Il «pm» vaticano: «Chiesa rigorosa sulla pedofilia»
Avvenire
18 Marzo 2010
Importante intervista per chiarire quali sono le procedure di diritto canonico seguite dalla Chiesa in questi casi e per mettere fine a tante disinformate illazioni circa presunti "segreti d'ufficio" avvallati dal Papa
Monsignor
Charles J. Scicluna è il «promotore di giustizia» della Congregazione
per la Dottrina della fede. In pratica si tratta del pubblico ministero
del tribunale dell’ex sant’Uffizio, che ha il compito di indagare sui
cosiddetti delicta graviora i delitti che la Chiesa cattolica
considera i più gravi in assoluto: e cioè quelli contro l’Eucaristia,
quelli contro la santità del sacramento della penitenza e il delitto
contro il sesto comandamento («non commettere atti impuri») di un
chierico con un minore di diciotto anni. Delitti che un motu proprio del 2001, Sacramentorum sanctitatis tutela,
ha riservato, come competenza, alla Congregazione per la dottrina della
fede. Di fatto è il «promotore di giustizia» ad avere a che fare, tra
l’altro, con la terribile questione dei sacerdoti accusati di pedofilia
periodicamente alla ribalta sui mass media. E monsignor Scicluna, un
maltese affabile e gentile nei modi, ha la fama di adempiere il compito
affidatogli con il massimo scrupolo, senza guardare in faccia a nessuno.
Monsignore,
lei ha la fama di essere un "duro", eppure la Chiesa cattolica viene
sistematicamente accusata di essere accomodante nei confronti dei
cosiddetti "preti pedofili".
Può essere che in passato,
forse anche per un malinteso senso di difesa del buon nome
dell’istituzione, alcuni vescovi, nella prassi, siano stati troppo
indulgenti verso questi tristissimi fenomeni. Nella prassi dico, perché
sul piano dei principi la condanna per questa tipologia di delitti è
stata sempre ferma e inequivocabile. Per rimanere al secolo scorso
basta ricordare l’ormai celebre istruzione Crimen Sollicitationis del 1922…
Ma non era del 1962?
No,
la prima edizione risale al pontificato di Pio XI. Poi con il beato
Giovanni XXIII il Sant’Uffizio ne curò una nuova edizione per i Padri
conciliari, ma ne vennero fatte solo duemila copie e non bastarono per
la distribuzione che fu rinviata sine die. Si trattava comunque di
norme procedurali da seguire nei casi di sollecitazione in confessione
e di altri delitti più gravi a sfondo sessuale come l’abuso sessuale di
minori …
Norme che raccomandavano però il segreto…
Una
cattiva traduzione in inglese di questo testo ha fatto pensare che la
Santa Sede imponesse il segreto per occultare i fatti. Ma non era così.
Il segreto istruttorio serviva per proteggere la buona fama di tutte le
persone coinvolte, prima di tutto le stesse vittime, e poi i chierici
accusati, che hanno diritto – come chiunque – alla presunzione di
innocenza fino a prova contraria. Alla Chiesa non piace la giustizia
spettacolo. La normativa sugli abusi sessuali non è stata mai intesa
come divieto di denuncia alle autorità civili.
Quel
documento però viene periodicamente rievocato per accusare l’attuale
Pontefice di essere stato – in qualità di prefetto dell’ex Sant’Uffizio
– il responsabile oggettivo di una politica di occultamento dei fatti
da parte della Santa Sede…
Si tratta di un’accusa falsa e
calunniosa. A questo proposito mi permetto di segnalare alcuni fatti.
Tra il 1975 e il 1985 mi risulta che nessuna segnalazione di casi di
pedofilia da parte di chierici sia arrivata all’attenzione della nostra
Congregazione. Comunque dopo la promulgazione del Codice di diritto
canonico del 1983 c’è stato un periodo di incertezza sull’elenco dei delicta graviora riservati alla competenza di questo dicastero. Solo col motu proprio
del 2001 il delitto di pedofilia è ritornato alla nostra competenza
esclusiva. E da quel momento il cardinale Ratzinger ha mostrato
saggezza e fermezza nel gestire questi casi. Di più. Ha mostrato anche
grande coraggio nell’affrontare alcuni casi molto difficili e spinosi, sine acceptione personarum (cioé senza riguardi per nessuno ndr). Quindi accusare l’attuale Pontefice di occultamento è, ripeto, falso e calunnioso.
