critica. Nonostante le polemiche violente. Perché, comunque, si sono marcati nuovi limiti nella corsa al "reality show" senza limiti. Recitato da attori involontari, che avrebbero rinunciato volentieri alla parte e, soprattutto, al soggetto. Ma proprio per questo più gradito al pubblico. Alla ricerca costante di emozioni forti. Di tragedie consumate in ambito familiare, amicale, locale. In Italia più che altrove. Perché da noi la criminalità costituisce un genere televisivo di successo, che occupa uno spazio specifico e ampio - anzitutto nei notiziari.

I DATI DELL'INDAGINE

Lo confermano i dati dell'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza (di Demos, Osservatorio di Pavia e Unipolis). Visto che, nel primo semestre del 2010, il Tg1 ha dedicato ai "fatti criminali" 431 notizie: circa l'11% di quelle presentate nell'edizione di prima serata. Uno spazio maggiore rispetto a quello riservato allo stesso tipo di notizie dagli altri principali notiziari (pubblici) europei. In dettaglio: l'8% la BBC, il 4% TVE (Spagna) e France 2, il 2% ARD (Germania). Va precisato, per chiarezza, che il tasso di crimini in Italia non è superiore a quello degli altri Paesi europei considerati. Semmai, un po' più basso. E aggiungiamo, per correttezza, che il TG5 mostra un andamento pressoché identico al TG1. Da ciò l'impressione - e anche qualcosa di più - che il crimine costituisca una passione mediatica nazionale. D'altronde, come abbiamo già mostrato altre volte, in queste pagine, c'è un legame stretto, in Italia, tra la percezione sociale e la rappresentazione mediale. Occorre, peraltro, evitare di ricondurre alla politica la responsabilità intera - comunque, prevalente - di questa tendenza. La politica, sicuramente, c'entra, visto l'intreccio inestricabile che la lega ai media e soprattutto alla televisione, pubblica e privata. (E l'enfasi sulla criminalità aiuta, certamente, a contenere la crescente preoccupazione sollevata da altri problemi. Per primo: la disoccupazione).

Tuttavia, vi sono altre importanti ragioni dietro all'irresistibile attrazione esercitata dai fatti criminali nella società italiana.

In primo luogo: le logiche "autonome" che regolano la comunicazione. In particolare, la televisione. Che, in Italia, affronta questa materia in modo diverso rispetto agli altri Paesi europei. Basta vedere la densità e la frequenza di questi avvenimenti. In Italia, i fatti criminali occupano uno spazio quotidiano sui telegiornali. Anzi, ogni giorno, in ogni edizione, vengono loro dedicate numerose notizie. Nulla di simile a quanto si osserva nelle altre principali reti europee. Le quali, peraltro, affrontano questi eventi in modo "puntuale" e "contestuale". E, dove è possibile, li tematizzano. In altri termini: l'informazione televisiva, nelle altre reti europee, è limitata, nel tempo, all'evento e ai suoi effetti. Inoltre, se possibile e utile, diviene occasione per affrontare problemi sociali più ampi. L'integrazione degli stranieri, la violenza nelle scuole, l'intolleranza interreligiosa. In Italia ciò avviene raramente. Soprattutto nel caso degli immigrati o di altri gruppi marginali, come i Rom. Con l'effetto (non involontario) di confermare il pregiudizio nei loro confronti. Invece, la regola, nella comunicazione e nei media italiani, è la "serializzazione". Oltre alla "drammatizzazione".

I crimini, cioè, non solo hanno uno spazio quotidiano, ma vengono trattati - e sceneggiati - come fiction. Da un lato, i "serial tematici" associano delitti e violenze simili: per ambiente, responsabilità, reato. Così, periodicamente, assistiamo a sciami di stupri, cani assassini, chirurghi criminali. Che all'improvviso, come sono arrivati, scompaiono. D'altro canto, e soprattutto, l'Italia è il Paese dei "grandi casi criminali" che non finiscono mai. Seguiti dai media che indagano, celebrano e riaprono i processi, sentenziano. Durano anni e anni. Dal 2005 ad oggi, i 7 telegiornali nazionali, in prima serata, hanno dedicato: 941 notizie al delitto di Meredith Kercher Perugia, 759 a quello di Garlasco, 538 all'omicidio del piccolo Tommaso Onofri, 499 alla strage di Erba. Avvenuti 3-4 anni fa. E, ancora, 508 notizie all'omicidio di Cogne, che risale a dicembre 2002.

Otto anni dopo, nel primo semestre del 2010, i telegiornali di prima serata gli hanno dedicato oltre 20 notizie. Si tratta di casi accomunati da alcuni elementi. Maturano in contesti familiari. Figli che uccidono i genitori. E viceversa. Oppure: si verificano nell'ambito del vicinato (come a Erba), delle relazioni amicali e di coppia (come a Garlasco), tra giovani. In ambiente universitario (Perugia). Insomma: si tratta di "casi comuni". Che ci coinvolgono tutti. Come se i fatti avvenuti potessero capitare anche a noi. O, comunque, a persone amiche e conosciute. È il voyeurismo che contrassegna una società locale e localista. Questo Paese di paesi e di compaesani (come lo definisce Paolo Segatti), dove la tv contribuisce a perpetuare l'immagine della "comunità". D'altronde, questi eventi tracimano oltre i telegiornali. Invadono i programmi di infotainment. I contenitori pomeridiani. I salotti di tarda serata. Primo - e più importante - "Porta a Porta". Dove Bruno Vespa allestisce, periodicamente, la sua corte, affollata di avvocati, criminologi, psicologi, psichiatri, vittime, parenti delle vittime e, talora, (presunti) assassini. Questa attrazione per il "crimine" costituisce, appunto, uno specifico italiano. Una "passione" che ha radici lontane: nella letteratura, nel teatro, nel cinema. (A cui, non per caso, l'Università Sorbonne Nouvelle - Paris 3, la prossima settimana, dedicherà un seminario).

Il "fatto criminale", in Italia, sui media non è guardato come "esemplare" rispetto ai problemi della società e delle istituzioni. Ma come "caso in sé". "Singolare". Il che ci fa sentire coinvolti eppure distaccati. Noi: detective, magistrati, giurati. E, in fondo, vittime e assassini. Ciò spiega lo spazio dedicato in tivù alle grandi tragedie quotidiane e ai delitti di ogni giorno. Ma anche il successo di pubblico che ottengono. Perché generano angoscia ma, al tempo stesso, rassicurano. Ci sfiorano: ma toccano gli "altri". È come sporgersi sull'orlo del precipizio e ritrarsi all'ultimo momento. Per reazione. Si prova senso di vertigine. Angoscia. Ma anche sollievo. E un sottile piacere.

Ilvo Diamanti

Fonte > 
La Repubblica



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