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Perchè Obama non è Roosevelt
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Durante la grande depressione 1930-39, l’amministrazione americana impiegò il 60% dell’enorme massa di disoccupati in opere pubbliche. Con quella manodopera, spesso semi-militarizzata, furono costruiti o rinnovati 2.500 ospedali, 45 mila scuole, 7.800 ponti, 1,2 milioni di chilometri di strade, centinaia di piste d’atterraggio, 13 mila parchi-giochi. Furono piantati un miliardo di alberi. Risalgono a quell’epoca il Lincoln Tunnel a New York, la Tennessee Valley Authority per la rivalutazione dell’area più depressa degli Stati Uniti; nel Nevada sorse la colossale diga Hoover con l’annessa centrale idro-elettrica; Chicago ebbe il suo «fronte lago», grande impresa immobiliare; a Pittsburgh sorse la «Cattedrale dell’Apprendistato», furono messe in cantiere e ultimate due portaerei (Enterprise e Yorktown). Furono assunti 50 mila insegnanti, specie allo scopo di modernizzare l’America rurale cominciando dall’istruzione. Tremila scrittori, pittori e scultori furono impiegati per anni come creativi di Stato.

Con questi interventi pubblici la disoccupazione fu ridotta dal 25% del ‘33 al più socialmente tollerabile 10% nel 1936. Non durò; il New Deal non riuscì ad innescare l’accensione spontanea del motore produttivo. Quando Roosevelt cercò di riequilibrare il bilancio riducendo l’immane debito pubblico creato da quelle imprese, l’economia crollò di nuovo.

Ma allora, i programmi di opere pubbliche furono rilanciati; e la disoccupazione calò di nuovo al 10%. Solo la guerra, come sappiamo, portò il pieno impiego; ma le fondamenta tecnico-industriali che condussero alla vittoria americana – una vittoria tutta dovuta ai volumi materiali - erano state preservate e migliorate in quel decennio di grande crisi.

Soprattutto, «il New Deal ha salvato il Paese politicamente e moralmente fornendo lavoro, speranza e fiducia». Così dice James Galbraith, economista che si dice keynesiano sapendo di che si tratta, in un saggio da cui ho tratto i dati di cui sopra (1). Dati impressionanti, che mostrano come l’intervento statale di allora  fosse interamente puntato sull’economia reale, sull’occupazione, su grandi opere fisiche di ammodernamento.

E’ esattamente il contrario del cosiddetto «intervento pubblico» dell’attuale Amministrazione, tutto puntato sul «risanamento» della finanza. La filosofia che regge quest’azione è che la ripresa deve essere rilanciata dal credito privato. Una volta ripulite le banche dei titoli tossici, «riparato» il sistema bancario così com’è, completato il colossale dis-indebitamento delle famiglie, le banche riprenderanno a prestare, e tutto tornerà alla normalità – o almeno ad una «normale» recessione. Per questo progetto gli USA hanno stanziato 12 trilioni di dollari (pari al PIL americano) e ne hanno già spesi tre, senza esito. Galbraith enumera le fallacie intellettuali sottese a questa strategia, per lui errata.

La prima: «La convinzione profonda degli economisti contemporanei che l’economia è un sistema capace di auto-stabilizzarsi», come un famoso pupazzo per bambini che preso a pugni, torna sempre in piedi. Gli economisti credono a questa idea «spesso senza nemmeno averne coscienza», dice Galbraith: è la descrizione dell’illusione liberista diventata «senso comune», che non è nemmeno sottoposta a critica perchè non si ha coscienza che essa è una teoria, non una «realtà». Ben Bernanke ha espresso questo pregiudizio che lui crede scientifico a Londra, a gennaio, con la frase: «L’economia mondiale si raddrizzerà».

In questo senso malato tutti oggi sono «liberisti». Sono convinti che anche senza far nulla, un giorno la produzione e l’impiego risaliranno; e che lo Stato deve limitarsi tutt’al più a togliere gli ostacoli – azione negativa – che tolgono al pupazzo la sua resilienza «naturale», e solo provare ad «accelerare» la ripresa. Sicchè non ci sono, oggi, dei keynesiani. Quelli che si autodefiniscono così sono «liberisti di sinistra», opposti a «liberisti di destra». Entrambi mirano a «liberare» il credito dai suoi intoppi, i primi magari con qualche aggiunta sociale, di sostegno, in attesa che Pierino-sempre-in-piedi si raddrizzi.

