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Il comandante in chiacchiere
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Nel suo nuovo libro Bob Woodward scrive: “Il presidente dichiarò con irritazione di ritenere che in America ci fosse una elite che non lo riteneva capace di fare bene alcuna cosa.”

Lo scorno da parte di una elite deve riuscire penoso a lui che si è innalzato dalle umili origini di Andover, Yale, Kennebunkport e dalla cassetta di proprietario dei Texas Rangers. Ma può trovare sollievo nello scoprire che il suo problema non è soltanto con una o più elites: è piuttosto con l’intero paese.

Come fa notare Woodward nel suo “La guerra all’interno”, quando nell’agosto 2006 l’amministrazione iniziò a pianificare l’aumento delle truppe in Iraq, un sondaggio Gallup mostrò che il 56% del paese riteneva la guerra in Iraq un errore, e il consenso al presidente Bush era al 37%. Due anni dopo persino Barack Obama afferma che l’aumento delle truppe ha avuto successo al di là delle migliori aspettative dfi chiunque. E cosa dice invece l’ultimo sondaggio Gallup? Che il 58% degli americani continua a pensare che la guerra in Iraq è stata un errore. Il consenso a Bush è sceso al 33%.

Per Bush la soluzione era ovvia: fare un altro discorso della vittoria che facesse battere forte il cuore.

E così la Casa Bianca ha riunito ieri alcune centinaia di ufficiali delle forze armate, gente cui è richiesto di alzarsi in piedi e salutare quando il presidente parla, a Fort McNair, nella zona sud-occidentale di Washington, per ascoltare il presidente che recitava la sua ultima versione del discorso sulla Missione Compiuta. I presenti nell’Università della Difesa Nazionale erano tranquillamente e obbedientemente seduti, nelle loro uniformi verdi, oliva, bianche e blu, mentre Bush parlava di “un momento di successo nella guerra al terrore.”

A seguito dell’aumento di truppe, ha dichiarato “le forze americane hanno sistematicamente smantellato il controllo di Al Qaeda” nella provincia dell’Anbar. In tutto l’Iraq “le uccisioni di civili sono diminuite, come pure le stragi settarie e gli attentati suicidi, e si sta ritornando alla vita normale.”
“Mentre il nemico in Iraq è pericoloso, noi siamo passati all’offensiva.”

Un ritorno alle bravate di Bush dei vecchi tempi. Nel suo libro Woodward fa notare che Bush non utilizzava più “vincendo” e “vittoria”; ma ieri, a Fort McNair, Bush ha parlato di forze irachene in grado “di vincere il conflitto” e di truppe che tornavano dall’Iraq “vittoriose”.
Il presidente stava cantando, ma c’era qualcuno che lo ascoltava?

Bush arrivò alla sua frase vincente: “Lo Stato Maggiore Riunito ha raccomandato una ulteriore riduzione di forze, ed io sono d’accordo” ma soltanto una persona in fondo alla sala ha applaudito, fermandosi immediatamente nell’accorgersi che nessuno si univa a lui.

Ci fu un tempo, non molto lontano, in cui un discorso presidenziale di tale importanza (il ritiro di 8.000 soldati dall’Iraq, e la promessa di ritirarne altri) avrebbe attratto le telecamere di 15 televisioni; ieri se ne sono viste soltanto quattro, inclusa la giapponese NHK. Gli organizzatori avevano riservato 24 posti per i giornalisti, ma se ne sono visti soltanto tre della stampa. Solo due membri del Congresso, entrambi deputati repubblicani di ultima fila, si sono presentati a questo discorso. E Frances Wilson, Tenente Generale dei Marines e preside dell’università, è stata umoristicamente breve nella sua introduzione. Ha esordito dicendo che era “onorata di dare il benvenuto al nostro comandante in capo”, chiudendo poi immediatamente con un “senza ulteriore chiasso, ecco a voi il presidente degli Stati Uniti.”

“Grazie Generale per la sua gentile e rapida presentazione,” ha replicato Bush.

Il fallimento di Bush nell’ottenere credito per l’aumento di truppe deriva probabilmente dalle sue passate scaramucce con la verità. Dopo anni di vanterie trionfalistiche che si sono poi rivelate false, adesso il presidente ha almeno un risultato di cui legittimamente vantarsi, ma la sua credibilità è ormai ferita a morte.

Ieri era di nuovo intento ad un’opera di revisionismo storico, ringraziando la Coalizione dei Volenterosi per aver mandato più di 140.000 soldati in Iraq. “Grazie al loro sforzo determinato ed alle crescenti capacità delle forze irachene, molti dei nostri alleati in Iraq sono adesso in condizioni di ritornare anche essi vittoriosi,” ha affermato con un sorriso.

Quello che però non ha detto è che, alla data della scorsa settimana, c’erano soltanto 7.330 soldati stranieri in appoggio alle truppe USA in Iraq; il numero di soldati stranieri in Iraq, sembra essere diventato così basso che, per la prima volta, il Dipartimento di Stato ha completamente omesso il conteggio dal suo rapporto settimanale sull’Iraq.

La credibilità di Bush questa settimana ha subito un altro colpo nel libro di Woodward, che riporta una citazione del Generale George Casey, precedente comandante USA in Iraq, che diceva ad un collega che Bush rispecchiava “l’ala radicale del Partito Repubblicano, che continua a gridare ‘Ammazzate quei bastardi! Ammazzate quei bastardi e vincerete!’ “ Woodward scrive anche che l’Ammiraglio Michael Mullen, al tempo capo delle operazioni navali, aveva avvertito, prima dell’aumento di truppe in Iraq, che queste sarebbero state sottratte a “tantissime altre situazioni e impegni”, incluso l’Afghanistan.

Questo avvertimento è sembrato una premonizione, ieri a Fort McNair, dato che Bush, subito dopo aver annunciato la riduzione del numero di militari in Iraq, ha ordinato un aumento di truppe in Afghanistan. L’ha spiegato come un risultato del successo dell’aumento: “Mentre Al Qaeda si trova ad affrontare un’aumentata pressione in Iraq, i terroristi stanno intensificando i propri sforzi proprio sul fronte dove questa lotta ha avuto inizio.”

In realtà la crescente violenza in Afghanistan deriva grandemente dal fatto che gli USA erano assorbiti in Iraq. Ma non importa. Il pubblico di ufficiali ha fatto ciò che gli si richiedeva: si son messi sull’attenti davanti al comandante in capo che usciva di scena al suono di una marcia di Sousa (1).

“Pericolo passato!” ha gridato un ufficiale in prima fila dopo che Bush aveva lasciato la stanza. Il presidente era partito e gli ufficiali erano liberi di tornare alla realtà di tutti i giorni.

Dana Milbank


Fonte > Washington Post | 10/9/2008

Tradotto da Arrigo de Angeli per EFFEDIEFFE.com




1) John Philip Sousa, musicista americano, autore di molte marce, fra cui “Stars and Stripes forever” (n.d.t.).

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