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Fraternità San Pio X: timori e speranze
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E’ passato sufficiente tempo perché si possa cominciare a parlarne. Ciò che è accaduto dopo la revoca della scomunica ai 4 vescovi lefebvriani è stato variamente commentato, anche troppo e spesso a sproposito. La notizia è stata tenuta artificialmente viva per diversi giorni: gli starnuti di monsignor Williamson hanno rischiato di divenire «crimini contro l’umanità», mentre non è bastato a don Floriano Abrahamovicz ricordare le sue origini ebraiche per sottrarsi alla gogna mediatica e all’infamante insulto di «negazionista». Ad entrambi non si può non rimproverare una certa mancanza di prudenza, ma è certo che la notizia sarebbe stata comunque fabbricata. Peccato talvolta aver fornito agli avversari un assist a porta vuota. Valga per la prossima: nessuna dichiarazione che non sia eventualmente quella ufficiale, silenzio e preghiera, le uniche due cose che non possono essere manipolate, le uniche che consentono di limitare i danni ed ottenere aiuto da Dio. Penso che su questa questione dovremo più volte ritornare, perché presenta aspetti molto complessi.

Partiamo dal primo: oramai è chiaro a tutti che la battaglia è stata tutta interna, interna alla Chiesa. Le comunità ebraiche hanno speculato su tutto lo speculabile, ma nulla avrebbero potuto, se non avessero quinte colonne dentro la Chiesa: a loro non rimprovero nulla, hanno fatto il loro mestiere. Sapevano di potere contare su chi, da dentro la Chiesa, ha scatenato contro Ratzinger una battaglia senza precedenti. Il motivo è semplice, ontologico: il ritorno della Messa Antica prima e della Fraternità San Pio X poi significano re-innestare efficacemente nel corpo Mistico di Cristo, che è la Chiesa, malato e debilitato dall’errore, l’efficace medicina del Sacrificio eucaristico e la cura amorevole dell’autentico ministero sacerdotale.

Che l’imboscata fosse portata contro il Papa e il Suo magistero, è stato lo stesso Ratzinger ad ammetterlo nella lettera del 10 marzo 2009 ai vescovi della Chiesa cattolica, in risposta alle molte proteste pervenute contro la sua decisione di revocare la scomunica dei quattro vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre: «Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco». Nella lettera indirizzata ai vescovi ci sono tutte le difficoltà e le speranze che la revoca di questa scomunica porta con sé.

Parto dalle difficoltà: il Papa chiarisce che «finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa. … finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri - anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica - non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa».

In secondo luogo le posizioni della Fraternità appaiono talvolta agli occhi del Papa inaccettabili: «Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate - superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc».

In terzo luogo nessuno può umanamente immaginare come realistica un’auto da fe’ pontificia, che immagini di cancellare con una pubblica abiura o con un tratto di penna quarant’anni di vita ecclesiale. Scrive il Papa: «Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 - ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità».

Infine - e questa è l’espressione forse più dura - la vocazione sacerdotale di molti membri della Fraternità sarebbe, secondo Ratzinger, caratterizzata da «diversi elementi distorti e malati, ma (…) non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura?».

Accanto alle difficoltà, ci sono poi i rischi: in alcuni passi della lettera che il Papa rivolge ai vescovi c’è quasi una rassicurazione verso costoro, invitati a desistere dall’ostilità verso il ritorno dei «lefebvriani», nella consapevolezza che lentamente la loro posizione si andrà normalizzando entro la Chiesa. Si domanda Ratzinger: «Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti così che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme». Ovvio che il rischio di essere riassorbiti e metabolizzati nel grande ventre molle dell’ecclesiologia post-conciliare è reale.

Oltre alle difficoltà c’è un a questione metodologica: per una curiosa ironia della sorte, il Papa ammette di avere applicato ai «lefebvriani» due strumenti tipicamente conciliari: la «medicina della misericordia» e l’ecumenismo.

Sul primo punto scrive infatti: «Un’ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perché mette in questione l’unità del collegio episcopale con il Papa. Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità. A vent’anni dalle Ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto. La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro vescovi ancora una volta al ritorno». Ed in un altro punto, parlando delle priorità dell’agire del Pontefice egli scrive che «lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani - per l’ecumenismo - è incluso nella priorità suprema».