Seconda fallacia: «nel settore bancario, la metafora dominante è di tipo idraulico: bisogna liberare i tubi del credito da un tappo (gli attivi tossici) e il credito privato riprenderà a fluire». Ma la metafora del tubo intasato è fuorviante, dice Galbraith. Il credito non è un «flusso», di cui si possa forzare la corsa nel tubo con un aumento di pressione (iniettando «liquidità»). Il credito, ricorda Galbraith (ce lo siamo dimenticato tutti) «è un contratto». Ha bisogno dell’incontro di due volontà: di un prestatore, ma anche di una controparte desiderosa di indebitarsi. Ha bisogno di una banca, ma anche di un cliente. E il cliente deve essere anzitutto solvibile – capace di ripagare i ratei del debito – ossia come minimo con un reddito fisso e sicuro, e magari con un valore immobiliare dotato di valore intrinseco. Oggi nè l’una nè l’altra condizione esistono; e per quanto si inietti liquidità nelle banche, il cliente, minacciato di licenziamento, con il valore della sua casa che scende e non si sa quando si fermerà, non va a comprare una nuova auto a rate. Qui si dimostra la fallacia di iniettare immani somme alle banche, trascurando l’altra parte.

Ma per contro, lanciare semplicemente soldi in tasca agli americani dall’elicottero, e nemmeno spese pubbliche per beni e servizi – nella situazione attuale – rischiano di bastare. Il dollaro del PIL speso dal settore pubblico può rendere molto meno di un dollaro come consumo privato, e l’effetto moltiplicatore attribuito alla spesa pubblica può mancare, o essere troppo costoso. Ciò perchè gli americani sono così indebitati, che alla meglio spendono il dollaro (pubblico) per ridurre la loro esposizione, o se lo tengono sotto il materasso, anzichè spenderlo in consumi provocando l’effetto moltiplicatore.

Questo accade perchè – ed è la terza falla intellettuale – i responsabili dell’amministrazione non hanno ancora colto la vastità della crisi; «sono incapaci di agire come se la crisi finanziaria fosse una crisi vera, e non già due problemi, interconnessi ma temporanei, uno nel settore bancario e l’altro nell’occupazione». Come i generali ottusi, combattono la guerra precedente, e non colgono il carattere nuovo di una crisi che pone una minaccia economica multipla, convergente e a lungo termine.

Da una parte, gli attivi tossici sono troppi («un oceano Pacifico»: la bolla dei derivati vale probabilmente 1,5 quadrilioni di dollari) per poter essere assorbiti con i mezzi messi in campo. Dall’altra, «per la prima volta dagli anni ’30, milioni di famiglie americane sono rovinate». Quelle che ancora due anni fa fidavano sul valore crescente del loro patrimonio immobiliare e sul loro piano di risparmio in azioni per la vecchiaia, «non hanno più nè l’una nè l’altra». Le loro azioni sono dimezzate, il loro mutuo è un fardello tale, che la strategia migliore è riconsegnare la chiave di casa alla banca prestatrice; il che garantisce che la crisi si approfondisca e peggiori per anni ed anni. Il tutto in un quadro globale dove tutti gli indici (export-import, trasporti, consumo di materie prime) scendono simultaneamente in ogni Paese.

E come mai i dirigenti non colgono la terribile novità della situazione? Perchè si basano su «modelli» computerizzati fondati sulle esperienze di crisi del dopoguerra. Per loro natura, questi modelli «non possono prevedere situazioni più gravi di quelle che si sono osservate in passato. Se siamo di fronte a un rallentamento peggiore che quello del 1982, i nosri computer non ce lo diranno; nè ci diranno se questa crisi durerà a lungo. Saremo colti di sorpresa».

Con questo, Galbraith denuncia la quarta falla intellettuale, che è anche la causa di tutte le altre: i dirigenti politici e i loro economisti sono stupidi, perchè hanno rinunciato all’intelligenza. Per la precisione l’hanno delocalizzata nei computer – come hanno fatto gli speculatori finanziari, affidandosi ciecamente ai loro algoritmi, come hanno fatto gli imprenditori hanno delocalizzando le produzioni in Cina o Romania. E come le delocalizzazioni industriali  hanno portato in Occidente alla perdita durevole di competenze umane, di cultura industriale e di cultura tout-court, così l’outsourcing del compito di pensare ai modelli computerizzati ha fatto perdere ai decisori l’abitudine di pensare e di decidere in proprio. Nè Roosevelt nè Keynes, nè Hitler interrogarono i computer per sapere come affrontare la crisi.

«I modelli non serviranno a niente, perchè non tengono conto dell’elemento chiave di questa crisi, che è l’implosione del sistema finanziario. Bisogna tornare indietro, al di là degli anni del dopoguerra, fino alla Grande Depressione. E questo lo consente solo un’analisi di tipo quantitativo e storico», conclude Galbraith.

Dopo decenni di premi Nobel distribuiti ad economisti-matematici, creatori di sistemi per vincere al gioco, è un forte richiamo alla realtà: l’economia è essenzialmente «storia dell’economia» – cultura umanistica, arte del governo, umana attenzione alla società, non matematica per secchioni.

