Sull’euro, pensare l’impensabile
08 Febbraio 2009
In Francia è in corso un grandioso sciopero generale, di cui vale la
pena riportare le motivazioni, scritte nella «Dichiarazione comune» dei
sindacati: «La crisi economica amplificata dalla crisi finanziaria
internazionale colpisce duramente gran parte dei salariati nei loro
redditi e nei posti di lavoro. Senza esserne per nulla responsabili,
salariati, giovani in cerca di lavoro e pensionati sono le prime
vittime della crisi. Essa minaccia l’avvenire dei giovani, frattura la
coesione sociale e le solidarietà, accresce le ineguaglianze e i
rischi di precarietà. Le leggi del mercato non possono da sole
risolvere i problemi».
Nel suo semplicismo, questo comunicato tocca un punto essenziale:
pensate se fossero stati i lavoratori, con scioperi e richieste di
aumenti incontrollati, a rovinare l’economia mondiale. Pensate gli atti
d’accusa che i media leverebbero contro la «irresponsabilità» dei
sindacati e l’avidità dei dipendenti. Invece sono state le banche, il
capitale speculativo, a rovinare il mondo, indebitandolo fino
all’impossibilità di servire i debiti, creando una bolla speculativa
dopo l’altra; in un anno, il loro crollo ha distrutto il 40% della
ricchezza globale; ma questi irresponsabili sono ancora tutti al loro
posti anzichè in galera, continuano a pagarsi bonus miliardari, e a
loro beneficio Stati e Banche Centrali impiegano cifre colossali per
salvataggi che non bastano mai – l’erosione degli «attivi» finanziari
prosegue inarrestabile – mentre loro si esentano ormai dal prestare
alle imprese anche sane.
I soldi che non si trovavano mai per gli aumenti salariali, si trovano
senza limiti per questi salvataggi inefficaci; la «moderazione
salariale» eternamente raccomandata dalla BCE per non sforare o ridurre
il debito pubblico, diventa «smoderatezza» accettabile per rimpinguare
i capitali di quelli che li hanno perduti, al gioco d’azzardo globale,
anzi hanno perduto cento o mille volte più dei loro capitali propri. E
d’incanto, i richiami al pareggio dei bilanci passano in seconda linea.
Per «salvare» la finanza, è diventato lecito accumulare debiti di
Stato, emettere nuovi buoni del Tesoro – anche se non si sa chi li
comprerà.
Può anche darsi che questi salvataggi d’urgenza siano necessari. Ma
essi avvengono senza punire i responsabili e senza che si accenni, da
parte dei governi, a una volontà qualsiasi di riformare il sistema, di
ingabbiare dentro regole precise le follie speculative; senza cui, se
anche un giorno ci sarà una ripresa, si ricadrà negli stessi errori.
Deve cambiare l’ideologia; ma i governi, abituati a decenni di
irrersponsabilità (tutto andava «privatizzato», la mano pubblica non
aveva più doveri nè compiti) sono prigionieri del pensiero unico e
servi incoscienti degli interessi dei più forti; e fanno finta di
salvare «il libero mercato» nel momento stesso in cui nazionalizzano le
entità speculative. Le nazionalizzano, ma lasciano alla loro guida i
padroni di prima.
Proteste infuriano anche in Lituania, Lettonia, Ungheria e Bulgaria,
pochi mesi orsono entusiasti scolaretti del liberismo globale. Ingenui,
hanno goduto di pochi mesi di benessere pagato a credito; ora hanno di
fronte un futuro di tagli salariali, arretramenti nel livello di vita,
aumenti della pressione tributaria; felici di essere usciti
dall’egualitarismo sovietico, si trovano ora nella giungla
dell’inegualitarismo capitalista terminale, che non ha costruito nulla;
e dove i più piccoli sono le vittime della legge della giungla.
Ian Begg, docente alla London School of Economics, scorge (finalmente)
nelle proteste in Lettonia «una perdita di fiducia nel progetto
europeo».
Questi piccoli Paesi sono entrati troppo in fretta nell’euro, o ne sono
dipendenti. Un default di uno di loro avrà effetti sull’euro. Ma non
sono i soli: Grecia e Portogallo non sono lontani dal default.
La crisi metterà a dura prova la tenuta della zona euro. Qui, i Paesi
deboli non possono svalutare la loro moneta per rendere competitive le
loro merci all’estero; e non possono nemmero, date le loro dimensioni e
i loro bassi redditi, accrescere in modo significativo la domanda
interna come possono ancora fare Germania e (in misura minore) la
Francia.
Tutti i PIIGS (una sigla che indica i Paesi deboli della zona euro:
Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna) già devono pagare di più
per indebitarsi coi loro Buoni del Tesoro, come dimostra la forbice tra
i titoli di debito di questi Paesi e quelli tedeschi.
