Etnicismi e imperi
10 Marzo 2009
Buona domanda del personaggio che si firma «Spengler» su Asia Times
(1).
Dove finisce la regressione verso i particolarismi etnici? Dove porre
il limite? Quali secessionismi sono da incoraggiare e quali no?
Questo è uno dei problemi più insolubili del diritto internazionale,
problema che l’Occidente ha risolto caso per caso in base al
tornaconto, con infinita ipocrisia e gran consumo di politicamente
corretto.
Certe volte - come nel caso degli Osseti - si insinua che la
popolazione troppo esigua fa mancare il diritto alla secessione. Ma la
NATO ha bombardato la Serbia per strapparle il Kossovo (2 milioni di
abitanti), ma non fa la guerra alla Cina per la libertà del Tibet (5,4
milioni, con una propria cultura profondamente diversa da quella
cinese), e men che meno per il buon diritto degli uiguri, musulmani di
lingua turca, che sono decine di milioni e subiscono l’oppressione e la
pulizia etnica degli han, i cinesi maggioritari. I curdi, minoranza
repressa in tre Stati, non vedono parimenti riconosciuti i loro
«diritti».
E’ politicamente corretto, da qualche decennio, «rispettare» le etnie,
le «specificità». E per «rispettare» s’intende, più o meno, che ogni
etnia ha diritto ad avere il suo proprio Stato. Con ciò, si apre il
vaso di Pandora delle divisione corpuscolare all’infinito, la scissione
degli Stati, che significa il ritorno allo stato tribale o - più
ipocritamente e modernamente in Europa - ai «diritti» di gruppi
d’interesse localistici.
Una futura, ipotetica Padania non ci metterebbe molto ad assistere alla
secessione dei veneti; i croati costieri di Dalmazia e quelli sulla
Sava sono diversi abbastanza, per mentalità ed esposizione al vasto
mondo, da «giustificare» una futura suddivisione. La Dalmazia non è mai
stata croata, essendo abitata da italiani parlanti veneziani; c’è
voluta una feroce pulizia etnica per creare la «nazione-Stato».
Perchè gli etnicismi sono anche questo, irriducibili razzismi che
perseguono con deportazioni una irraggiungibile purezza identitaria.
Il fenomeno - per quanto gli etnicismi e secessionismi amino esibire
loro radici in un passato remoto, e per lo più fantastico - è
essenzialmente moderno, anzi post-moderno. Non è un fenomeno
«originario», bensì il risultato della degradazione degli Stati di
diritto, della caduta di ogni autorità, e più precisamente dello
smarrimento delle ragioni per cui gli Stati nacquero: riunire ed
unificare quante più genti possibile, per «fare qualcosa di grande
insieme».
Il feroce secessionismo basco si è manifestato solo nel ‘900; nel mezzo
millennio in cui la Spagna ebbe e governò un impero dalle Americhe alle
Filippine, i baschi parteciparono all’impero come soldati, navigatori,
mercanti, come tutti gli altri.
Il più mellifluo e benigno separatismo scozzese si è manifestato in
anni recentissimi, e non se n’era sentito parlare finchè l’Inghilterra
ebbe il suo impero mondiale.
La caduta dello scopo, e delle grandi prospettive, produce separatismi:
che così manifestano la loro radice meschinamente egoista.
E’ lo stesso fenomeno che cresce anche nelle società: ogni individuo si
vuole «Stato sovrano», vuole perseguire «i suoi diritti» che sono per
lo più piaceri privati: così cose come «i diritti degli omosessuali» o
le rivendicazioni «delle donne» o il diritto all’eutanasia e o
all’aborto, diventano un argomento politico, quale non erano mai stati
(«Politico» viene infatti da «polis», la città e la comunità, non la
cura degli interessi privati pullulanti e infiniti, irriducibili ad
unità).
