La sacra vocazione
Don Curzio Nitoglia
30 Marzo 2009
La vocazione sacra (1)
è un consiglio, non un precetto. Il fatto che la chiamata divina alla castità
perfetta e perpetua, allo spirito di povertà e di obbedienza, nel servizio
sacerdotale sia solo un consiglio e non un precetto è ammesso comunemente. Ma
ci si domanda il consiglio «Se
vuoi essere perfetto vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri» obbliga «per
sè» ossia direttamente, oppure «per accidens»
vale a dire indirettamente?
Vi sono due scuole: quella obbligatorista (per la quale la vocazione obbliga per sè sotto pena
di peccato mortale) e quella benignista
o «liberista» (secondo la quale la vocazione essendo un consiglio non
obbliga per sè sotto pena di peccato, altrimenti sarebbe un precetto). La tesi «liberista»
mi sembra più conforme alla sana dottrina e cercherò di spiegarne il perchè.
In sintesi il rifiuto della vocazione sacra significa
abbandonare una via più nobile, ma non è per sè un peccato, che immancabilmente
ci porterà all’inferno.
Qualora vi fosse il disprezzo del
consiglio divino vi sarebbe la colpa. Ma il semplice non accettare il consiglio
o l’invito non significa disprezzarlo.
Occorre vedere i motivi per cui si declina l’invito. Il
disprezzo dell’invito di Dio, sarebbe un’ingratitudine nei confronti del Signore
e così sarebbe un peccato che attira il castigo divino. Tuttavia occorre distinguere se il sentimento di disprezzo dell’invito di Dio perduri nel tempo; allora la catena di
grazie, che il vocato poteva aspettarsi nel nuovo stato che ha scelto, potrebbe
essere definitivamente compromessa. Occorre perciò notare che il peccato
consiste nel disprezzare il consiglio (per
accidens) e non nel non seguirlo (per sè). Per esempio, non
seguire il consiglio della verginità per sposarsi non è peccato per sè; ma se
si stima più nobile il matrimonio (come spigheremo meglio dopo) allora vi è
peccato per accidens o ratione alterius.
Precetti e consigli
Il precetto obbliga ad
esse simpliciter; mentre il consiglio ad
melius esse. Perciò non osservare il precetto è peccato per sè, mentre non
osservare il consiglio è un’imperfezione o un atto di carità remissus o meno perfetto di quanto
avrebbe dovuto e potuto essere. E’ l’uso della creatura non contra legem e neanche praeter legem, ma secundum legem sed non
ferventiori modo, quindi non può e non deve essere oggetto di assoluzione
sacramentale, come vogliono gli obbligatoristi, non essendo peccato.
La volontà di Dio o
la vocatio divina
Non lascia completamente liberi, non esclude qualsiasi
obbligo e non autorizza qualsiasi risposta, secondo le proprie preferenze. Se
non vi è peccato formale per sè, ciò non vuol dire che non vi sia l’obbligo di
rispondere quanto al danno che tale negazione comporta, ossia una diminuzione
del meglio e non del necessario, nel bene spirituale. Tale diminuzione del bene spirituale non è un peccato ma solo un
atto di carità meno perfetto. Il consiglio non obbliga per sè sotto pena di
peccato; ma la conseguenza sarà una diminuzione di grazia e di gloria. E’ il
piano del minor amore e non della offesa positiva, non è un atto contro Dio o
la sua legge, ma è il non fare il meglio per Dio. Ora non seguire un consiglio
è un atto secundum legem sed non
ferventiori modo actuato.
Il pericolo di
dannazione
Tale pericolo sussiste non per sè o in quanto non si è
obbedito al consiglio, ma per accidens
o ratione alterius, ossia la ragione
o il perchè del pericolo di dannazione si trova in fattori estrinseci al
consiglio in sè considerato, ad esempio i motivi disordinati, come reputare il
matrimonio più perfetto dello stato consacrato. Tuttavia tale pericolo può
cessare se cessano gli errati atteggiamenti spirituali che hanno determinato il
rifiuto; chi non segue la vocazione per motivi disordinati, farebbe peccato per
questi motivi disordinati e non per non aver seguito la vocazione, ossia per accidens e non per se. Ma può riparare il male fatto, correggendosi da tali
inclinazioni, poichè «ad
ogni peccato, di cui ci si pente,
misericordia»!