Nel caso che un sacerdote sia accusato di un delictum gravius, cosa succede?
Se
l’accusa è verosimile il vescovo ha l’obbligo di investigare sia
l’attendibilità della denuncia che l’oggetto stesso della medesima. E
se l’esito di questa indagine previa è attendibile non ha più potere di
disporre della materia e deve riferire il caso alla nostra
Congregazione, dove viene trattato dall’ufficio disciplinare.
Da chi è composto questo ufficio?
Oltre
al sottoscritto, che essendo uno dei superiori del dicastero, si occupa
anche di altre questioni, c’è un capo ufficio, padre Pedro Miguel Funes
Diaz, sette ecclesiastici ed un penalista laico che seguono queste
pratiche. Altri officiali della Congregazione prestano il loro prezioso
contributo secondo le esigenze di lingua e di competenza.
Questo ufficio è stato accusato di lavorare poco e con lentezza…
Si
tratta di rilievi ingiusti. Nel 2003 e 2004 c’è stata una valanga di
casi che ha investito le nostre scrivanie. Molti dei quali venivano
dagli Stati Uniti e riguardavano il passato. Negli ultimi anni, grazie
a Dio, il fenomeno si è di gran lunga ridotto. E quindi adesso
cerchiamo di trattare i casi nuovi in tempo reale.
Quanti ne avete trattato finora?
Complessivamente
in questi ultimi nove anni (2001-2010) abbiamo valutato le accuse
riguardanti circa tremila casi di sacerdoti diocesani e religiosi che
si riferiscono a delitti commessi negli ultimi cinquanta anni.
Quindi di tremila casi di preti pedofili?
Non
è corretto dire così. Possiamo dire che grosso modo nel 60% di questi
casi si tratta più che altro di atti di efebofilia, cioè dovuti ad
attrazione sessuale per adolescenti dello stesso sesso, in un altro 30%
di rapporti eterosessuali e nel 10% di atti di vera e propria
pedofilia, cioè determinati da una attrazione sessuale per bambini
impuberi. I casi di preti accusati di pedofilia vera e propria sono
quindi circa trecento in nove anni. Si tratta sempre di troppi casi –
per carità! – ma bisogna riconoscere che il fenomeno non è così esteso
come si vorrebbe far credere.
Tremila quindi gli accusati. Quanti i processati e condannati?
Intanto
si può dire che un processo vero e proprio, penale o amministrativo, si
è svolto nel 20% dei casi e normalmente è stato celebrato nelle diocesi
di provenienza – sempre sotto la nostra supervisione – e solo
rarissimamente qui a Roma. Facciamo così anche per una maggiore
speditezza dell’iter. Nel 60% dei casi poi, soprattutto a motivo
dell’età avanzata degli accusati, non c’è stato processo, ma, nei loro
confronti, sono stati emanati dei provvedimenti amministrativi e
disciplinari, come l’obbligo a non celebrare Messa coi fedeli, a non
confessare, a condurre una vita ritirata e di preghiera. È bene
ribadire che in questi casi, tra i quali ce ne sono alcuni
particolarmente eclatanti di cui si sono occupati i media, non si
tratta di assoluzioni. Certo non c’è stata una condanna formale, ma se
si è obbligati al silenzio e alla preghiera qualche motivo ci sarà…
All’appello manca ancora il 20% dei casi…
Diciamo
che in un 10% di casi, quelli particolarmente gravi e con prove
schiaccianti, il Santo Padre si è assunto la dolorosa responsabilità di
autorizzare un decreto di dimissione dallo stato clericale. Un
provvedimento gravissimo, preso per via amministrativa, ma inevitabile.
Nell’altro 10% dei casi poi, sono stati gli stessi chierici accusati a
chiedere la dispensa dagli obblighi derivati dal sacerdozio. Che è
stata prontamente accettata. Coinvolti in questi ultimi casi ci sono
stati sacerdoti trovati in possesso di materiale pedopornografico e che
per questo sono stati condannati dall’autorità civile.
Da dove vengono questi tremila casi?
