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La Svizzera testimonia che si possono moderare le grandi banche
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La Banca Centrale Svizzera ha imposto a UBS e Credit Suisse (i suoi colossi troppo grandi per fallire) una severa cura dimagrante, obbligandoli a liberarsi di attività ad alto rischio e a restringersi, concentrandosi sulla normale attività di credito commerciale e gestione del risparmio.

L’occasione dell’intervento è stato il salvataggio della UBS, che nel 2008 ha ricevuto 6 miliardi di franchi svizzeri (5,2 miliardi di dollari) dallo Stato, e ha messo 60 miliardi di dollari di attivi a rischio presso un fondo garantito dalla Banca Centrale (il Credit Suisse aveva rifiutato l’aiuto pubblico, ed è stata obbligata a cercare capitale fresco, essenzialmente fornito dal fondo sovrano del Qatar).

Al contrario delle altre Banche Centrali (vedi Federal Reserve e BCE) che hanno finanziato a pié di lista le perdite incorse dalle loro banche in speculazioni azzardate senza porre condizioni, la Swiss National Bank ha obbligato UBS e Crédit Suisse a rivolgersi a revisori dei conti indipendenti, che hanno intervistato il personale per capire in che pasticci si erano cacciati per perseguire i loro bonus miliardari. S’è visto che la UBS s’era buttata a corpo morto nei derivati, non solo mantenendo i suoi CDO (Collateralized Debt Obligations, insomma tranches di mutui sub-prime cartolarizzati) con il rating AAA, ma comprandone da altre banche, per poi coprirli con Credit Default Swap.

I revisori indipendenti (che però le banche sotto esame hanno dovuto compensare a loro spese) hanno stilato un rapporto rivelando i dettagli più sanguinosi della speculazione. Questa informazione è stata resa pubblica.

Dopo ciò, la Banca Centrale svizzera ha dato la prima bastonata: forzando le due banche ad alzare la riserva obbligatoria (il cuscinetto di capitale proprio) al 19%, misura senza precedenti che da sola costa alle due banche un 18 miliardi di dollari ciascuna.

Seconda botta: ha obbligato UBS a delineare il proprio business per un ritorno al normale, tagliando a sangue le proprie attività come banca d’investimento: rinunciando alla metà dei suoi 300 miliardi di attività derivate, e ad uscire da industrie come la cartolarizzazione di cosiddetti attivi (securitization, ossia lo spaccio a terzi di debiti che qualcun altro sta pagando) e prodotti finanziari strutturati complessi. Come si legge in un comunicato della stessa UBS, «la banca dinvestimento sarà meno complessa, tratterà meno Risk Weighted Assets, e richiederà sostanzialmente meno capitale per produrre profitti sostenibili agli azionisti». Il Credit Suisse ha promesso di fare lo stesso entro il 2014.

Ciò dimostra quanto vuota sia la minaccia dei bankster internazionali che, di fronte alle più timide proposte di regolamentazione, rispondono che si stabiliranno all’estero, nei Paesi dove la regolamentazione non c’è. Risulta che la UBS ha anche provato a spezzare la sua sezione d’investimento a rilocarla altrove, onde sfuggire all’occhio della Swiss National Bank: ma s’è accorta che la fuga era impraticabile. Per certe operazioni c’è bisogno di avere alle spalle una Banca Centrale credibile, e Giappone e Cina non amano nuovi  arrivi stranieri; hanno scoperto che la nuova entità non riusciva a finanziarsi a tassi competitivi; e che occorre restare vicino ai clienti, e i trader devono restare fisicamente vicini ai venditori.

Insomma, la globalizzazione è una tigre di carta di fronte ad una  risoluta volontà politica. Il regolatore elvetico ha spiegato che, dato che le due banche che si sono comportate irresponsabilmente avevano accumulato attivi pari al quintuplo  (500%) del PIL svizzero, la messa sotto tutela era una priorità nazionale.

(Swiss Central Bank Forces MegaBanks UBS and Credit Suisse to Shrink and De-Risk)

Maurizio Blondet 



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