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Le volpi a guardia del pollaio
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Già il rialzo trionfale di Wall Street e delle altre Borse (Fiat +27%!), immediatamente dopo la chiusura del G-20, ci dice la natura del «successo» del vertice strombazzato dai media: hanno vinto loro, gli speculatori colpevoli della rovina. Restano ai loro posti, non devono render conto a nessuno; l’imposizione di regole per le loro agenzie di rating (che loro pagano) è rimandata a un vago futuro, così come la definizione dei requisiti patrimoniali a cui le banche e le banche-ombra devono sottostare. E sui loro «bonus» veglia Draghi, il loro fiduciario: la volpe a guardia del pollaio.

Dov’è dunque il successo del G-20? Si trasecola a leggere il titolone  24 Ore: «Al bando i paradisi fiscali – Svizzera nella lista grigia».

Dunque era la Svizzera, il problema? Sono i paradisi fiscali ad aver acceso mutui subprime ad insolventi per poi rifilarli, sotto forma di obbligazioni, ai migliaia di investitori sedotti dal rating AAA? Erano lì le fabbriche dei derivati, dei Credit Defaults Swaps e degli altri titoli spazzatura che opprimono il mondo? Erano i paradisi fiscali a decretare per anni tassi primari bassissimi onde eccitare l’indebitamento insensato, ad accettare come riserva le «assicurazioni» prodotte dalla AIG? Sono i paradisi fiscali che hanno dato il permesso alle banche commerciali di diventare banche d’affari, e le hanno lasciate crescere fino a diventare «troppo grosse per fallire»?

Ovviamente no. Sono stati gli USA, la Gran Bretagna, le autorità monetarie e quelle di controllo. I paradisi fiscali sono solo una nicchia nel grande casinò chiamato «finanza globale».

E sia pure, almeno sono stati colpiti i paradisi fiscali: è la fine del segreto bancario, questo aiuta la mitica «lotta all’evasione» – due cose che interessano gli Stati sovrani potenti – e forse persino la lotta al riciclaggio, e alle altre forme di delinquenza finanziaria internazionale (rese possibili dalla globalizzazione). Almeno è un «successo» da esibire dopo sole 7 ore di incontri al vertice, di cui tre o quattro in pranzi e foto-ricordo.

E invece no. Anche questo «successo», visto da vicino, mostra la sua natura di mascherata truffaldina. Anzitutto, perchè il termine «paradisi fiscali» mette nello stesso sacco realtà molto diverse: e la Svizzera non è le Isole Cayman, e nemmeno San Marino è Caicos & Vanuatu. La Svizzera, custode proverbiale del segreto bancario, è uno Stato di diritto europeo, ha magistrature a cui ci si può rivolgere; ha inoltre un’economia diversificata, e un sistema tributario che impone tasse ai residenti. Le Cayman, Caycos o Barbados – tutte entità collegate alla sterlina britannica e alla City – sono zone di non-diritto, senza fiscalità, senz’altra attività economica che i traffici finanziari off-shore. Come paradisi, non sono solo «fiscali» ma «criminali», o «del riciclo del denaro sporco».

L’elenco dei «paradisi fiscali» messi in lista grigia o lista nera, poi, rivela alcune falle significative. Non ci sono Hong Kong e Macao, perchè la Cina non ha voluto; il creditore ha esercitato così il suo bruto potere sul debitore, gli USA. Del resto, gli USA hanno il loro tornaconto: nella lista non ci sono il Delaware, il Nevada e lo Wyoming, Stati americani che vietano l’identificazione dei clienti stranieri, e per questo sono sedi di migliaia di società anonime e a responsabilità limitata di dubbia o sospetta natura: sono veri centri off-shore che gli USA si tengono, diciamo così, in-shore.

Il fatto che nelle liste l’Austria e il Lussemburgo siano messi sullo stesso piano di Grenadines e Bermuda, la Turchia insieme con le Isole Vergini inglesi, il Belgio con il Belize, dice chi ha vinto e chi ha perso al G-20.