L’obbligatorismo in tema di vocazione
La scuola teologica obbligatorista, che asserisce che la
vocazione obbliga per sè, e quindi si pecca per sè se non la si segue, può
creare nella decisione di seguire la chiamata divina, una psicologia ansiosa e
coatta, tormentosa e tormentante e può deformare il giudizio prudenziale sulla vocazione
del candidato. Producendo delle vere e proprie catastrofi spirituali, come fu
il caso della «vocazione» di Lutero, vista dal soggetto non sub specie aeternitatis, ma sub specie damnationis.
Vocazione dubbia,
vocazione nulla
L’insegnamento del Magistero (2) è esplicito e chiaro su tale punto; ogni dubbio serio sulla
vocazione deve portare alla negazione della chiamata. La tesi benignista
secondo cui la vocazione obbliga per
accidens, infonde una gran serenità e sicurezza nel seguire la vocazione e
spinge a seguire la chiamata per amore e non per timore di dannazione, a
differenza di Lutero.
L’Obbligatorismo
Insegna l’obbligo della confessione e della riparazione per
il giovane che non avendo seguito la vocazione ha peccato per se. Tale tesi può determinare in chi ha deciso di cambiare
strada dei turbamenti pericolosi, dei rimorsi e varie agitazioni di spirito.
Pericoli di
irriverenza
Se nel respingere la chiamata o il desiderio (e non il
comando o l’ordine) di Dio, il rifiuto è fatto con disprezzo irriverente del desiderio o consiglio di Dio (e di Dio
stesso che chiama e consiglia), allora vi è peccato, ma siamo sempre nel
peccato per accidens; infatti vi è
peccato in quanto è disprezzato il
desiderio di Dio e non in quanto il candidato non se la sente di seguire una
vocazione più nobile ma più impegnativa. Insomma se riconosco che seguire il
consiglio di Dio sarebbe bello e più bello di ciò che scelgo (il matrimonio),
ma non lo seguo per timore dei sacrifici che la strada più perfetta comporta,
allora il rifiuto non è disprezzo della volontà di Dio. E’ soltanto il rifiuto di un sacrificio consigliatomi da
Dio, e non imperato sotto pena di peccato per sè . Si tratta di un
consiglio che non viene seguito a causa del sacrificio che comporta e in virtù della
libertà concessa da Dio all’uomo.
Il giovane valuta ragionevolmente la vocazione in sè, i
sacrifici che comporta, la libertà che Dio lascia nell’accettarla o no, senza
peccato, poichè è un consiglio, che aiuta ad osservare meglio i 10 comandamenti
e ad arrivare alla perfezione, quindi sceglie, senza peccare, di dire no alla
chiamata, senza disprezzarla, anzi ritenendola troppo alta rispetto alle
proprie forze. Gli obbligatoristi partono dal presupposto, tutto da dimostrare,
che ogni volta vi sia certamente vocatio
divina, che non è ben distinta da costoro dalla vocatio canonica. (Lutero ebbe la seconda, ma non la prima). Ogni
aspirante al sacerdozio non ha necessariamente la vocatio divina, ma si pone il problema se abbia o no la vocazione;
il problema va risolto con la massima libertà, da parte di chi può accettare o
meno un consiglio che forse Dio gli sta dando, ma di cui non v’è sempre la
certezza; e anche di fronte a una certezza morale il giovane può rifiutare
l’invito, senza necessariamente disprezzarlo, poichè gli pare troppo arduo, e
non deve esser posto dall’obbligatorismo in uno stato di terrore di Dio, che
falserebbe la sua risposta, (come capitò allo sventurato Martin Lutero).
E’ lecito rifiutare il meglio per paura del
sacrificio?
Tale ripugnanza è un’imperfezione, non è un atto cattivo,
contro Dio e la sua legge, ma è un atto buono, pur se meno buono di quanto
avrebbe potuto essere. Ciò che obbliga per sè sotto pena di peccato grave è il
sacrificio e il rinnegamento necessari ad osservare i 10 comandamenti; mentre
il sacrificio per osservare i consigli non obbliga sotto pena di peccato,
altrimenti i consigli sarebbero non più consigli ma comandamenti.
