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La merce rara dell'ottimismo sul mercato dopo la crisi
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Crisi, regna l'incertezza

Ha cambiato molto la crisi economica? Mi ponevo questa domanda la settimana scorsa, andando a Davos per il meeting annuale del World Economic Forum. La risposta è: sì. Soprattutto, ha anticipato l'arrivo del futuro. Anche per chi ne esce vincitore, è un bello shock.

Sono trascorsi tre anni e mezzo dall'inizio della crisi e poco più di due anni da quando ha toccato il culmine. Bob Diamond, amministratore delegato della Barclays, ha espresso la gratitudine del settore finanziario verso i governi che sono andati in suo soccorso. Ora il clima è di cauto ottimismo. Secondo le ultime proiezioni del Fondo monetario internazionale, la produzione globale nel 2010 è cresciuta del 5%, a parità di potere d'acquisto, e del 3,9%, ai tassi di cambio di mercato. Questi dati contrastano con il calo, rispettivamente dello 0,6% e del 2,1%, registrato nel 2009. Per l'Fmi nel 2011 la crescita dovrebbe subire solo un lieve rallentamento, attestandosi al 4,4% a parità di potere d'acquisto e al 3,5% ai tassi di cambio di mercato. L'ottimismo regna sovrano.

Quando la crisi sarà un ricordo, come valuteranno il suo lascito gli storici? I giornalisti non possono permettersi il lusso della distanza. Quindi provo a indovinare. Inizierò con le possibili inversioni di tendenza.
La crisi non è stata né l'inizio di una depressione mondiale né la fine del capitalismo. Ma ha portato a un aumento della regolamentazione finanziaria, e in particolar modo bancaria, benché sempre nel quadro intellettuale e istituzionale preesistente. Dopo tre decenni di deregulation, la tendenza è nella direzione opposta, anche se non mancano delle resistenze.
La crisi ha segnato un'inversione di tendenza anche rispetto all'indebitamento del settore privato nei paesi ad alto reddito. Negli Stati Uniti il rapporto tra debito privato lordo e prodotto interno lordo è salito dal 123% nel 1981 al 293% nel 2009. Nel terzo trimestre dell'anno scorso il rapporto è sceso al 263 per cento.

Il settore finanziario ha fatto da apripista in entrambe le direzioni: il suo debito lordo è salito dal 22% del Pil nel 1981 al 119% nel 2008. Per scendere al 98% nel terzo quadrimestre del 2010. La riduzione della leva finanziaria probabilmente continuerà. Anche se così non fosse, un altro periodo di aumento altrettanto forte sembra inconcepibile.

Nel breve periodo, quanto meno, la crisi ha anche segnato un'inversione di direzione negli "squilibri globali". L'Fmi prevede una parziale marcia indietro, benché la scala degli squilibri non dovrebbe più raggiungere i livelli precedenti alla crisi. Una caratteristica saliente di tali squilibri - l'accumulo di riserve di valuta estera, soprattutto da parte della Cina - non è cambiata: tra il febbraio 2009 e l'ottobre 2010 le riserve di valuta estera sono salite di 2004 miliardi di dollari, e solo quelle cinesi ammontavano a 849 miliardi di dollari. È un fattore pericoloso.
Inoltre la crisi ha rivelato la vulnerabilità dell'eurozona all'eccessivo accumulo dell'indebitamento nel settore privato e pubblico, determinato dal massiccio afflusso delle eccedenze di risparmio in cattivi investimenti attraverso istituzioni finanziarie sottocapitalizzate. Sarà molto difficile controllare il deleveraging, soprattutto in assenza di un tasso di cambio interno flessibile.