Hanno vinto gli anglo-americani, i loro clienti e creditori. Hanno perso gli europei. Gli anglo-americani hano protetto i «loro» paradisi fiscali, colpendo i centri finanziari concorrenti.

Si è colpito il segreto bancario della Svizzera, che almeno assicura l’identificazione dell’«avente diritto» dei clienti delle banche; ma Londra non ha bisogno del segreto bancario, perchè il diritto britannico rende anonimi gli «aventi diritto economici» che operano attraverso (e si nascondono dietro) i prestatori di servizi finanziari, protetti a loro volta dall’assenza di ogni regola, in nome del liberismo totale.

Il più grosso «paradiso fiscale» del mondo è la City. E’ chiaro che una lista così selettiva, che non impone a tutti i centri finanziari le stesse restrizioni, ha l’unico effetto – e forse l’unico scopo – di convogliare il denaro sporco (il solo denaro che esiste di questi tempi) dai centri della finanza-ombra europei a quelli anglo-americani (1).

Tutte le altre decisioni del G-20 sono di questo tipo. Così il trilione (mille miliardi) di dollari dotati al Fondo Monetario con la scusa di «finanziare i Paesi emergenti in crisi», nei Paesi emergenti non entreranno nemmeno: servono in realtà a pagare le banche creditrici di quei Paesi, a far apparire «buoni» quei crediti. Gli altri 250 miliardi di dollari per «riattivare il credito al commercio internazionale» significa: o sollevare da ogni rischio le banche prestatrici per indurle a prestare, o addirittura  che gli Stati si mettono al posto delle banche in questa funzione essenziale. Ma allora, a che servono le banche private?

A meno che non mi sia sfuggito, non è stata fatta nemmeno menzione di cosa fare dei derivati. Non un accenno al fatto che cinque sole banche USA,  le più colossali, detengono il 96& delle posizioni in derivati di tutte le altre banche, e l’81% del rischio netto in caso di default.

Le cinque banche sono: JP Morgan Chase, che detiene 88 trilioni di derivati in valori nominali, ossia 88 volte la dotazione del Fondo Monetario. Seguono Bank of America con 38 trilioni, Citibank con 32, Goldman Sachs con 30, Wells Fargo-Wachovia con 5. La sesta è la britannica HSBC che con la sua filiale in USA detiene 3,7 trilioni.

In questo grumo titanico di pseudo-denaro è caricata a molla la prossima crisi, del tutto imparabile, perchè l’aggravarsi dell’economia reale rende ogni giorno più vicino il default: e basta un 10%  di questi valori nozionali per travolgere il PIL americano.

Proprio di questo si fanno forti i colossi: sono loro a dettare al governo Obama le regole, su come vogliono essere salvate. Di norma – persino in USA esistono leggi – questi colossi devono essere messi in procedura fallimentare. I loro attivi e passivi, selezionati da enti indipendenti. I manager che hanno causato il danno, licenziati. Gli azionisti, messi a sostenere le perdite sulle loro scommesse, e in questi casi spazzati via. Le banche così pulite dovrebbero essere spezzate in entità più piccole e queste rivendute sul mercato.

Invece, il piano Geithner sta facendo di tutto per scongiurare proprio questo: pompa denaro pubblico su denaro pubblico per lasciare i manager al loro posto, gli azionisti esenti da perdite, le banche colossali come prima, cioè capaci come prima di minacciare il governo stesso. Il G-20 non ha ottenuto che questi caporioni della finanza cambino il loro «business model» (2).

Del resto, fu Larry Summers, come segretario al Tesoro di Clinton, a cancellare la Glass-Steagal che vietava dal 1933 le fusioni incestuose tra banche commerciali, banche d’affari e assicurazioni; e fu lui, nel 2000, a sottrarre per legge ai controlli pubblici i prodotti derivati. Oggi, Summers è il consigliere economico numero 1 di Obama. Le banche, per far cancellare la Glass-Steagall, spesero 5 miliardi di dollari in lobbying. Si vede che sono soldi bene spesi.