Le agenzie di rating (che andrebbero soppresse) stanno per svalutare la
credibilità dell’Irlanda, dichiarandola insolvente. I «mercati»
speculativi, non disciplinati nè ingabbiati, esistono ancora e
continuano a far danni; Soros, a Davos, ha raccontato come abbia
speculato sulla sterlina con lo shorting, ossia con vendite allo
scoperto al ribasso; la speculazione svaluta di fatto la credibilità
dei PIIGS, rendendo loro più difficile e costosa ogni (improbabile)
ripresa a credito.
Tutto ciò avvicina l’impensabile: l’uscita di alcuni Paesi dalla zona euro, o la loro espulsione.
Che la cosa sia nelle menti, lo rivela un fatto insolito: Trichet, il
capo della Banca Centrale Europea, ha rotto la sua austera afasia
monosillabica per rilasciare una intervista a Bloomberg. Dove ha detto:
la crisi finanziaria in corso non pone alcun rischio alla tenuta della
zona euro.
«Il fatto stesso che Trichet abbia accennato ad un tema prima tabù
dimostra che i mercati finanziari sono di tutt’altro parere», ha
sùbito commentato Gabriel Stein, economista ebreo-svedese alla Lombard
Street Research.
Il che la dice lunga sulla credibilità istituzionale della stessa BCE:
questa rara parola di Trichet viene intesa come una menzogna. Dopo la
sua uscita, è certo che gli speculatori aumenteranno la pressione sui
Paesi deboli della moneta unica.
La spaccatura dell’area euro diverrà più probabile.
Per contrastare questa pressione crudele dei «mercati», occorrerebbe
che Bruxelles e la BCE avessero la forza di costringere la Germania a
soccorrere l’uno o l’altro dei Paesi PIIG, nel nome di non si sa quale
«solidarietà eurocratica».
Questa sola ipotesi ha suscitato la furia del ministro tedesco delle
Finanze. La Germania ha i suoi problemi, dovuti all’euro e alla
ostinazione di Trichet a mantenere assurdamente alti i tassi
d’interesse. Le esportazioni tedesche sono crollate dell’11% in volume
tra ottobre e novembre. Le esportazioni diventano sempre più difficili
anche per il Paese più «forte», dato il costo crescente dell’euro
rispetto al dollaro.
Tutto vero. Ma il no tedesco dimostra come l’ideologia dominante del
liberismo abbia condotto ciascuno a non percepire più la situazione in
termini collettivi, ad abbandonare ogni nozione di solidarietà.
L’Europa non è unita anzitutto nelle menti; alla sua prima seria crisi,
ognuno pensa per sè. E la BCE, Banca Centrale a metà perchè non ha alle
spalle un Tesoro «europeo» e non può emettere titoli di debito europei,
non ha armi, nemmeno intellettuali, per imporre un’azione solidale e
comune.
A questo punto, conviene anche all’Italia cominciare a pensare a se
stessa, e a concepire l’impensabile: ossia a fare default sul suo
debito, e simultaneamente ad uscire dall’euro.
D’accordo, ciò provocherebbe 4-5 anni di durissima tirata di cinghia,
economia di guerra, tesseramento; ma l’enorme crisi finanziaria globale
ci costringerà comunque ad anni durissimi, forse molti di più. Molto
più lunghi, se continuiamo a trascinarci l’immane debito pubblico, che
ci costringe a «servirlo» sborsando ogni anno 73 miliardi di euro,
lungo un declino nazionale iscritto in una crisi mondiale che – se
somiglia a quella del ’29 – rischia di durare un ventennio.
Si tenga presente che il Guardian britannico dà ormai consigli per
«vivere dopo l’apocalisse», con domande del tipo: «Avete quel che
occorrre per farcela in un mondo senza elettricità nè acqua corrente?».
Il default sarebbe dolorosissimo, la soluzione-Armageddon; ma occorre
valutare se è più doloroso per l’attuale e le prossime generazioni,
restare come siamo, privati delle armi della politica monetaria
sovrana, in un’Europa dove ciascuno fa per sè.
I debiti sovrani sono fatti per essere ripudiati. E’ successo altre
volte nella storia: alla Francia otto volte, alla Spagna sei; la
Germania ripudiò il debito nel 1932, l’Italia nel 1940; la Russia, nel
1998.
Se dichiarassimo insolvenza sovrana – rendendo esplicito ciò che tutti
sanno: che il nostro debito è impagabile – ci libereremmo di colpo di
quella palla al piede che ci trasciniamo da venti o trent’anni.
I «mercati» non farebbero più credito all’Italia almeno per vent’anni,
d’accordo. Ma qui, l’Italia ha dalla sua vari relativi vantaggi:
Anzitutto, il nostro debito è detenuto per il 50% da stranieri,
finanzieri e speculatori, che sarebbero i veri danneggiati; quello
interno, è in gran parte detenuto da banche nostrane, che meritano la
punizione. Solo il 15% dei BOT sono in mano a veri risparmiatori
italiani individuali, per lo più vecchi; soffriranno, ma forse si potrà
fare una rete di salvataggio per loro. A soffrire di più, saranno gli
speculatori esteri e i mascalzoni bancari. Il che ci dà una forza,
diciamo, di ricatto. Essi non ci faranno più credito.
