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Emmott vs Tremonti, è cominciato un lungo duello ideologico e politico
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Non tutti accettano l'antiliberismo dell'imminente ministro

Il Dr Emmott e Mr Trem. Il Corriere della Sera ha ospitato lunedì un intervento di Bill Emmott, ex direttore dell'Economist, che critica da liberale prò mercato alcune dichiarazioni di Giulio Tremonti - l'uomo che più di tutti ha incarnato il sentimento antistatalista del nord e oggi molto antiglobal - alla stampa inglese.

"Ha ragione Emmott - dice al Foglio Alberto Alesina - quella della globalizzazione è una questione complessa, non la si può affrontare ricorrendo ad affermazioni generiche. Parlare di riscrivere le regole del mercato mondiale è pericoloso perché dà adito a tentazioni anticapitalistiche e protezioniste. E la storia ci insegna che questa è sempre una via sbagliata, soprattutto nei momenti di recessione".

Il dibattito è interessante sia per la sostanza sia per le caratteristiche dei protagonisti. Emmott si fa portatore della "con-ventional wisdom" degli economisti e di un certo mondo anglosassone, attento al rispetto formale dei mercati. In un certo senso incarna lo spirito thatcheriano, che ha consentito di trasformare una nazione quasi socialista e in declino nella locomotiva d'Europa. Il pensiero tremontiano ha subito invece un'evoluzione imprevista. Se nella prima stagione del berlusconismo era l'uomo che prometteva la rivoluzione antiburocratica al popolo delle partite Iva, oggi parla e agisce come critico spietato del free trade, duetta con Fausto Bertinotti, suona secondo lo spartito fazista e incassa l'endorsement di un affettuoso arci-nemico come Guido Rossi.

A Tremonti piace la veste dell'intellettuale, ma lui stesso nel suo ultimo libro "La paura e la speranza" dice che non c'è differenza tra il lavoro intellettuale e l'impegno politico. Certo non c'è nel suo caso: a dispetto delle sue prese di posizione sempre più estreme - sull'entità della crisi in corso, sulle sue cause, e sulla natura dei rimedi - Tremonti sarà ancora una volta ministro dell'Economia, cioè uno degli uomini politici più importanti e potenti in Europa. In questa veste, sarà chiamato a declinare nella pratica le sue teorie.

Già ha dato qualche anticipazione: con l'attacco a Mario Draghi, e l'esortazione a considerare "strumenti nuovi" quali "nazionalizzazioni e aiuti di stato", seguito al civettamento con Jean-Baptiste Colbert, col fare sponda al localismo leghista e ai "valori cristiani", col rilancio del New Deal europeo che scalza nella sua retorica la questione fiscale. Tremonti se ne andò da via XX Settembre "perché volevo tagliare le tasse e non me l'hanno lasciato fare" e vi torna con la General Theory di Lord Keynes sotto braccio. Ed è qui che la sfida di Emmott si fa tagliente.

L'opinionista e scrittore britannico prende spunto da una lettera di Tremonti al Financial Times, in cui l'ex e futuro ministro si difendeva dall'accusa di protezionismo formulata da Tony Barber. L'autore di "Rischi fatali" affermava di essere per "un mercato regolato, contro un mercato libero non regolato" e traduceva il suo credo nella massima "mercato se possibile, stato se necessario".

Per Emmott, la prima affermazione è inconsistente, in quanto propone un'alternativa vacua: il mercato è già regolato, quindi Tremonti dovrebbe dire cosa cambiare, non rivolgere un generico appello per aver più regole. "Sebbene esistano istituzioni internazionali e alcuni vincoli -obietta l'economista di sinistra Riccardo Realfonzo - è chiaro che il contesto in cui ci troviamo è quello di mercati aperti e liberi, in cui paesi come quelli europei subiscono un dumping sociale da parte delle economie asiatiche. Piuttosto, Tremonti dovrebbe estendere il suo ragionamento: non vedo perché debba invocare, giustamente, nuovi vincoli per il commercio internazionale senza poi chiedere lo stesso all'interno dell'Unione europea".

Al contrario, per Jean-Pierre Lehmann, professore di Politica economica internazionale all'Imd di Losanna, "la posizione di Tremonti è pericolosa. La Wto esiste proprio per creare un contesto multilaterale da cui possono emergere le regole. Se il ministro ha delle obiezioni, dovrebbe farle: ma attaccare l'intero processo significa compiere un passo indietro e tornare a quando le regole venivano stabilite unilateralmente. Col rischio di averne troppe e inefficaci, anziché poche e ben funzionanti".

La seconda tesi tremontiana solleva, nelle parole di Emmott, due domande: "Chi decide se lo stato è necessario? Come si definisce la necessità?". Si tratta di questioni essenziali, anche perché dalla risposta deriva, per esempio, il modo in cui il ministro Tremonti vorrà sbrogliare l'affaire Alitalia: il ritiro di AirFrance segna la fine della tentata (e maldestra) privatizzazione prodiana, il Cav. in campagna elettorale ha promesso una cordata italiana che fatica a emergere.

E' forse a questo che Tremonti pensa quando dice di non essere né favorevole né contrario alle nazionalizzazioni o agli aiuti di stato?

Il fatto stesso di trarre questi strumenti fuori dall'armadio della storia è una presa di posizione. Emmott dice che l'intervento pubblico può essere considerato necessario quando c'è di mezzo una questione di interesse generale, e certo non è il caso del vettore di bandiera. Tremonti, nella lettera al Ft, forniva una risposta preventiva: "Dopo l'intervento pubblico in casi come Bear Stearns e Northern Rock, nessuno può dire che l'intervento pubblico nel santuario del capitalismo, cioè l'alta finanza, va di pari passo col tentativo di uccidere l'economia di mercato".

Ammesso che la Bank of England e la Fed abbiano effettivamente fatto la cosa giusta, vale per Alitalia quello che ha condotto al salvataggio delle due banche? L'intellettuale Tremonti può anche lasciar cadere la questione, ma il politico non dovrebbe eluderla e il ministro avrà l'obbligo di chiudere la faccenda.


Carlo Stagnaro

Fonte >  Il Foglio


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