Mario Draghi, ex Goldman Sachs, è stato riconfermato a capo dei Financial Stability Forum, oggi rafforzato ed ampliato. Il suo compito è far credere all’opinione pubblica che gli emolumenti dei banchieri diverranno più ragionevoli, e non incentiveranno i rischi insensati.

C’è da ridere a leggere quel che Draghi promette: «I bonus verranno ridotti in caso di andamento negativo», il che dovrebbe essere lapalissiano. C’è da sbellicarsi quando si legge: «Due dipendenti che generano gli stessi profitti a breve per la loro banca  ma assumono quantità diverse di rischio non dovrebbero essere compensati allo stesso modo».

Scusate, ma «non dovrebbero» è un pio auspicio, non una legge. E poi, in che modo, tecnicamente, ottenere che due che danno «gli stessi profitti» siano pagati in modo diverso? E perchè devono esserci comunque bonus, visto il risultato?

Draghi è lì ad assicurare che i bonus continueranno a correre, che non verranno messi in discussione.

Magari saranno, anzi «dovrebbero essere» – è un auspicio, mica un obbligo – più moderati. E chi controllerà la moderazione?

«Il consiglio d’amministrazione» di ogni banca, e magari un pochino anche gli «organi di vigilanza», come Draghi ha tanto ben vigilato a Bankitalia. Il Financial Stability Forum di cui resta a capo Draghi ha più poteri. Ma sia ben chiaro, «non diventerà un regolatore nè un’autorità di vigilanza» (3).

Cosa farà, allora? Lancerà «pre-allarmi», se gli parrà il caso. Farà rapporti su come sarebbe bella più «cooperazione internazionale» per «gestire le crisi finanziarie», e come le crisi dell’economia reale aggravino la crisi delle banche (no, non il contrario). Insomma, come sempre ha fatto Draghi, filosofeggerà e darà lezioni ai governi, sul tema più caro ai banchieri centrali con poltrona fissa a Goldman Sachs: scappati i buoi, il vigilante prega di chiudere la porta.

Poi sì, proprio alla fine dell’articolo di 24 Ore in lode del Venerato Maestro, si promette «la revisione dei requisiti di capitale delle banche (ossia l’aumento delle riserve obbligatorie), la riduzione della leva finanziaria da parte delle banche, l’accantonamento in vista di perdite attese».

Sono tutti auspici, nulla di cogente. Sono le cose che Draghi farà, un giorno. No, ora no: aumento delle riserve, degli accantonamenti e riduzione della leva debitoria farebbero male alle banche, perchè sono in crisi, non lo sapete? E sui lavoratori? Sulle aziende che chiudono?

Non c’è nulla, proprio nulla che li autorizzi a sperare. Nulla di ciò che è stato deciso al G-20 è inteso a rendere meno grave la recessione e il disastro sociale, che sono lasciati ai governi locali.

Magari un po’ di iper-inflazione, questa sì lorsignori possono permettersela; così i lavoratori diventano frenetici, sgobbano di più nello sforzo di compensare, accelerando il lavoro, la perdita del valore d’acquisto del salario.

Ma infine no, qualcosa hanno detto ai disoccupati e alle aziende: «No al protezionismo». Per il resto, godetevi la più grande depressione della storia. Lo spettacolo è appena cominciato.




1) Philippe Braillard, «La déplorable mascarade de la lutte contre les paradis fiscaux», La Tribune, 2 aprile 2009.
2) William Engdahl, «Geithner's 'Dirty Little Secret': The Entire Global Financial System Is At Risk - When the Solution to the Financial Crisis becomes the Cause», GlobalResearch, 31 marzo 2009.
3) Alessandro Merli, «Draghi: saremo più rigorosi contro i superstipendi», 24 Ore, 3 aprile 2009.


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