Notizie primitive
10 Marzo 2009
Nel sito archeologico di Herxheim, in Renania-Palatinato - dà dove sorge la romanica cattedrale di Spira - fin dagli anni ‘90 si è trovato un enorme ossame di resti umani risalente al 5000 avanti Cristo. Ma solo da poco il professor Bruno Boulestin, del laboratorio di paleo-antropologia dell’università di Bruxelles-1, esaminando meglio quelle ossa, ha trovato che appartenevano ad individui che sono stati macellati
(1).
Segni d’incisioni, raschiature e frantumazioni con coltelli e oggetti di pietra suggeriscono che i corpi sono stati abilmente smembrati, i tendini e legamenti tranciati; le vertebre sono state segate per staccarne le costole (stavo per dire le costine) come si fa nei macelli per smembrare la bestia in quarti, le masse muscolari strappate via con qualche tipo di raschiatoio, i crani segati per estrarne il cervello, le ossa rotte sapientemente per raggiungerne il midollo. Fatto significativo, sono poche nel sito le ossa spugnose e ricche di midollo, come vertebre ed ossa corte; segno probabile che sono state prelevate, come particolarmente appetitose.
«
Non abbiamo una prova diretta di cannibalismo, è impossibile fornirla», dice il direttore del sito, Andrea Zeeb Lanz, «
Ma abbiamo la prova di atti sistematici e ripetuti», quasi da macelleria industriale, su almeno un migliaio di cadaveri, «
che fanno pensare a un consumo alimentare».
Gli antichi abitanti di Herxheim, che appartenevano alla cultura dei vasi a nastro (5400-4950 avanti Cristo), non erano dei cannibali per fame. Avevano superato lo stadio dei cacciatori-raccoglitori, del paleolitico. Attorno al loro villaggio (meno di una decina di capanne, di cui restano sul terreno i buchi in cui erano infitti i pali di sostegno) coltivavano orzo e grano, allevavano maiali, ovini e qualche bovino. Venuti probabilmente da correnti migratorie danubiane, avevano una forma di culto dei morti, che seppellivano o cremavano.
Ma i corpi smembrati erano dentro due file di fossati che circondavano il villaggio neolitico; fossati che non potevano avere scopo difensivo perchè erano discontinui. Al momento della scoperta, 10 anni fa, si pensò a un massacro bellico. Oggi, esaminati al microscopio i fini segni di raschiatura e le tracce di smembramento sistematico, se deve pensare appunto ad una macelleria.
Uno dei crani segati per mangiarne il cervello
Bruno Boulestin ha contato fra 400-500 individui, in uno solo dei fossati; gli altri, soltanto sondati, hanno rivelato simili giacimenti di ossami. Sono stati sacrificati e fatti a pezzi almeno mille esseri umani. Il che pone un enigma.
Indizi di cannibalismo preistorico sono stati già trovati, in Francia e in Spagna per lo più; ma mai prima su così larga scala. Tutto fa pensare ad un evento eccezionale, tanto più che dai resti di vasellame si pensa di poter datare l’evento in un tempo molto breve, meno di cinquant’anni; forse addirittura il pasto colossale è stato consumato in una sola «festa».
Si tende ad escludere il cannibalismo alimentare, estremo rimedio in caso di carestia: come avrebbero potuto un centinaio di contadini primitivi e affamati sopraffare un migliaio di vittime?
La disposizione curata di certi teschi, il fatto che vi fossero stati spaccati in mezzo vasi di valore, e offerte di collane di conchiglie e mandibole e zampe di cane, fa pensare ad un rito. Cannibalismo di guerra?
Anche in epoca storica sono documentati casi di cannibalismo magico, per appropriarsi della forza del nemico ucciso. Ma ancora una volta, bisogna immaginare un centinaio di contadini che intraprendono spedizioni in aree lontane dalle loro capanne (all’epoca, non c’era alcun altro abitato nelle vicinanze), e vi trascinano mille prigionieri; con il loro vasellame per giunta. Che pare originario di zone distanti, come il Belgio e la Boemia.
Si fa strada dunque un’altra ipotesi, altamente ipotetica. La cultura dei vasi a nastro conobbe proprio all’epoca del macello una crisi profonda, che ne segnò la fine. Quale crisi?