Su Radio Radicale, collettore fognario di tutte queste rivendicazioni
regressive, ho sentito che s’è formato un gruppo che pretende come
«diritto» di potersi risposare, dopo il divorzio, senza attendere i tre
anni previsti dalla leggeitaliana: veniva avanzato il caso
particolarissimo di un tizio che s’è unito ad una extracomunitaria, e
non può ottenere per lei il passaporto se non fra tre anni, quando
potrà sposarla. Radio Radicale annuncia un progetto di legge. Con
tanto di appello al presidente della repubblica, per ridurre i tre anni
a un mese: persino questo è diventato un tema «politico».
Il sintomo non può essere più chiaro: non abbiamo più niente da fare. Niente da fare come popolo. Niente di grande.
La colpa primaria è ovviamente delle classi dirigenti che gestiscono la
sovranità: in qualche modo, sono queste a fare per prime secessione dal
popolo, e dal destino comune; non si curano più di indicare la cosa
grande «da fare assieme». Senza ordini dal comando, la truppa si
sbanda, ognuno torna a casa, alla capanna tribale.
Ma la tribalizzazione che ne segue, i particolarismi che via via
ottengono «riconoscimento» e «diritti» e «autonomie», sono un disastro
immedicabile: perchè configurano una caduta di visione e di cultura
(come quando si passa da una lingua storica e letteraria a un dialetto,
in cui è impossibile esprimere concetti filosofici o scientifici), e
trascinano ad un regresso complessivo della civiltà; in una parola, se
non frenati, ci portano alla barbarie.
Per convincersene basta viaggiare in Africa: dove ogni trenta
chilometri una tribù diversa parla una lingua completamente diversa da
quella vicina, e con cui è in guerra da sempre; il tribalismo africano,
che mette i Paesi africani alla mercè delle potenze unitarie della
Terra, e li abbandona al saccheggio delle Sorelle petrolifere o
minerarie, non è originario, è ciò che resta di antichi imperi unitari,
il detrito finale. Ma nulla riesce a ricondurre ad unità quei detriti.
Secondo me, l’Italia è appunto avviata verso questa regressione.
Il secessionismo parolaio lumbard è solo buon ultimo, viene dopo
secessioni già compiute di fatto: per non parlare di quelle di Aosta e
dell’Alto Adige, basta ricordare quelle irpine e calabresi, sicule e
lucane e campane; dove il malaffare che impera è «l’autogoverno» della
«nostra» tribù, e dove arretra persino la lingua comune, e i dialetti -
basta andare a Napoli - ridiventano sempre più spessi e più ermetici
per chi viene da fuori.
Naturalmente, in dialetto non si può far nascere nè filosofia nè
scienza, nè religione nè cultura alta (Giambattista Vico,
napoletanissimo, scriveva in italiano); ma questo non importa, la tribù
non ha ambizioni di «fare cose grandi», ed è questo l’arretramento più
fatale: il rimpicciolirsi delle menti, l’immeschinirsi nel «locale» e
nel «vernacolare», la mozzarella, il «mangiare», il caciocavallo, il
tifo calcistico (è secessionismo anche questa «appartenenza» frenetica
e divorante alla «squadra del cuore», la vera patria per cui molti
italioti sono disposti ad uccidere), la mazzetta, il pizzo. Le urla
biascicate di Bossi stanno sullo stesso piano, d’accordo. Ma ciò non
consola.
Oltretutto, mettersi sulla via delle rivendicazioni identitarie oggi,
con il Paese affollato di immigrati, ci prepara un futuro che andrà a
tutto danno degli italiani.
Una volta affermata la cosiddetta «etnia padana», poniamo, con quale
diritto si rifiuterà il riconoscimento delle piccole comunità nazionali
che qua e là stanno per diventare minoranza? Come non riconoscere ai
romeni il diritto di avere scuole romene (oltretutto migliori delle
nostre) in lingua romena? E ai musulmani quello di esprimere la loro
«specificità»? E poi, bisogna vedere quali: i tunisini accetteranno di
stare in unità coi marocchini e i senegalesi?
Non c’è in vista una fine alla divisione della materia umana; c’è sempre una «ragione» per non andare d’accordo.
Oggi è impossibile ricordare che, dai secoli di Roma fino alla prima
guerra mondiale, il «politicamente corretto» dettava il contrario.
