Umiltà contro amor proprio
Il miglior antidoto contro il morso dell’amor proprio, è l’umiltà. Perciò, cerchiamo di vedere in cosa consista esattamente questa virtù.
Innanzitutto, per renderci atti ad acquistare la vera umiltà di cuore e non di parole soltanto, occorre cercare di non prestare attenzione ai difetti del prossimo, di non giudicarlo spietatamente e di usare misericordia verso di lui.
L’umiltà è la radice di tutte le altre virtù, proprio come l’orgoglio lo è di tutti i vizi.
Un esempio calzante c’è dato dalla vita di sant’Antonio abate del deserto, il quale narra di aver visto per dono di Dio «tutte le reti del demonio dispiegate in terra, e, gemendo disse: “Chi riuscirà, o Signore, a passare indenne oltre queste trappole diaboliche?” e la voce di Dio gli rispose: “L’umiltà!”» (Isaia di Scete, Asceticon, III, 3).
L’umiltà secondo la teologia scolastica
Nella prima parte di quest’articolo abbiamo studiato l’amor proprio e l’umiltà soprattutto (ma non esclusivamente) alla luce dell’insegnamento della teologia patristica.
Nel presente vediamo come la scolastica abbia ripreso e sublimato l’insegnamento dei Padri ecclesiastici.
San Tommaso d’Aquino, il “Dottore Ufficiale” della Chiesa, insegna che l’umiltà è il fondamento della vita spirituale cristiana, proprio perché elimina l’orgoglio che è la radice e il principio di ogni peccato, in quanto ci allontana da Dio.
Ora, l’Angelico (S. Th., II-II, q. 161) spiega che se l’umiltà deve reprimere l’amor proprio in tutte le sue forme (specialmente quelle più sottili e perniciose: orgoglio intellettuale e spirituale); tuttavia, l’atto proprio e principale dell’umiltà non è negativo (ossia la repressione dei moti d’orgoglio), ma esso ha un duplice oggetto: umiltà positiva nei confronti di Dio e del prossimo (come la carità)
I - Umiltà verso Dio
Occorre che la creatura si abbassi sino alla terra (umiltà deriva dal latino humus ossia terra) dinanzi a Dio che l’ha creata dal nulla e ha formato il corpo del primo uomo col fango della terra.
Quest’attitudine di abbassarsi davanti a Dio significa riconoscere, non solo in teoria ma anche e soprattutto in pratica, la nostra inferiorità e piccolezza di fronte al Creatore; inoltre, dopo il peccato originale e i nostri peccati attuali dobbiamo riconoscere anche la nostra miseria o abiezione.
Come si vede l’umiltà vera non è affettazione o ipocrisia, ma è fondata sulla verità e specialmente su questa: tra il Creatore e la creatura vi è una distanza infinita.
Questa verità naturale si basa su un duplice fondamento dogmatico o divinamente rivelato: 1°) l’arcano della creazione ex nihilo, che persino i più grandi filosofi dell’antichità (Platone e Aristotele) non arrivarono a conoscere esplicitamente, anche se esso potrebbe essere conosciuto dalla ragione naturale; 2°) il mistero soprannaturale (che sorpassa assolutamente le forze della ragione naturale) della necessità della grazia santificante e di quella attuale per salvarci l’anima e per compiere anche il minimo atto salutare.
Dalla prima verità naturale e dal duplice fondamento dogmatico di essa, ne derivano quattro conseguenze, che ci aiutano a mantenerci – almeno teoricamente – nell’umiltà riguardo a Dio e a quanto di divino c’è nelle creature.
Prima conseguenza: riguardo a Dio creatore, tutte le creature razionali devono riconoscere - non solo in teoria ma anche in pratica - che per noi stessi siamo un nulla, creati dal nulla e che se Dio non ci mantenesse nell’esistenza, ricadremmo nel nulla. Perciò, senza Dio creatore saremmo un niente assoluto.
Seconda conseguenza: Dio è non solo creatore ma anche ordinatore, ossia provvidenza che dirige tutte le creature al loro fine. Perciò, senza di Lui non avremmo alcuno scopo di vita e, inoltre, pur riconoscendolo in teoria come provvido, se in pratica non ci lasciassimo condurre per mano da lui passo dopo passo, sino al nostro traguardo non vi giungeremmo mai. Di qui deriva la nostra dipendenza totale da Lui.
Terza conseguenza: nell’ordine soprannaturale, non possiamo fare neppure un passo senza il soccorso della grazia attuale. Questa verità è rivelata divinamente in san Paolo: “Nessuno può dire: Gesù è il Signore, se non per mezzo dello Spirito Santo” (1 Cor., XII, 3).
Quarta conseguenza: dopo il peccato di Adamo e i nostri peccati dobbiamo riconoscere - non solo in teoria ma anche in pratica - non soltanto la nostra indigenza e il nostro niente ma anche la nostra malizia e miseria. La nostra volontà egoista, incostante e superba; il nostro carattere volubile; le contraddizioni del nostro spirito; la concupiscenza e l’avarizia che albergano in noi. Tutti questi disordini sono inferiori al nulla, sono come i numeri relativi rispetto allo zero.
La vera umiltà non è pusillanimità
L’abbassamento dell’umiltà è assai diverso dalla pusillanimità, che nasce dal rispetto umano e che rifiuta la fatica necessaria per giungere al proprio fine e dare gloria a Dio.
La vera umiltà non è contraria alla magnanimità o grandezza d’animo ma è unita a essa. Infatti, bisogna tendere a grandi cose ma con umiltà.