Facciamo l’esempio di, chi non se la sente di accettare il
celibato ecclesiastico, non per motivi viziosi, ma per timore, non accidioso,
del sacrificio di rinunziare ad un onesto matrimonio; siccome rifiuta un
sacrificio consigliato non pecca di per sè. Il motivo della scelta è
ragionevole e onesto, in quanto si sceglie uno stato naturalmente più facile,
anche se meno perfetto, e quindi lecitamente elegibile, per raggiungere il fine
ultimo. Se il giovane respinge de facto,
in tale scelta, le grazie del «Meglio» o del più perfetto (celibato), riceve
tuttavia quelle del «Bene» (matrimonio). Se un giovane rifiuta la grazia
della vocazione e la catena delle grazie che ne seguirebbero, per un motivo
ragionevole di timore sia del grave sforzo, sia di non farcela, sia perchè non
è sicuro di avere la vocazione, riceve una nuova serie di grazie proporzionate
allo stato buono, anche se meno perfetto, che ha scelto. Tali grazie sono
sufficienti a condurlo in Paradiso, anche se con un grado inferiore di grazia e
di gloria rispetto al più perfetto. La prospettiva obbligatorista del «pesce fuor d’acqua», o della «strada senza pompe di benzina», cioè priva di grazie nel cammino che deve
percorrere, è infondata e spiritualmente pericolosa.
Se invece nel rifiuto vi è una psicologia rinunciataria e
proclive al vizio, naturalmente vi è peccaminosità e pericolo di dannazione. Ma
questo è un peccato per accidens,
ossia a causa dei motivi cattivi che spingono al rifiuto, e non vi è peccato
per sè, ossia per il rifiuto stesso. La mancanza di maggior fervore è un’imperfezione, non è un
peccato di accidia. Per gli obbligatoristi il rifiuto del meglio è in sè un
peccato; invece non è così. Vi sarà accidia solo qualora manchi il fervore
obbligatorio per osservare i 10 comandamenti. Non vi è accidia quando si
rifiuta il meglio per scegliere il bene, per timore di non farcela a conseguire
il più perfetto: «l’ottimo è nemico del buono» diceva don
Bosco. L’obbligatorismo rischia di spingere il giovane a vedere il problema
della divina chiamata in una prospettiva di ansia terrorizzante, di
perfezionismo paralizzante; mentre si può lasciare il seminario per la povertà
in cui si vive, o per timore di gravi persecuzioni di cui i sacerdoti del luogo
possono essere oggetto, o per le difficoltà del celibato che il giovane
seminarista trova troppo aspre per sè e lo fanno dubitare di essere realmente
chiamato da Dio in tale stato. In realtà se Dio dà una vocazione ad una persona
gli dà anche i mezzi per portarla a termine e viverla serenamente, mentre il
non avere i mezzi o avere una difficoltà di mezzi per cogliere il fine è segno
di vocazione dubbia, e «vocazione
dubbia è vocazione nulla». In materia
di vocazione la Chiesa segue il tuziorismo, ossia vi è vocazione solo quando se
ne ha la certezza morale, a partire dalle qualità che il chiamato deve
possedere. Per esempio, un monco certamente non è chiamato a fare il pugile,
poichè non ha le qualità richieste; così un giovane che non riuscisse a
liberarsi da qualche vizio, o che non avesse la salute psico-fisica sufficiente
o l’intelligenza per fare gli studi sacri non ha la sacra vocazione, tranne i
casi straordinari (padre Pio, il curato di Ars, San Giuseppe da Copertino), che
sono le eccezioni che confermano la regola.
Resistenza al volere
divino e pericolo di dannazione
Ogni peccato mortale è stato preparato da molti peccati
veniali anteriori (nemo repente fit pessimus). Quindi per evitare il peccato
mortale occorre evitare i peccati veniali. Però è moralmente impossibile che
l’anima lotti efficacemente contro il peccato veniale, se non ha una certa
delicatezza di coscienza, spirito di abnegazione e un certo dinamismo
spirituale che superi il piano dell’obbligo stretto (i precetti) e tenga conto
dello spirito dei consigli. Tendere ad adempiere solo i divini precetti,
significherebbe esprimere a Dio il proprio amore solo con la volontà di non
offenderlo, il che è contrario al vero amore, che non solo non offende, ma va
incontro ai desideri dell’amato. Se l’anima si contentasse solo di non
offendere Dio, conserverebbe lo stato di grazia, ma le mancherebbe la facilità
e la gioia nel fare la volontà di Dio. Siccome, pur non volendo peccare, non
compie il desiderio o il consiglio di Dio, praticamente, si occuperà di
ottenere sempre il massimo accontentamento di sè, piuttosto che il proprio
rinnegamento, tendenza che finirà per travolgerlo facendolo indulgere al
peccato veniale, per arrivare sino al mortale.
