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Fisco che perde, arbitro che cambia
Italia Oggi
20 Luglio 2011
L'ultima di Tremonti
La pubblica amministrazione perde circa il 40% delle cause davanti ai giudici tributari. Questo indicativo dato, segnalato nel marzo dell'anno scorso durante la «Giornata celebrativa della giustizia tributaria», è all'origine degli sconvolgimenti che nel settore dei magistrati tributari sono stati operati dal decreto-legge n. 98/2011, contenente la manovra, per essere confermati dalla legge n. 111 di conversione.
Preso atto che per gli enti pubblici (non solo le agenzie fiscali, ma anche comuni e province e altri enti tassatori, compresi i consorzi di bonifica sconfitti una volta su due) si tratta di una sgradevole batosta, che incide sul lato delle entrate, ecco che si è pensato bene di porre un argine alle sconfitte. Rendendo più civile il fisco? Semplificando le procedure? Abbassando le aliquote? No. Il sistema è stato individuato nel mutamento dei giudici. Via, dunque, i professionisti: troppo ammanicati con i privati, si è fatto capire, quindi poco propensi a dar ragione al pubblico. Dentro, in compenso, «giudici selezionati tra i magistrati ordinari, amministrativi, militari, e contabili in servizio o a riposo ovvero tra gli avvocati dello Stato a riposo» (art. 29, comma 1, dl n. 98 come convertito: il testo originario del decreto addirittura ammetteva avvocati dello Stato «in servizio»).
Come ha ottimamente rilevato Manuel Seri sul sito dell'Istituto Bruno Leoni chicago-blog, le nuove commissioni tributarie saranno formate «prevalentemente da magistrati (sostanzialmente impiegati di elevato livello, normalmente digiuni di esperienze dirette nelle materie interessate dall'obbligazione tributaria, contribuenti a redditi fisso e inoltre pagati dallo Stato del quale l'Agenzia delle entrate costituisce la longa manus che procura le risorse finanziarie necessarie), magari affiancati da pensionati o da dipendenti dello Stato o da ex militari della Guardia di finanza o da insegnanti di materie economiche e giuridiche».
Lo scopo è palese. I magistrati pubblici immessi in luogo di quelli privati si presume siano più propensi a guardare alle ragioni degli enti impositori, anche per un personale interesse. La loro terzietà verrebbe spostata in favore di una delle parti in causa, posto che l'incremento delle entrate torna nella loro utilità. La vicenda presenta analogie (poco simpatiche, a dir la verità) con la giustizia costituzionale. È noto come, prima di esaminare alcune leggi che avrebbero potuto provocare ricadute pesanti sulle entrate dello Stato, la Corte costituzionale esaminasse il cosiddetto impatto di una propria pronuncia favorevole a una parte privata.
Considerazioni simili, all'evidenza, non dovrebbero avere il minimo rilievo quanto a una valutazione giuridica, essendo la costituzionalità o incostituzionalità di un provvedimento avulsa dalle possibili conseguenze sull'erario.Se poi si volesse estendere la riflessione, ci sarebbe da chiedersi quali garanzie presenti oggi l'intero apparato giudicante, quanto a terzietà di fronte a un cittadino (contribuente o imputato che egli sia). Chi garantisce più che l'interesse personale del magistrato non faccia capolino in una sentenza?
Non si dice soltanto in vertenze in cui ci sia un diretto utile di casta (in tema di vantaggi stipendiali o di privilegi per una specifica categoria di magistrati, estensibili), ma pure in altre cause in cui prevarrebbe non l'applicazione della legge, bensì l'interpretazione favorevole alla parte pubblica che potrebbe, domani, ridondare a favore di chi oggi giudica. Dell'indipendenza dei magistrati si dubita sempre più: era un fondamento dello Stato di diritto.
Cesare Maffi
Fonte > Italia Oggi
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