Non si sa. Ma è possibile che popolazioni della stessa cultura si siano radunate, venendo da lontano ciascuna con la sua quota di prigionieri da sacrificare, per un banchetto o orgia di sangue, forse proprio allo scopo di scongiurare la fine del «loro» mondo. Effettivamente ci sono segni di stermini di massa - ma senza cannibalismo e senza l’aspetto rituale del sito renano - databili alla stessa epoca, in Germania e in Austria.
Anche Roma, che aborriva i sacrifici umani e li vietava dovunque dominasse, vi ricorse occasionalmente, in momenti di angoscia e di estremo pericolo per la città, onde scongiurare la fine del suo mondo.
Una volta nel 228 avanti Cristo, quando l’Italia era minacciata dall’invasione degli insubri ingrossati da altre tribù galliche - dice Plutarco - furono seppelliti vivi nel Foro Boario due coppie, una di galli ed una di greci. Il secondo sacrificio umano fu ripetuto nel 216, dopo la disfatta di Canne, quando Roma si vide senza difesa di fronte ad Annibale. E ancora una volta, le vittime furono una coppia di galli, e una di greci.
Cosa c’entrassero i poveri greci non si sa. Si sa però che il 17 marzo a Roma avveniva una arcaica cerimonia, dove dei pupazzi con le mani e piedi legati venivano dalle vestali gettati nel Tevere dal ponte Sublicio. Questi pupazzi erano chiamati «Argei», ossia «argivi», greci.
Era una cerimonia antichissima, come dimostra la processione che la iniziava, che toccava quattro cappelle delle quattri circoscrizioni fissate dal mitico re Servio Tullio (anche queste cappelle erano dette «Argeorum»), e vi partecipavano tutte le più alte cariche dello Stato, laiche e sacerdotali. La Flaminica Dialis (la moglie del Flamen di Giove) vi partecipava vestita a lutto. Evidentemente, il resto di un rituale arcaico del cui motivo s’era perso il ricordo, dove i pupazzi legati dovevano stare al posto di prigionieri vivi. Si sacrificavano come capri espiatori, a scopo di purificazione della comunità, degli «argivi» in quanto nemici del troiano Enea, il fondatore della stirpe?
Capelli umani nelle feci di iena fossile
Li hanno trovati in Sudafrica, in una caverna a Gladysvale. E apparterrebbero ad esseri umani vissuti tra 195 e 257 mila anni fa
(2). Allora come oggi, le iene facevano i loro bisogni in «latrine» ben demarcate, usate da un solo individuo, di una ventina di centimetri di diametro. Le antichissime feci calcificate e fossilizzate (coproliti), interessano molto i paleontologi, perchè consentono di ricavare indizi sugli usi alimentari di animali estinti.
Stavolta gli scienziati dell’università sudafricana di Witwatersrand hanno estratto da un singolo coprolite una quarantina di peli che, al microscopio, si sono rivelati capelli umani, con la tipica struttura scalare della cuticola. Che siano umani non c’è dubbio. Forse non tutti sanno che i capelli sono esclusivamente umani - anche i primati non hanno nulla di simile - e si distinguono anche dagli altri peli corporei dell’uomo, siano essi del pube, delle ascelle e della stessa barba (ciascuno di questi, del resto, ha caratteri ben differenziati).
L’evoluzione degli evoluzionisti non s’è accontentata di metterci sul capo un qualunque vello di protezione, ma ha scelto una struttura apposita, raffinatissima, persino con un valore estetico (lucentezza, sofficità, lunghezza); difficile sostenere che sia un «adattamento» dovuto alla modificazione casuale di altri pelami. Anche se lo si sostiene.
In questo caso, i capelli devono essere appartenuti all’Homo Heidelbergensis: un nome sotto cui i paleontologi - in mancanza di meglio - hanno radunato crani di origine ed aspetto molto disparato, trovati qua e là nel mondo, vagamente unificati dalla compresenza di caratteri presunti «primitivi» e «moderni», e presuntivamente antecedenti all’Homo Sapiens Sapiens; nella letteratura sono spesso definiti «ominidi». Anche se l’Heidelbergensis-tipo ha statura oltre il metro e 70, e cervello fino a 1.600 centimetri cubici, pari o superiore all’uomo moderno. Del resto, i capelli sudafricani potrebbero appartenere anche al Sapiens, perchè l’epoca è quella che vede la comparsa del tipo umano contemporaneo.