Ma qui, va notata una cosa: se il nostro debito pubblico è altissimo,
106% del PIL, noi abbiamo ancora una quota rilevante di rispamio
privato. Siamo in una situazione contraria a quella della Gran
Bretagna, dove il debito pubblico è solo il 60% del PIL (ma sta
crescendo orrendamente per «salvare» la loro finanza) e le famiglie
sono stra-indebitate. I debiti privati contratti dalle famiglie
britanniche ammontano a 1.700 miliardi di sterline, ed un terzo di
questo debito privato immane dipende, per essere rinnovato, da banche e
prestatori esteri – che sono sempre meno inclini, o non hanno più i
capitali per rinnovarlo. Quel poco capitale disposto a rischiare
rimasto nel mondo, andrà comunque a investirsi in altri BOT: americani
o tedeschi, lasciando a secco i Paesi meno forti.
Insomma noi e la Gran Bretagna siamo indebitati alla pari se il debito
pubblico viene addizionato a quello privato, con una differenza
cruciale a nostro vantaggio: senza prestiti esteri, le famiglie inglesi
crepano di fame; l’Italia può ripudiare il suo debito sovrano, e le
famiglie italiane, arrancando, ce la faranno. Inoltre, se gli stranieri
non ci compreranno più i nostri BOT per vent’anni, le famiglie italiane
possono ancora comprarli; addirittura in modo forzoso, come fece già il
governo Amato-Ciampi, quello dei due padri della patria.
Magari, gli italiani si accorgeranno che lo Stato si incamera il 46%
del PIL con le tasse; ed esigeranno che il settore pubblico si contenti
di vivere del prelievo fiscale, che è già altissimo. Magari perfino
esigeranno che le paghe dei consiglieri regionali siciliani, 19 mila
euro mensili, vengano decurtate – insieme a tutti gli altri emolumenti
dei grandi parassiti pubblici – a livelli di «solidarietà nazionale».
Chi ha goduto di più, paghi di più. Partecipi al sacrificio.
Voglio dire: il default del debito pubblico non ci troverà nelle
condizioni dell’Argentina – per quanto dicano gli ideologi britannici –
perchè l’Argentina aveva bisogno di farsi prestare i soldi dall’estero
anche per la normale amministrazione, e non ha una industria.
Noi, ripudiando il debito e contestualmente uscendo dall’euro,
subiremmo ovvii contraccolpi (fra cui il rincaro delle materie prime, a
cominciare dalla benzina, e il rincaro di tutte le merci estere, a
cominciare dai telefonini) ma il nostro settore produttivo, vendendo le
sue merci in lire svalutate (almeno del 50% rispetto all’euro)
tornerebbe estremamente competitivo.
Ciò farebbe paura alla Germania: siamo fra i suoi concorrenti
principali nell’export, e provocheremmo la riduzione competitiva dei
suoi sbocchi commerciali. I tedeschi smetterebbero di farci la lezione;
probabilmente sarebbero i primi a «non» volere la nostra uscita, e
magari si deciderebbero a pagare un prezzo alla solidarietà europea.
E’ un’arma di ricatto potentissima, la sola minaccia di uscire
dall’euro insieme al default sovrano; ed è in mano nostra. In caso
estremo, potremmo almeno agitarla.
Di fronte al pericolo del «ciascuno per sè» che già si profila, noi non
siamo i messi peggio. Forse, il rischio del default italiano potrebbe
imporre un’altra Europa, quella che serve: un’Europa-fortezza, grande
spazio di produzione e consumo, chiuso alle merci estere da dazi, teso
all’autosufficienza.
Si aggiunga che contrariamente a Grecia, Portogallo, Irlanda o Lettonia
– che hanno pochi milioni di abitanti – noi abbiamo pur sempre un
notevole mercato interno, dove scambi decenti possono avvenire nella
neo-lira. «Comprate italiano» diverrà non uno slogan vuoto, ma una
necessità e – forse – la via per una ritrovata solidarietà nazionale.
Poichè eravamo «arretrati» nella «globalizzazione», abbiamo mantenuto
una certa diversificazione produttiva; non ci siamo «specializzati» in
finanza, come ha fatto l’Inghilterra che ora se ne pente; possiamo
ancora mangiare pane da noi prodotto. E liberati dal peso del debito
sovrano, che ci costa 73 miliardi di euro annui, torneremo snelli e
fiduciosi; specie i giovani, che sono quelli che pagano questo debito a
favore dei vecchi, e allo Stato attuale, non hanno altra prospettiva
che continuare a pagarlo vita natural durante.
Certo, sono ipotesi estreme, che butto giù alla rinfusa. Non tutte le
conseguenze mi sono presenti, può anche essere che tutta l’ipotesi sia
sbagliata. Ma visto che le soluzioni tratte dal manuale liberista e
bancario non stanno servendo a nulla – anzi la crisi si aggrava
precipitosamente ogni giorno – bisogna cominciare a pensare ad altre
soluzioni, senza più alcun tabù.
La soluzione va trovata nel «pensare l’impensabile».
Maurizio Blondet
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