Infine solo chi si esercita nelle rinuncie libere del
meglio, si sottrae alle occasioni pericolose e acquista dominio stabile sulle
proprie passioni. Senza la buona volontà di compiere i desiderii (consigli) di
Dio, manca il dinamismo del vero amore soprannaturale, che ci infonde l’odio al
peccato e ci impedisce di far pace con le imperfezioni volontarie. In questo
senso, cioè quando c’è mancanza volontaria di fervore e stato di tiepidezza il non
seguire la volontà di Dio è la strada moralmente certa di dannazione. Il
fervore comporta che ogni atto deve essere più perfetto di quello anteriore,
per poter progredire nella vita spirituale. Senza fervore non si avanza. Ora in via Dei non progredi regredi est,
quindi senza fervore si cade nella tiepidezza e vi è pericolo di dannazione.
Tuttavia resta sempre la possibilità di una riparazione
trionfatrice. La generosità e il fervore sono indispensabili per perseverare in
grazia di Dio. Se resistere al consiglio, per sè, non è peccato, tuttavia per accidens, lo stato abituale di
ingenerosità, ossia far pace con le imperfezioni volontarie, porta alla
tiepidezza o alla indifferenza alle cose spirituali (accidia) e al peccato
mortale. Tuttavia resta fermo il principio, contro l’obbligatorismo,
che resistere a un consiglio non è per sè peccato nè veniale nè mortale. Ma può
scaturirne, per accidens, il pericolo
di dannazione, che nasce quando vi è un orientamento stabile e sistematico di
opposizione ai consigli di Dio, che porta all’accidia o disgusto delle cose
spirituali. Tale stato di tiepidezza è più pericoloso di un solo peccato
mortale preso isolatamente, dal quale ci si rialza più umili, ferventi e pii (
vedi San Pietro o David) . Lo stato di tiepidezza non è il rifiuto del meglio
(consiglio) per timore di non farcela, ma è il meglio (consigli) disprezzato
praticamente per accidia, che porta alla sistematica esclusione dei desideri di
Dio, che implica non tener conto nè dei suoi comandamenti nè dei suoi precetti.
Il rifiuto della
vocazione può essere disgiunto dalla tiepidezza
Se il rifiuto fosse determinato dalla paura di non farcela,
potrebbe essere riparato con l’accettazione fervorosa dei precetti di Dio e con
lo spirito dei consigli; se fosse determinato da un motivo peccaminoso attuale,
potrebbe essere riparato, poi, nello stato matrimoniale vissuto santamente
secondo le leggi di Dio. Invece se il rifiuto nasce da uno stato abituale, e
non da un atto, di accidia e tiepidezza, allora tale rifiuto potrebbe essere la
strada che conduce alla dannazione, ma sempre riparabile, con la grazia di Dio
che non è rifiutata a nessuno, uscendo dalla tiepidezza abituale, con la buona
volontà di servire il Signore nello stato in cui ci si trova.
Libertà della sacra
vocazione
La vocazione è libera perchè sovrumana; essa corrisponde non
ad un precetto, ma ad un cosiglio di Dio. La vocazione sacra impone delle
rinunce a tendenze naturalmente fondamentali, e soprannaturalmente lecite
(matrimonio) che ogni uomo ha il diritto di poter soddisfare. Ora l’imposizione
di tali rinunce non è un precetto di Dio, non è un’esigenza della natura, anzi
è il contrario, è una scelta libera del meglio, di corrispondere all’invito di
Dio a uno stato più perfetto, ma più difficile. Se la tesi obbligatorista fosse
vera, Dio direbbe al chiamato: sei libero di accettare la vocazione (si vis),
ma se rifiuti ti nego la grazia sufficente per la salvezza. Così il consiglio
diverrebbe ben più di un singolo precetto: diverrebbe il peccato contro lo
Spirito Santo o l’impenitenza finale.
Stato consacrato e
stato matrimoniale
Nello stato consacrato si ricevono grazie maggiori,
proporzionate all’altezza dello stato in cui ci si trova. Ma vi sono anche
maggiori difficoltà e responsabilità nell’ordine spirituale. Nello stato
matrimoniale vi sono minori grazie, ma anche minori responsabilità nell’ordine
spirituale. Nello stato sacerdotale si ricevono maggiori grazie, corrispondendo
alle quali si giunge a maggior santità. Ma la corrispondenza non è sempre facile,
e siccome solo la corrispondenza alla grazia ci dà le virtù acquisite che danno
la facilità e la prontezza nell’agire bene, ci vuole perciò lo sforzo di
corrispondere. Se manca tale sforzo si può fallire anche nella vocazione.
