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I novissimi: l’anima umana e l’aldilà (7)
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SETTIMA PARTE
L’inferno

L’eternità delle pene

L’esistenza dell’inferno fu negata - tra i primi - da Arnobio di Sicca (255 – 330), che sosteneva che i dannati erano annichilati da Dio. Quest’errore fu rinnovato nel XVI secolo dai sociniani. Invece, gli origenisti, sempre nel IV secolo, negarono l’eternità delle pene dell’inferno, poiché tutti i riprovati, uomini e demoni, un giorno si sarebbero convertiti. Il cattolicesimo liberale, i modernisti e gli spiritisti ripresero quest’eresia. Secondo costoro l’eternità delle pene ripugna alla saggezza di Dio.

Il Magistero

La Chiesa ha insegnato che l’eternità delle pene (del senso e del danno) infernali è un dogma di fede (Simbolo di sant’Atanasio; IV Conc. Lateranense, DB 429; Conc. di Firenze, DB 693; Benedetto XII, DB 531; Conc. Tridentino, DB 835).

La S. Scrittura

Nell’Antico Testamento, Isaia (LXVI, 15-24) parla di «verme che non morirà» e di «fuoco che non si estinguerà». Tutti i commentatori vedono in questo fuoco e verme la pena eterna dell’inferno. Questo testo è citato da Gesù in persona nel Vangelo di san Marco (IX, 43) e da san Giovanni Battista in quello di san Luca (III, 17).

Il profeta Daniele parla ancora più chiaramente: «Molti che dormono nella polvere si sveglieranno, gli uni per la vita eterna, gli altri per un obbrobrio e un’infamia eterna» (XII, 1-2).

Nel Nuovo Testamento san Giovanni Battista, annunziando il Messia dice: «Viene Colui, che è più potente di me… brucerà la paglia in un fuoco che non si estinguerà mai» (Lc., III, 7, 17). Inoltre Gesù dice agli scribi e farisei: «Colui che avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non otterrà mai perdono: egli è colpevole d’un peccato eterno» (Mc., III, 29). In Marco (IX, 42-48) Gesù parla di «fuoco inestinguibile, là ove il verme non muore mai e il fuoco mai s’estingue». Nel discorso sul giudizio universale (Mt., XXV, 33-46) Gesù si rivolge ai reprobi con questi termini: «Via, lontano da Me, maledetti, andate al fuoco eterno». Nel Vangelo di san Giovanni leggiamo: «Colui, che non vive in Me, è gettato via, come il sarmento staccato dalla vite; si secca, poi si getta nel fuoco e vi brucia».

La Tradizione patristica

I Padri della Chiesa hanno insegnato in maniera unanime la dottrina dell’eternità delle pene dell’inferno ancor prima del III secolo e della controversia contro gli origenisti. Si può leggere l’Enchiridion patristicum di Rouet de Journel, Index theologicus, n. 594.

Dal III secolo sino al V la maggior parte dei Padri (da san Metodio di Olimpo a sant’Agostino) combatterono l’errore origenista sulla non eternità delle pene dell’inferno, asserendo che la conversione finale dei demoni e dei dannati è contraria alla divina Rivelazione.

Nel V secolo la Chiesa condanna l’origenismo al Sinodo di Costantinopoli (anno 553) e papa Vigilio confermò quest’anatema (DB, 211).

La ragione teologica

I peccati non espiati in questa vita sono puniti nell’altra. Il Signore è Giudice sovrano dei vivi e dei morti Dio e deve rendere a ciascuno secondo le sue opere; inoltre come Legislatore deve aggiungere alle sue leggi una sanzione efficace.

San Tommaso d’Aquino ne tratta lungamente (S. Th., I-II, q. 97, aa. 1-7; III, q. 86, a. 4; Suppl., q. 99, a. 1; S. c. Gent., lib. III, c. 144-145; lib. IV, c. 95).

L’Aquinate spiega che colui il quale vìola ingiustamente un ordine lecito deve essere castigato a causa del principio che sta alla base di quest’ordine; ossia la sinderesi. Perciò, siccome, a ogni azione corrisponde una reazione, anche dal punto di vista morale, l’azione malvagia richiede una reazione che la castighi e ripari il male causato. Dunque; colui, che agisce contro la legge divina, merita una pena inflitta da Dio stesso, sia in questa vita sia nell’eternità.

Le anime corrette che sono cadute in qualche disordine sono felici di poter pagare il loro debito alla giustizia divina o al tribunale della confessione o nel purgatorio. In questo modo è evidente l’esistenza delle pene nella vita futura.

Ora resta da vedere perché le pene dell’inferno siano eterne.

Il peccato mortale non seguìto dal pentimento è un disordine irreparabile e ha una gravità senza misura (S. Th., I-II, q. 87, a. 3-4).

Sino a quando il peccatore resta separato da Dio, non essendo pentito del male fatto, merita la pena dovuta alla sua colpa. Ora, se il peccato è mortale e ha dato la morte alla grazia santificante, il disordine che ha provocato è irreparabile, poiché ha una gravità infinità, è di ordine soprannaturale; ossia sorpassa ogni potenza naturale creata, sia umana sia angelica. Perciò, il peccato mortale se non è riparato da Dio in séguito alla contrizione perdura sempre.

Perciò, se il peccatore resiste anche nel momento estremo della sua esistenza terrena e muore nell’impenitenza finale, allora la pena dovuta alla colpa durerà per sempre.

I teologi distinguono nel peccato 1°) l’amore disordinato del bene creato (conversio ad creaturam) preferito a Dio infinito (aversio a Deo); quest’amore disordinato della creatura è punito con la pena del senso; mentre 2°) l’aversio a Deo è punita con la pena del danno o privazione della visione di Dio

Se le pene dell’inferno non fossero eterne, il peccatore ostinato potrebbe - un giorno - perseverare nella rivolta contro Dio, senza che alcuna sanzione venisse a reprimere il suo orgoglio.

Ciò equivarrebbe a negare il principio di non contraddizione e la sinderesi, poiché sin dal giorno della cessazione della pena, il bene sarebbe come il male e il male come il bene.

San Tommaso confutando gli origenisti (S. Th., Suppl., q. 99, a. 2) scrive che la misericordia divina è infinita ma è regolata dalla saggezza; perciò la sua misericordia non s’estende a quanti se ne sono resi indegni, ossia, ai diavoli e ai dannati. Tuttavia, anche a loro riguardo Iddio esercita in un certo modo la sua misericordia, poiché “citra condignum puniuntur / son puniti meno di quanto abbiano meritato”.

Il dannato non chiede mai perdono, è ostinato nella sua rivolta orgogliosa contro Dio e non vuol assolutamente saper nulla di umiltà e pentimento.

Così il peccatore, che ha l’anima macchiata non solo dall’atto del peccato mortale ma anche dallo stato di peccato mortale in cui vive abitualmente, perdura sempre nel disordine e nella disobbedienza alla legge divina.

Insomma, “la pena eterna corrisponde all’anima macchiata dal peccato mortale non cancellato dal pentimento o contrizione, peccato che perdura sempre come stato o disordine abituale; perciò, la pena che le è dovuta, dura sempre anch’essa” (S. Th., Suppl., q. 99, a. 2, ad 5).

Nella prossima puntata vedremo la pena del senso e del danno.

d. Curzio Nitoglia


 
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