Dettava l’integrazione, la chiamata universale a partecipare al destino
comune indicato dallo Stato, l’insegnamento di una lingua unitaria, e
soprattutto, il diritto, che è il meccanismo unificante per eccellenza:
non conosce nè maschi nè femmine, nè omo nè etero, nè negri nè bianchi,
ma solo «cittadini» con certi diritti politici e certi doveri, uguali
per tutti.
Roma seppe risolvere l’insolubile problema, attaendo a sè le «gentes»,
contemperando una forte autonomia delle «nazioni» (etniche, biologiche)
con la cittadinanza comune, che apriva senza discriminazioni alle
cariche pubbliche. Con ciò, liberava anche dall’etnicismo chi voleva
esserne liberato - perchè l’etnicismo è una catena di costumi, a volte
aberranti - con il sempre possibile ricorso a Roma, ossia al diritto
universale naturale: come San Paolo, perseguitato dagli ebrei, ricorse
a Roma.
La lingua offriva l’accesso ai giudici giusti, alle carriere, la
milizia nell’esercito apriva le porte alla cittadinanza dei
provinciali, e soprattutto alla cultura universale ellenistico-romana.
Che allargava le menti, le apriva contro le chiusure vernacolari, i
pregiudizi identitari.
Ciò fu perseguito anche con brutalità estrema nella «citoyenneté»
post-rivoluzionaria. Nessuna piange sulla Vandea monarchica, vittima di
un genocidio spaventoso; eppure la Vandea aveva più fondate ragioni di
secessione che i padani, o dei calabresi che si autogovernano con la
N’drangheta.
Gli stati del Sud avevano diritto alla secessione, e serii motivi,
culturali e spirituali, per reclamarla; eppure, il giudizio
«politicamente corretto» sulla guerra di secessione americana dà
ragione a Lincoln, agli Sati del Nord industriali che hanno stroncato
la valorosa secessione sudista.
Su RAI nei giorni scorsi è andata in onda la lagna sulle «atrocità»
commesse dagli italiani nelle colonie, in Libia e in Etiopia; si è
taciuto che gli inglesi fecero di peggio in India (informatevi con
quali stragi fu stroncata la rivolta dei Sepoy, negli anni ‘50
dell’Ottocento); che i francesi in Vietnam trattavano quel popolo
civile, letteralmente, con la frusta nelle piantagioni; che i belgi
commisero mostruosità schiavistiche indicibili nel Congo. Senza nemmeno
la pretesa italiana, che mirò almeno nelle intenzioni a «portare la
civiltà», ad integrare.
E tuttavia, anche fra le atrocità, ciò che è stato lasciato dai
colonialisti europei ai Paesi che dominarono ha un valore universale:
l’India, proprio perchè ha una grande antica cultura, con
l’indipendenza non ha getttato via l’inglese, comprendendo benissimo
che esso apre l’accesso al vasto mondo del pensiero, della cultura,
delle classi al potere mondiale. Al contrario, l’Algeria ha gettato via
il francese - il solo patrimonio gratuito lasciato dai francesi -
chiudendo la sua gioventù ad infinite possibilità di crescita, a
prospettive mondiali, condannandola nella prigione identitaria, da
ultimo nel retrivo estremismo islamista.
La verità è forse questa: non tutte le «nazioni» meritano di farsi
Stato, di avere la sovranità, non foss’altro per la ragione che non
sono capaci di autogoverno, non sanno reggersi con dignità e
indipendenza nel mondo.
I kosovari, ad esempio: sì, potevano e dovevano essere sottratti al
tallone di Belgrado, ma non per questo si doveva accontentare la loro
pretesa di indipendenza. E lo prova il fatto che, immediatamente, a
prendere il «governo» del Kossovo è stata la criminalità organizzata,
trafficante in droga e donne, che prospera sotto il protettorato reale
americano. I ceceni hanno dimostrato fin troppo bene che la loro
pretesa di indipendenza è assurda, facendosi guidare da cosce
delinquenziali.