Il pusillanime si rifiuta di fare quello che potrebbe fare; invece, l’umiltà fa abbassare la fronte dell’uomo davanti all’infinita maestà divina, affinché possa essere al suo vero posto di creatura finita difronte al creatore infinito, di modo che il Signore possa agire liberamente nel nostro intimo e unirci sempre di più a Lui. Perciò, l’umile non si scoraggia, ma si pone tranquillamente nelle mani di Dio e fa in modo che Dio si serva di lui come un pittore di un pennello per produrre un quadro.
La pusillanimità, infatti, è il difetto di coloro che per eccesso di sfiducia in se medesimi o per una falsa umiltà, oppure per eccessivo timore di cattiva riuscita, non fanno fruttificare i talenti che Dio ha loro dato, nicchiano e rimangono inoperosi. Essa s’oppone alla magnanimità, che inclina a intraprendere grandi opere in ogni genere di virtù.
II - L’umiltà verso il prossimo
San Tommaso d’Aquino scrive che “ciascuno deve riconoscere che in quello che ha di suo, è inferiore a quello che ogni altro uomo ha da Dio” (S. Th., II-II, q. 161, a. 3). Infatti, ogni uomo è un nulla, creato dal nulla e mantenuto nell’essere. Di suo ha soltanto la deficienza, le lacune, i limiti e l’indigenza. Perciò, in maniera non solo speculativa ma anche pratica, deve riconoscere che tutto ciò che proviene da se stesso è inferiore a tutto ciò che ogni altro ha e riceve da Dio, sia nell’ordine naturale sia in quello soprannaturale.
Sant’Agostino nelle Confessioni (l. II, cap. 8) scriveva: “Non est peccatum quod fecit homo, quod non possit facere alter homo, ubi desit gratia Dei a quo factus est homo / non esiste peccato che abbia commesso un uomo, che non possa fare ogni altro uomo, se gli manca la grazia di Dio che ha creato l’uomo”. In realtà è proprio così, non è retorica; infatti, io posso fare lo stesso peccato di Giuda se mi abbandona la grazia di Dio che mi ha creato dal nulla.
San Tommaso d’Aquino spiega: “La causa del bene che noi operiamo, è l’amore di Dio verso di noi. Esso non è la conseguenza della nostra bontà. Perciò, nessuno sarebbe migliore di un altro se non fosse amato maggiormente da Dio, che tuttavia ama sufficientemente ogni uomo” (S. Th., I, q. 20, a. 3). Insomma, la Bontà di Dio causa il bene che è in noi e Dio amandoci ci rende buoni. Perciò è assolutamente falso ritenere che poiché noi siamo buoni, allora Dio ci ama.
Questo è il principio di predilezione, come viene spiegato dall’Angelico, che si fonda sulla divina Rivelazione: “Che cosa hai tu che non abbia ricevuto da Dio? Allora, se lo hai ricevuto, perché te ne glorifichi come se fosse tuo?” (1 Cor., IV, 7).
Questo è il vero fondamento dell’umiltà soprannaturale. Ogni orgoglio dovrebbe cadere a pezzi difronte a quanto rivelato in san Paolo e spiegato teologicamente dall’Aquinate.
Ecco perché la vera umiltà verso il prossimo, specialmente quella soprannaturale, così ben spiegata da san Paolo e definita nei minimi dettagli da san Tommaso, è immensamente diversa dalla pusillanimità e dal rispetto umano, ossia dal timore del giudizio dei mondani (timor mundanus), cioè la paura del giudizio negativo e della conseguente collera o persecuzione da parte dei mondani nei nostri confronti che riesce ad allontanarci da Dio.
La pusillanimità, dal canto suo, rifugge il lavoro necessario, fugge le imprese grandi che possiamo e dobbiamo compiere e inclina alle cose mediocri o basse.
Invece, la vera umiltà, di cuore e non di bocca, non fugge le imprese grandi e difficili; certamente ci fa inchinare davanti a Dio, ma non davanti alla prepotenza dei malvagi. Così, l’umiltà fortifica in noi la magnanimità, facendoci tendere umilmente a cose grandi, come Maria Santissima: “Quia respexit humilitatem ancillae suae, fecit mihi magna Qui potens est” (Lc., I, 46 ss.). Il medesimo Gesù ha detto: “Il Figlio dell’uomo è venuto, non per essere servito, ma per servire e offrire la sua vita per la Redenzione di molti” (Mt., XX, 28). In effetti, la Redenzione è l’Opus majus, ma il Verbo divino l’ha realizzato con l’annichilazione dell’Incarnazione, con la nascita a Betlemme, con la morte sulla Croce: ossia con l’umiltà massima, “concilians in Sé ima summis”.
Che cosa fare in pratica
Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange (Le tre età della vita interiore, Monopoli/Roma, Edizioni Vivere in, 1984, III vol., p. 150) ci dà i seguenti consigli: 1°) non dobbiamo mai lodare noi stessi, “chi si loda s’imbroda”; 2°) non si devono ricercare gli elogi degli altri, sarebbe ridicolo e ci farebbe perdere il merito delle nostre buone azioni; 3°) dobbiamo accettare pazientemente i rimproveri meritati senza imbronciarci; 4°) alcune volte dobbiamo accogliere con pazienza persino un rimprovero immeritato; 5°) infine, sarebbe bene chiedere anche l’amore dei disprezzi, come ci insegna san Giovanni della Croce, il quale rispose a Gesù che gli voleva dare ciò che più desiderasse: “Pati e contemni pro Te Domine”.
Nella prossima puntata vedremo l’esempio pratico, di umiltà vissuta e insegnata, che ci ha lasciato Gesù.
d. Curzio Nitoglia
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