Un nostro antenato - forse più d’uno - che ha avuto un brutto incontro con una grossa iena primigenia, oppure la iena s’è cibata di un cadavere. Scoperta interessante, perchè i più antichi capelli umani studiati provengono da una mummia del Chincohorro, in Cile, deserto di Arica: ed hanno «solo» 9 mila anni.
Tipi diversi di Heidelbergensis. Qualunque Homo non moderno è classificato come «heidelbergensis»
Purtroppo, nei capelli di 200 mila anni orsono non si sono rilevate proteine, dunque ogni ricostruzione del DNA è impossibile. Il processo digestivo dell’antica iena ha inoltre tolto la pigmentazione originale di quei capelli e anche ogni possibilità di capire se erano ricciuti o lisci. Questo sarebbe stato l’indizio più rivelatore. Quegli uomini di 200 mila anni fa avevano capelli crespi da negroidi, ondulati (indo-europei) o lisci (asiatici)? La sezione dei capelli rinvenuti, come appare al microscopio, potrebbe dare qualche indicazione. Aspettiamo con ansia il responso di un esperto: tricologo, fabbricante di parrucche, o anche barbiere.
Dove e quando è stato addomesticato il cavallo, decisiva conquista per la civiltà, con cui l’Homo Sapiens si è dato a disposizione un mezzo di trasporto forte e veloce, adatto a lunghe trasmigrazioni? Nell’attuale Kazakhstan nel quarto millennio avanti Cristo, risponde su Science l’equipe degli archeo-zoologi dell’Università di Exeter (Gran Bretagna) guidata da Alan Outram
(3).
I ricercatori hanno analizzato gli ossami di cavallo della cosiddetta «cultura di Botai» nelle steppe kazake: una cultura che presenta caratteri radicalmente innovativi, con vasti insediamenti umani e massicci depositi di ossami animali, che al 70-90% (secondo i siti) sono ossa equine. Quelle però potevano testimoniare che gli antichi kazachi semplicemente seguivano o curavano vaste mandrie di cavalli semi-selvaggi, di cui abbattevano gli esemplari per uso alimentare, un po’ come i pellerossa facevano con i bisonti.
Invece adesso, un accurato studio delle mascelle equine ritrovate ha rivelato che parecchi esemplari mostrano una usura dei pre-molari, tipica dell’uso di un morso. Le proporzioni del metacarpo sono parimenti indicative: il metacarpo dei cavalli domestici è modificato rispetto a quello dei cavalli selvaggi.
Rimane il dubbio se i kazachi di 5-6 mila anni fa avessero inventato anche l’equitazione - ossia se montassero i loro cavalli, o li attaccassero a un carro (che sembra essere l’uso più antico dell’animale come mezzo di locomozione, attestato nei poemi omerici e nelle immagini egizie).
Certo è che erano già in grado di utilizzare l’animale per tutte le sue qualità: come besta da soma, come oltre che per la sua carne e il suo latte. Frammenti di ceramica di Botai hanno rivelato infatti residui organici specifici, caratteristici acidi grassi del latte di giumenta. E non latte fresco, ma trasformato: acido come yogurt? Alcolico? I kazaki contemporanei bevono il «koumis», latte fermentato di cavalla; la bevanda nazionale dei mongoli, lo Arkhi, è un liquore (o piuttosto un vino: 10% di alcol) ottenuto provocando la fermentazione alcolica del latte di giumenta. Chi l’ha assaggiato lo definisce «di sapore caseoso». Il residuo di questa lavorazione, pressato in sacchi di tela o pelle, diventa l’Aruul; una specie di puteolente ricotta di cavallo che, una volta seccata, e spesso indurita come legno, ha durata indefinita, e viene usata tradizionalmente come cibo da viaggio; insieme al Borts, carne (di cavallo, avete indovinato) seccata a strisce al sole e magari poi macinata in polvere. Il cibo delle orde di Attila - che tenevano le strisce di carne sotto le selle, perchè si cuocesse col sudore equino - sostituto del limone nella «tartare à la Attila» - e, ovviamente, dell’orda di Gengis Kahn.
Lo studio britannico sta già suscitando polemiche nell’ambiente archeo-zoologico, perchè altre ricerche e teorie pongono il domesticamento del cavallo, nello stesso periodo, in Ucraina. Il che starebbe a indicare che la cultura del cavallo si è spostata da ovest ad est, quindi dai caucasici ai mongoli, e non il contrario: argomento di fiere contestazioni a sfondo nazionalistico-razziale.