Metodologicamente che i «lefebvriani» vengano «riammessi» in nome dell’ecumenismo mediante la «medicina della misericordia» può suonare loro persino come una beffa: i pochi, se non gli unici, che non hanno mai deflettuto dalla Verità si troverebbero ad essere «riammessi» per misericordia in una Chiesa in cui l’ambiguità dottrinale dilaga? Che poi la moneta che ha pagato, quella cioè che ha indotto Roma ad una revoca unilaterale della scomunica, sia stata - per ammissione papale - la fermezza dimostrata dalla Fraternità ed il fatto che costoro, pur nella sofferenza, non abbiano considerato quella scomunica più importante della Verità, potrebbe favorire posizioni certo meno dialoganti, rispetto a quelle di monsignor Fellay.

Se davvero - come credo - l’intenzione vera del Pontefice è quella di una riconciliazione nella Verità, allora bisogna che qualcuno informi il Papa che la «base» dei sacerdoti e dei fedeli tradizionalisti non è così pacificamente allineata al suo Superiore Generale e che teme qualche «trappola»: è normale in una Comunità, come quella lefebvriana, che ha patito ingiustizie e che per amore della Verità ha vissuto per trent’anni come «bandita» dalla/nella Chiesa. I fedeli non potrebbero accettare che la Tradizione sia accettata da Roma con qualche decennio di ritardo alla stregua di una delle molte «correnti ecclesiali», con un proprio «folkloristico» e fascinoso Rito Antico. La Tradizione non è una corrente ecclesiale, è la linfa vitale della Chiesa stessa.

Proprio da qui cominciano le speranze, perché queste sono le parole del Papa: «Ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive».

La «scuola bolognese» è di nuovo servita. L’ermeneutica della continuità è uno dei leiv-motiv di questo Pontificato: smentendo tutti i saccenti vaticanisti, che avevano preconizzato un Benedetto XVI ben diverso dal cardinale Ratzinger, possiamo affermare che nulla del Pontificato di Ratzinger è invece improvvisato, ma tutto costituisce l’applicazione sistematica delle sue riflessioni di vescovo, cardinale e prefetto della Congregazione della Dottrina per la Fede.

Ratzinger tuttavia sembra offrire rassicurazioni sul punto, dicendo addirittura che la fedeltà al Concilio passa solo attraverso la fedeltà alla Tradizione. E questo - lo dicevo già in un mio precedente intervento - ha un significato programmatico, perché per lui tutto quello che si è venuto costruendo dopo il Concilio, ma senza uno sviluppo organico con la Tradizione, può essere rimosso. Ad esempio l’annuncio ufficiale di collegare «in futuro la Pontificia Commissione ‘Ecclesia Dei’ - istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col Papa - con la Congregazione per la Dottrina della Fede», sarebbe il preludio per arrivare ad un nuovo «Rito romano», che da un lato superi il Messale di Paolo VI e Giovanni Paolo II (conservando quello di San Pio V, riformato da Giovanni XXXIII e da ultimo dallo stesso Benedetto XVI per quei movimenti o gruppi che lo chiedano come dispensa) e dall’altro obbligando tutti, Fraternità San Pio X compresa, a riconoscere come valido quello che sarà il nuovo «Novus Ordo» riformato alla luce della Tradizione. Se il Papa decidesse di sacrificare «l’idolo dei progressisti», cioè il Novus Ordo uscito dalla riforma Bugnini, questo non potrebbe essere ignorato dai fedeli della Fraternità.

Il Papa avverte la sofferenza e la volontà di comunione dei seguaci di monsignor Lefebvre e teme la deriva, inevitabile, di chi, staccatosi dalla Chiesa in nome di una Tradizione più autentica, è divenuto poi suo malgrado più protestante dei Protestanti: la miserevole fine dei cosiddetti Vecchi cattolici, che al termine del Vaticano I rifiutarono il dogma dell’infallibilità pontificia ne è l’esempio più lampante (costoro riconoscono il Vescovo di Roma come Patriarca d’Occidente, al quale appartiene solo il Primato d’Onore, professano la fede dei primi sette Concili Ecumenici, respingono la dichiarazione di Pio IX dell’anno 1854 sull’Immacolato Concepimento di Maria e la sua ascensione con il corpo al Cielo,  non condividono il concetto «filioque», cioè che lo Spirito Santo procede anche dal Figlio, conferiscono il sacramento del sacerdozio anche alle donne in tutti i tre gradi (diaconato-sacerdozio-episcopato), permettono il rito della confessione collettiva e in certi casi, in base al permesso del vescovo, consentono di celebrare un nuovo matrimonio in Chiesa per i divorziati).