L’oscuramente delle menti, un vero infarto dell’intelligenza, si constata nell’iniziato distacco della mostruosa coppia di gemelli siamesi che è il motore della mondializzazione: Cina e America, o Chimerica. L’America che importava merci cinesi, e la Cina che lealmente comprava titoli del debito americano in dollari per finanziare gli acquisti americani, sembrava vantaggioso ad entrambi. Adesso gli USA hanno rotto il patto, annunciando di comprare 300 miliardi dei loro BOT con emissione di moneta dal nulla, di fatto svalutando le riserve in dollari cinesi. E Pechino, per bocca dell governatore della Banca Centrale Zhou Xiaochuan, ha proposto di rimpiazzzare il dollaro come moneta di riserva globale con diritti speciali di prelievo del FMI, o insomma con un «paniere» di valute diverse. La Cina porterà al G-20 questa richiesta, già avanzata dalla Russia.

Per Washington, la minaccia è grave: il costo del suo immane debito salirebbe alle stelle (già oggi sempre meno Paesi e investitori fanno credito al grande debitore egemone (2)) e così i suoi costi commerciali: l’America risparmia proprio perchè non ha quasi mai bisogno di convertire la sua divisa in un’altra (ecco un esempio di «signoraggio»).

Ma Pechino non può permettersi di mettere davvero in atto la minaccia. Anzitutto, il «paniere» che dovrebbe sostituire il dollaro come riserva globale dovrebbe contenere il renminbi, che oggi la Cina controlla strettamente, che dovrebbe essere lasciato fluttuare e si rivaluterebbe notevolmente. Rendendo meno competitive le sue merci.

Attenzione, ecco il guaio: le merci cinesi, basate sul basso costo del lavoro, sono già oggi poco competitive. La produttività del lavoratore cinese è bassa, molto bassa. La Cina deve mobilitare 800 milioni di lavoratori per creare un quarto del prodotto interno lordo degli Stati Uniti, che lo raggiunge con 150 milioni di lavoratori (3). Dunque, il lavoratore cinese produce 21 volte in meno di quello americano in termini monetari (in termini di «parità di potere d’acquisto», 12 volte in meno). Solo i volumi immensi dell’esport e i profitti all’osso tengono a galla l’economia cinese. Fino a ieri, la Cina ha esportato il 50% del suo PIL, una cifra al di là di ogni ragionevolezza per un Paese così grosso (la Germania, che ha esagerato in competitività rubando mercati a noi, esporta il 42%, la Francia il 25%).

Insomma dipende in modo irrazionale dall’export, e dunque è estremamente vulnerabile alla rottura del «contratto» che aveva sottoscritto con Washington. Alla Cina basta un calo lieve delle esportazioni per andare sotto: e a febbraio, le esportazioni sono precipitate del 25,7% sull’anno prima. E la produzione industriale continua a calare, nonostante il pacchetto di stimolo lanciato da Pechino, 585 miliardi di dollari: sì, le banche di Stato hanno aumentato i prestiti del 24%, ma parecchi  «imprenditori» cinesi, chiamiamoli così, non hanno nessuna fiducia nel futuro, e usano questi prestiti a basso costo per speculare in Borsa: straordinaria imitazione della speculazione americana, il cattivo allievo-modello  ha imparato dal cattivo maestro.

I dirigenti dovranno cconcentrarsi sull’aumento della domanda interna, che oggi conta solo il 40% del PIL, e molto in fretta. Perchè la caduta del dollaro annuncia la fine dei decenni di deflazione salariale in USA, con un inizio di re-industrializzazione americana, magari in clima d’inflazione.

I due gemelli siamesi avevano puntato tutto sulla globalizzazione, ora sono entrambi allacciati nel precipizio di una de-globalizzazione per la quale non abbiamo mappe nè modelli, nè memoria storica.

Perchè se Obama non è Roosevelt, non si vede l’ombra di un Keynes nemmeno in Europa, e nemmeno di uno Schacht o di un Beneduce. Abbiamo delocalizzato l’intelligenza anche più di Washington, e nemmeno siamo coscienti di averne disperatamente bisogno.



1) James K. Galbraith, «Une crise hors norme», ContreInfo (dal Washington Monthly), marzo 2009.
2) Secondo gli ultimi dati della bilancia di pagamenti USA, l’America è un prestatore netto al mondo, non più un ricevitore netto di crediti dal mondo. Sì, gli stranieri continuano a comprare cifre record di BOT americani (179 miliardi), ma tutti a breve termine, ma gli USA hanno prestato al resto del mondo 268 miliardi.
3) Jean-Claude Werrebrouck, «Le couple sino américain, moteur de la dé mondialisation», Contre Info, 24 marzo 2009.


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