Soprattutto
dagli Stati Uniti che per gli anni 2003-2004 rappresentavano circa
l’80% del totale di casi. Per il 2009 la percentuale statunitense è
scesa a circa il 25% dei 223 nuovi casi segnalati da tutto il mondo.
Negli ultimi anni (2007-2009), infatti, la media annuale dei casi
segnalati alla Congregazione dal mondo è stata proprio di 250 casi.
Molti paesi segnalano solo uno o due casi. Cresce quindi la diversità
ed il numero dei paesi di provenienza dei casi ma il fenomeno è assai
ridotto. Bisogna ricordare infatti che il numero complessivo di
sacerdoti diocesani e religiosi nel mondo è di 400mila. Questo dato
statistico non corrisponde alla percezione che si crea quando questi
casi così tristi occupano le prime pagine dei giornali.
E dall’Italia?
Finora
il fenomeno non sembra abbia dimensioni drammatiche, anche se ciò che
mi preoccupa è una certa cultura del silenzio che vedo ancora troppo
diffusa nella Penisola. La Conferenza episcopale italiana (Cei) offre
un ottimo servizio di consulenza tecnico-giuridica per i vescovi che
devono trattare questi casi. Noto con grande soddisfazione un impegno
sempre maggiore da parte dei vescovi italiani di fare chiarezza sui
casi segnalati loro.
Lei diceva che i processi veri e
propri riguardano circa il 20% dei circa tremila casi che avete
esaminato negli ultimi nove anni. Sono finiti tutti con la condanna
degli accusati?
Molti dei processi ormai celebrati sono
finiti con una condanna dell’accusato. Ma non sono mancati quelli dove
il sacerdote è stato dichiarato innocente o dove le accuse non sono
state ritenute sufficientemente provate. In tutti i casi comunque si
fa non solo lo studio sulla colpevolezza o meno del chierico accusato,
ma anche il discernimento sull’idoneità dello stesso al ministero
pubblico.
Un’accusa ricorrente fatta alle gerarchie
ecclesiastiche è quella di non denunciare anche alle autorità civili i
reati di pedofilia di cui vengono a conoscenza.
In alcuni
Paesi di cultura giuridica anglosassone, ma anche in Francia, i
vescovi, se vengono a conoscenza di reati commessi dai propri sacerdoti
al di fuori del sigillo sacramentale della confessione, sono obbligati
a denunciarli all’autorità giudiziaria. Si tratta di un dovere gravoso
perché questi vescovi sono costretti a compiere un gesto paragonabile a
quello compiuto da un genitore che denuncia un proprio figlio.
Ciononostante, la nostra indicazione in questi casi è di rispettare la
legge.
E nei casi in cui i vescovi non hanno questo obbligo per legge?
In
questi casi noi non imponiamo ai vescovi di denunciare i propri
sacerdoti, ma li incoraggiamo a rivolgersi alle vittime per invitarle a
denunciare quei sacerdoti di cui sono state vittime. Inoltre li
invitiamo a dare tutta l’assistenza spirituale, ma non solo spirituale,
a queste vittime. In un recente caso riguardante un sacerdote
condannato da un tribunale civile italiano, è stata proprio questa
Congregazione a suggerire ai denunciatori, che si erano rivolti a noi
per un processo canonico, di adire anche alle autorità civili
nell’interesse delle vittime e per evitare altri reati.
Un’ultima domanda: è prevista la prescrizione per i delicta graviora?
Lei
tocca un punto – a mio avviso – dolente. In passato, cioè prima del
1898, quello della prescrizione dell’azione penale era un istituto
estraneo al diritto canonico. E per i delitti più gravi solo con il
motu proprio del 2001 è stata introdotta una prescrizione di dieci
anni. In base a queste norme nei casi di abuso sessuale il decennio
incomincia a decorrere dal giorno in cui il minore compie i diciotto
anni.
È sufficiente?
La prassi indica che il
termine di dieci anni non è adeguato a questo tipo di casi e sarebbe
auspicabile un ritorno al sistema precedente dell’imprescrittibilità
dei delicta graviora. Il 7 novembre 2002, comunque, il Servo
di Dio Venerabile Giovanni Paolo II ha concesso a questo dicastero la
facoltà di derogare dalla prescrizione caso per caso su motivata
domanda dei singoli vescovi. E la deroga viene normalmente concessa.