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Il Saggio Re dei giudei
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Mara bar Sarapion filosofo stoico, originario di Samosata (Siria), vissuto nel I secolo dopo Cristo, ci lascia un interessante testimonianza pagana, quindi non attaccabile di parzialità ed infondatezza storica, circa l’esistenza di Gesù.

Riportata da un manoscritto del VII secolo conservato al British Museum, scrive, dalla prigionia del suo carcere (per opera dei romani) una lettera risalente al 73 dopo Cristo, indirizzata al figlio Serapion, e ammonendolo ed esortandolo a seguire sempre la sapienza nella vita, anche se questa scelta possa comportare persecuzioni e/o calunnie. Infatti, aggiunge, questo è stato il destino di numerosi grandiosi personaggi della storia (tra cui egli si annovera, presagendo una sua possibile condanna a morte ad opera dei romani).

Gli esempi citati da Mara sono emblematici: Socrate, Pitagora e il «saggio Re dei giudei», tradito dal proprio popolo e condannato a morte.

È vero, non c’è l’esplicita menzione di Gesù; ma, percorrendo a ritroso la storia del popolo ebraico, non si riscontra nessuna sentenza di morte di un precedente re. L’indizio si trasforma in vero elemento di prova nel momento in cui la menzionata condanna viene collegata alla sottrazione del regno ai giudei ed alla loro diaspora. Il riferimento è certamente alla guerra giudaica (66-74 dopo Cristo), la quale culminò appunto con la distruzione del tempio e la diaspora.

Ecco il testo di Mara bar Sarapion (grassetto mio):

«Quale vantaggio trassero gli Ateniesi dallaver ucciso Socrate, un fatto che dovettero pagare con la carestia e con la peste? O gli abitanti di Samo per aver bruciato Pitagora, visto che in un istante tutto il loro paese fu ingoiato dalla sabbia? O i Giudei per lesecuzione del loro saggio re, visto che da quel tempo fu loro sottratto il regno? Giustamente infatti Dio vendicò questi tre saggi: gli Ateniesi morirono di fame, gli abitanti di Samo furono sommersi dal mare, i giudei eliminati e cacciati dal loro regno, vivono tutti nella diaspora. Socrate non è morto, grazie a Platone; né Pitagora, grazie alla statua di Hera, né il saggio re, grazie al nuovo insegnamento che aveva impartito».

Sottolineiamo altri aspetti importanti:

1) La redazione della lettera è vicinissima alla morte di Gesù (a poco più di trent’anni); la sua testimonianza ha un valore storico preziosissimo (e con questo vanno alle ortiche tutte le dissertazioni sulla inesistenza storica di Cristo; anche se questa non è certamente l’unica prova né la più forte, ma al momento non ci dilunghiamo);

2) Gesù (il saggio re) è equiparato a figure storiche precedenti e di cui nessuno dubitò l’esistenza (Socrate e Pitagora);

3) Gesù insegnò «qualcosa di nuovo» e degno di essere considerato saggio. Ora, uno dei criteri scientifici utilizzabili per verificare la storicità di un accadimento, come nel caso della narrazione dei racconti evangelici, è quello della cosiddetta discontinuità. Tale elemento, se sussistente insieme a quello della conformità, rende la testimonianza scritta riportata molto attendibile, anche soltanto da un esame interno del testo.

Spieghiamoci meglio:

a) La discontinuità della narrazione implica la rottura di schemi, che rende il fatto riportato assolutamente probabile, anzi certo!, perché difficilmente ricavabile dai criteri comuni dell’immaginazione e dell’inventiva umana. Un esempio pratico relativo alla vita di Gesù, potrà servire per comprendere meglio: la discontinuità del comportamento di Gesù nei confronti dell’osservanza della Legge. La Legge, in Israele, era tutto. L’atteggiamento di Cristo, fortemente polemico e dissacratore lo rende trasversale rispetto alla mentalità del suo ambiente, rigorosamente soggiogato da schemi e prescrizioni ritenute inattaccabili. Questa scelta deve necessariamente coincidere con una realtà accaduta, giustificabile soltanto dallo stesso comportamento autorevole di Gesù; la convinzione che tale autorità provenisse dal suo Essere Divino hanno certamente indotto le prime comunità cristiane a considerare tale postura come un’affermazione di verità e non come altrimenti avrebbero dovuto essere considerate: un gesto di follia e di insipienza.

b) La conformità fa il paio con la suddetta discontinuità, in quanto, pur precisando la posizione di Cristo nei confronti degli usi e delle tradizioni dell’epoca, colloca l’uomo (e Dio) Gesù perfettamente nel suo tempo ed in quel luogo. A nulla servirebbe il principio della discontinuità se il Messia non fosse veramente ebreo, figlio del popolo di Israele e vissuto nel primo secolo. Gli indizi in tal senso sono moltissimi. Gesù è pienamente persona (umanamente parlando; consentitemi l’imprecisione teologica) del suo tempo. Le appena esposte considerazioni cos’altro ci dicono?

Per esempio che Gesù non andò mai in India (come si sente dire e si scrive sempre più spesso in questi ultimi tempi); troppo ebraismo ne pervade l’insegnamento, sempre antico e sempre nuovo ad un tempo, tale da essere pienamente ebraico e pur tuttavia al di là di ogni schema umano o mondano previsto o prevedibile nello scenario del mondo. Anche gli stoici affermano la storicità dei santi Vangeli. 

Stefano Maria Chiari


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