Ora esaminiamo quegli aspetti in cui la crisi ha agito più marcatamente da acceleratore.
Il cambiamento più evidente è nel bilancio. Ogni persona ben informata sa che la maturità genera una contrazione del bilancio dei paesi ricchi per l'aumentare della spesa e il rallentamento della crescita. La crisi ha anticipato questo fenomeno di un decennio. Secondo l'Fmi, il debito netto delle pubbliche amministrazioni nei paesi del G7 balzerà dal 52% del Pil nel 2007 al 90% nel 2015. Questo non significa iperinflazione o default. Ma il controllo delle finanze pubbliche sarà al centro della politica dei governi nel futuro prevedibile. Sarà un futuro doloroso.
Altrettanto importante è l'accelerato cambiamento nell'equilibrio globale del potere economico. Se assegniamo un valore di 100 al Pil del 2005, vediamo che nel 2010 negli USA è stato di 105, nell'eurozona di 104, in Giappone e in Gran Bretagna di 102. Ma in Brasile si è attestato a 125, in India a 147 e in Cina a 169. «Crisi? Quale crisi?» risponderebbero probabilmente la Cina e l'India.

Secondo l'Fmi, nel 2000 il contributo dei paesi a economia avanzata al Pil globale a parità di potere d'acquisto era del 63%. Nel 2007, alla vigilia della crisi, del 56%. L'anno scorso è stato del 53% e nel 2013 scenderà sotto il 50%. La Cina e l'India determinano l'80% del crescente contributo dei paesi emergenti alla produzione mondiale prevista tra il 2000 e il 2013, con la Cina da sola che contribuisce per il 63%. La crescita di questi giganti si è accompagnata allo sfruttamento delle risorse naturali. Anche questo può solo crescere.
Quello che la crisi ha accelerato ancora di più è il cambiamento di atteggiamento verso l'Occidente e soprattutto gli Usa.
Come ha osservato Kishore Mahbubani, decano della Lee Kuan Yew School of Public Policy della National University di Singapore, gli asiatici non rispettano più la competenza occidentale, la cui immagine è stata affossata dalle disavventure militari e dal dissesto finanziario. Questo cambiamento di atteggiamento ha portato un cambiamento nelle responsabilità. Il passaggio dal G7 al G8 e al G20, al culmine della crisi, è stato il simbolo di questa trasformazione. Sarebbe avvenuta comunque. Ma è avvenuta molto prima, come conseguenza diretta della crisi.

Quello che mi ha colpito ancora di più a Davos è l'incertezza che la crisi ha rivelato e causato al tempo stesso. Anche se il clima è più ottimista, è pieno di dubbi. Ho discusso a lungo in privato se gli Usa riusciranno a evitare il destino del Giappone. Molti la considerano una prospettiva inconcepibile. Eppure a suo tempo, diciamo nel 1993, pochi si sarebbero aspettati il lungo malessere del Giappone. Come possa verificarsi la riduzione della leva finanziaria nel settore privato, senza incidenti, non è chiaro. La possibilità di una nuova fase di debolezza economica è grande. Così come quella di uno shock finanziario, magari in risposta alle preoccupazioni per il bilancio. Ancora una volta, oggi l'umore nell'eurozone è più ottimista. Ma come questa zona debba uscire dalle difficoltà resta oscuro. I governanti europei hanno fissato il loro imperativo: la sopravvivenza dell'eurozona. Come troveranno i mezzi per raggiungerlo è ancora ignoto.

La crisi, catapultandoci nel futuro, ci ha anche gettato in preda a grosse incertezze. Alcune delle discussioni più interessanti che ho avuto riguardavano il quesito se la Cina abbia o meno progetti chiari in merito ai sistemi economici e politici globali. Uno studioso cinese con molte conoscenze mi ha assicurato che la risposta è no. Ma, sempre che la Cina riesca a mantenere la sua rapida crescita, questo colosso dovrà presto sviluppare le proprie idee. Si è guadagnata la grandezza. Ora, dopo la crisi, non ha tanta voglia di accollarsi delle responsabilità.
Finora la crisi non si è dimostrata un grande punto di svolta. Ma ciò non significa che sia poco importante. Ha portato alcune trasformazioni, una grande accelerazione delle tendenze già in corso e, soprattutto, una grande incertezza. L'incertezza c'era già prima. Ma ora ne siamo consapevoli.

Martin Wolf

(Traduzione di Elisa Comito)

Fonte >
  Sole 24 Ore


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