Non lo dico per disprezzo razzista: dubito che l’Italia stessa sia
capace di governarsi da sè, non per caso è stata semppre divisa e
soggetta a poteri stranieri, che spesso gli italiani hanno chiamato
perchè li aiutassero nella sola guerra che amano, la guerra civile,
contro il nemico interno. Lo stesso vale per le regioni nostrane che si
danno nelle mani delle camorre e delle mafie, e chiamano questo
«autonomia».
Fino ad ieri, si capiva e si poteva dire che l’accontentare le etnie e
le paturnie tribaliste era solo portatore di disordine, instabilità e
delinquenza.
Nel 1919, Loyd George cercò di opporsi alla pretesa polacca di
incamerare Danzica, città da sempre tedesca, strappata alla Germania
sconfitta, con queste parole: «La proposta della commissione polacca,
secondo cui noi dovremmo mettere due milioni di tedeschi sotto il
controllo di un popolo (...) che non ha mai dimostrato in tutta la sua
storia la capacità di autogovernarsi in modo stabile, è destinata a
provocare prima o poi una nuova guerra nell’Est europeo».
Nonostante tutto, gli alleati, ciechi e faziosi, diedero Danzica alla
Polonia. E nel ‘39 accadde esattamente ciò che Loyd George aveva
previsto. Ma almeno, allora, si poteva ancora scrivere, in un
memorandum diplomatico, che la Polonia (come l’Italia) «non ha mai
dimostrato la capacità di autogovernarsi in modo stabile» - parole
supremamente politically incorrect, che oggi sarebbero impensabili.
Infatti la Polonia, di nuovo «sovrana», appena uscita dal protettorato
sovietico, s’è messa sotto protettorato americano. E già comincia a
provocare una nuova guerra nell’Est europeo, accettando i missili
contro Mosca.
Maurizio Blondet
(articolo pubblicato il 26 agosto 2008)
1) Spengler,
«Putin for US president - more than ever», Asia Times, 13 agosto 2008.
Secondo Spengler, paradossalmente, «la rapida e decisive azione di
Putin in Georgia ha mostrato precisamente quella capacità decisionale -
e quel pensiero strategico - di cui ha bisogno l’America». In Georgia
«non era in questione nessun fondamentale interesse americano», mentre
interessi fondamentali per la Russia erano in gioco; e la Russia ha
agito con una chiara visione dei suoi interessi fondamentali (Ma
sappiamo che l’America non risponde più ai suoi interessi, bensì a
quella del piccolo popolo). Tuttavia Spengler ha qualche ragione quando
nota: «Metà della popolazione mondiale oggi abita nei tre maggiori
Stati del mondo, Cina, India e Stati Uniti. Questi non sono Stati
multi-etnici, bensì supra-etnici, la cui identità trascende tribalismi
e nazionalità». E’ la definizione degli imperi: sopra-nazionali e non pluri-etnici. Ma ovviamente la Cina - non avendo conosciuto Roma - è uno Stato
essenzialmente razziale, basato sull’oppressione dell’etnia Han sopra
le altre. Non a caso, alle Olimpiadi, la parata delle minoranze etniche
nei loro costumi nazionali era composta -- ridicolo - tutta da
individui han. Tuttavia, ancora Spengler non ha torto quando aggiunge:
«Il numero di punti da cui può conflagrare la violenza mondiale è
aumentato in proporzione inversa alla loro importanza: il mondo è pieno
di tribù non-morte con illusioni di grandeur, e di popoli in via di
estinzione che preferiscono andarsene con uno scoppio anzichè con un
sospiro. Gli Stati sopra-etnici hanno un comune interesse a contenere
le mascalzonate che possono essere compiute da questi perdenti».
Naturalmente, «Spengler» essendo ebreo e neocon, incita Cina, Russia,
USA e India ad unirsi nella lotta all’Islam. «Se l’America vuol
recuperare dalla sua umiliazione nel Caucaso, dovrebbe per esempio
sferrare un attacco aereo contro le fabbriche nucleari dell’Iran». La
solita ossessione etnicista ebraica. I grandi Stati del mondo
dovrebbero mettere le loro armate al servizio della ultima,
microscopica, essenziale «tribù non-morta con manie di grandezza», la
Casa di Giuda.
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