Del resto, i cavalli attuali mostrano (oltre che una notevole variabililità somatica) una grande diversità genetica: discendono da antiche madri molto diverse, dunque possono essere gli esiti genetici di addomesticamenti avvenuti indipendentemente in varie zone delle steppe asiatico-sarmatiche.
Si cerca di stabilire a quale gruppo umano vada il primato, anche esaminando negli uomini adulti la presenza di lattasi, l’enzima che consente di digerire il latte non fermentato. Stranamente, in vaste zone dell’Asia questo enzima umano è assente, mentre lo possiede la maggioranza della popolazione del Nord-Europa (nell’Europa meridionale è presente solo nella metà della popolazione). Ma la lattasi può indicare semplicemente un’antica abitudine nordica al latte di vacca. E i mongoli e kazaki, come s’è visto, hanno trovato modi creativi per rendere digeribile il latte di cavalla (la prima «mucca» dell’umanità?).
«
Tutto è natura: se Dio esiste, anche lui va pensato come natura, ne è certamente una forma particolare, la più alta, ma comunque natura». E’ una sentenza del teologo alla moda Vito Mancuso (Repubblica, 28 febbraio). L’ho letta con scoraggiato sgomento. Costui fraintende completamente quello che dovrebbe essere l’oggetto della sua ricerca. Dio «non» è natura per definizione, perchè è intelligenza (Logos) e amore, ed assoluta trascendenza - l’«abyssus multa» Lo separa dalla natura.
Una «teologia» che faccia di Dio «una forma particolare della natura» non fonda alcuna religione, ma solo una zoologia - che è esattamente quella che i Mancuso propugnano. Una zoologia, ovviamente, evoluzionistica.
«
La natura è qualcosa che comunque avviene» - continua infatti il Mancuso - «
quindi contiene inevitabilmente, soprattutto nel suo stadio elementare, la possibilità dell’errore».
Cerchiamo di interpretare: Dio sarebbe un animale, solo più grosso e più potente. E’ «qualcosa che avviene». Ha avuto «uno stadio elementare» in cui poteva fare errori (come la natura elementare, secondo i darwinisti, avanza per errori casuali).
Come livello intellettuale, è quello di certa ideologia New Age, che considera lo spirito «una forma di energia», magari rilevabile da appositi strumenti (il famso apparecchio Kirlian). Inutile anche provare a chiedere in che cosa una qualunque realizzazione dell’intelligenza umana (scialba, ma presente forma dello spirito nell’aldiquà) sia «energia».
E’«energia» la Divina Commedia? O la Decollazione del Battista di Bach? Il sacrificio di padre Kolbe è «una forma di energia»? E’ energia, la distinzione tra la verità o l’errore?
Già l’intelligenza umana esula dalla «natura», e la sete di Dio è sete di non-natura, di persone - solo gli umani hanno questa sete - a cui «non basta l’aldiquà». La pseudo-teologia mancusiana deve molto, temo, alla «spiritualità» del film «Guerre Stellari»: «Che la Forza sia con voi». E si capisce che una teologia che proclami «in principio fu la Forza», pone la forza come ultima istanza, sotto cui l’uomo va soggiogato senza possibilità di liberazione. Occorrono iniezioni urgenti di buddhismo, a Mancuso.
Ognuno può dire ciò che vuole. Mi domando però perchè Mancuso sia autorizzato, lui che crede che Dio sia natura, a definirsi teologo cattolico. La Chiesa dovrebbe depositare il marchio, e toglierlo a chi lo contraffà. Come può accadere che i produttori di Champagne si sappiano difendere meglio della religione?
Mi chiederete come mai metto questa fra le informazioni preistoriche. Mi pare ovvio: il ventunesimo secolo ha prodotto il primo, vero ominide, quale mai non c’è stato nel passato più remoto e primordiale. Inferiore persino ai cannibali neolotici, che facevano quel che facevano non per nutrirsi, ma a scopo rituale. E ominide teologo, per giunta.
1) Nicolas Constans, «Les village des cannibales», La Recherche, 1 dicembre 2008.
2) Jennifer Viegas, «Human hair found in prehistoric hyena poop», MSNBC, 10 febbraio 2009.
3) Stéphane Foucart, «Le cheval, noble conquete des kazakhes», Le Monde, 6 marzo 2009.
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