Inoltre non bisogna cadere nel falso concetto del
miracolismo della grazia di stato, che potrebbe spingere verso il quietismo o
far abbracciare lo stato consacrato quando non si hanno le qualità umane e
naturali prerichieste (salute psico-fisica, intelligenza, moralità stabile e
ben fondata e la purezza d’intenzione) in quanto «la grazia presuppone la natura, non
la distrugge ma la perfeziona (San Tommaso). Qualora manchi una di queste
qualità la vocazione divina è dubbia e «vocazione
dubbia, è vocazione nulla»; in tema
di vocazione l’insegnamento del Magistero (2)
è simile a quello che riguarda i sacramenti, ove se la materia o la forma sono
dubbie o non certamente valide, il sacramento è da ritenersi invalido e non
probabilmente valido; così è per la vocazione. Qualora una carenza di qualità
facesse sorgere il dubbio, si deve dire che la vocazione non sussiste, e
sarebbe scellerato dire che è probabilmente sussistente e inviare al «macello»
un uomo che non ha le capacità per reggere il peso del sacerdozio. Il
benignismo in materia di vocazione lascia, in caso di dubbio, il giovane in
perfetta serenità di poter dire che non se la sente; mentre l’obbligatorismo
che asserisce: se non corrispondi alla chiamata (che peraltro alcune volte è
dubbia) sei dannato, metterà il candidato in un grande stato di agitazione:
egli non potrà scegliere serenamente e liberamente se corrispondere o meno,
essendo è minacciato dalla più grande delle paure, quella della dannazione
eterna.
Vita religiosa e vita
sacerdotale
La vita sacerdotale è la più nobile perchè conferisce il
potere sul corpo fisico di Nostro Signore Gesù Cristo; la vita religiosa,
differisce dalla precedente a causa dei tre voti. Essa pone il chiamato in uno
stato che tende alla perfezione; essa consiste principalmente nell’osservare i
dieci comandamenti e soltanto secondariamente e strumentalmente nell’osservare
i consigli come «removens prohibens» ossia come ciò che aiuta a togliere gli
ostacoli che impedirebbero la vita cristiana e al tempo stesso ci conducono
all’unione con Dio o alla perfezione.
La differenza sostanziale tra queste due vite (religiosa e
sacerdotale) è che lo stato religioso ci mette nel cammino della perfezione
verso la quale si può tendere durante tutta la vita religiosa, lo stato
sacerdotale invece presuppone già la seconda via della vita cristiana, che è
quella dei «proficienti»
o la mistica iniziale (lo stato episcopale la terza via dei «perfetti»
o mistica compiuta). Per di più la vita religiosa difende i chiamati dal mondo,
grazie alla Regola e alla vita in comune; mentre la vita sacerdotale comporta
la rinuncia alle comodità del mondo, ma lascia il prete isolato, in continuo
contatto col mondo, verso il quale deve svolgere un ministero delicatissimo e
pericoloso. Nello stato religioso vi sono meno pericoli, meno responsabilità e
più difese; il sacerdote invece accetta l’ordine sacro per la salvezza delle
anime, e quindi accetta il rischio di dover andare «come gli agnelli in mezzo ai
lupi», con la sperata cooperazione
alla divina chiamata e la eventuale più ricca ricompensa spirituale.
Conclusione
Padre Roothan aveva predicato un turno di esercizi ad una
comunità religiosa; alla fine degli esercizi - racconta Sant’Alfonso - monta a
cavallo e se ne parte, ma lungo la strada si ricorda di aver omesso di predicare
la cosa più importante nella vita spirituale; allora fa marcia indietro,
ritorna al convento, fa suonare la campana e dice ai religiosi accorsi: ho
dimenticato di ricordarvi la cosa più importante: qualunque cosa accada, non
disperate mai!
Mater mea, fiducia mea!
don Curzio Nitoglia
1) Vocazione in
senso stretto è solo quella sacra, per cui non è corretto parlare di
«vocazione al matrimonio», essa è una
tendenza naturale e non una vocazione. Per la stesura di questo articolo mi
sono basato su il libro
«La
sacra vocazione», di monsignor Pier
Carlo Landucci.
2) Istruz. S. C.
dei Sacramenti, 27 dicembre 1930.
Istruz. S. C. dei Religiosi, 1 dicembre 1931.
Istruz. S. C. dei Seminari e delle Università degli studi,
in Osservatore, Romano, 23 ottobre 1952.
Conc. Lat. IV, capitolo XXVII.
Benedetto XIV, Enciclica «Ubi primum», 31 dicembre
1740.
San Pio X, Enciclica «Pieni
l’animo», 28 luglio 1906.
Pio XI, discorso ai Vescovi, 25 luglio 1929 (pellegrinaggio
nazionale dei Seminari).
Istruz. S. C. dei Sacramenti, 1930.
Pio XI, «Ad
catholici sacerdotii», 1935
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