Così il Papa, parlando dei membri della Fraternità, confessa: «Per amore della Verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori (…) Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente. Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi?».

Già, che ne sarà? Rispetto ai «lefebvriani», io forse non riesco a leggerne i problemi in profondità, ma condivido i toni misurati di monsignor Fellay. Penso sia stato giusto non cadere nella trappola delle provocazioni formali, badando alla sostanza e al fatto che  questi stessi toni hanno portato il Vaticano ad ammettere come necessaria la revoca della scomunica: mitezza e fermezza non sono in contraddizione. Per anni si è detto di volere con Roma un chiarimento dottrinale: come è possibile farlo, se non abbassando per un attimo i toni, per verificare davvero la buona volontà della controparte? Per fare un lungo cammino, bisogno o no cominciare almeno con un primo passo? E’ possibile per la Fraternità proclamare (senza lasciarsi intrappolare da derive storiche che non le competono) le pure Verità della Fede con pacatezza? E’ possibile farlo anche se è stata revocata la scomunica, oppure la revoca della scomunica deve essere paradossalmente interpretata come un  cedimento verso la «Roma modernista»? E’ possibile iniziare un dialogo, tenendo conto anche delle difficoltà della controparte, che in questo caso è il Papa? E’ possibile farlo con realismo e con amore verso il Papa?

Sono domande legittime, perché la dolorosa frattura manifestatasi talvolta all’interno dei gruppi tradizionalisti non giova a salvare la Fede e può anzi rafforzare i nemici della Fede. La lunga battaglia di monsignor Lefebvre non avrebbe mai potuto avere come fine quello di mantenere la Verità, ma in una Chiesa parallela, né di uscire dalla Chiesa come i primi cristiani uscirono dalla Sinagoga, autoproclamandosi Chiesa: ciò paradossalmente rafforzerebbe l’idea di chi sostiene che la Chiesa di Cristo esiste anche fuori della Chiesa cattolica. Tutta l’azione di monsignor Lefebvre era ispirata dalla volontà e dalla preghiera a Dio, affinché la Chiesa potesse un giorno ritrovare se stessa.

Io capisco l’angoscia di molti fedeli circa il rischio di essere riassorbiti dall’eresia modernista. Tuttavia dovrebbero costoro ricordare che il Pastore, quello buono, non si affanna per le 99 pecorelle che sono nell’ovile, ma per quella smarrita. Figuriamoci oggi, che le pecore smarrite sono 99… Diciamo la verità: ho avuto la sensazione che molti tra i tradizionalisti, mentre magari obtorto collo plaudivano al Motu proprio ed al ritiro della scomunica, ne abbiano in realtà avuto paura.
Per una sottile ironia della storia, mentre con argomenti e metodi infami venivano accusati di antisemitismo, molti tra i tradizionalisti avevano verso l’ipotesi di riconciliazione con Roma analogo atteggiamento che i rabbini del XVIII secolo ebbero nei confronti dell’Haskalà, e dell’emancipazione: timorosi di perdere i propri correligionari, essi rimpiangevano i tempi in cui l’identità ebraica era garantita dall’emarginazione del ghetto.

Io capisco appieno le preoccupazioni di vedere dissolta in un facile irenismo l’ascesi di chi ha patito ingiuste persecuzioni per amore della Fede e tuttavia ad ognuno deve essere chiaro che, se il Papa ha deciso una revoca unilaterale della scomunica, ciò è derivato dalla consapevolezza che quella scomunica era lo stigma più evidente che la Chiesa aveva sbagliato, scomunicando se stessa. Ratzinger lo aveva sempre saputo, da quando era cardinale: i tradizionalisti erano e sono la cattiva coscienza della Chiesa post-conciliare. Ora non si può pretendere che il Papa faccia di più di quello che ha fin qui fatto, non gli si può chiedere una sorta di umiliazione pubblica: basti per ora il fatto che unilateralmente ed assumendosi il peso di questa decisione, egli ha tolto la scomunica. Di qui rallegrati si inizino le necessarie discussioni dottrinali, ove la Fraternità non rappresenterà se stessa, ma tutti noi.

Il senso vero, misterico, per cui il Signore ha voluto e benedetto la Fraternità San Pio X non era quello di farne un’enclave di «Catari della Tradizione», ma di offrire rifugio al «seme buono» perché potesse un giorno di nuovo essere seminato. Occorrerà avere la pazienza di vederlo crescere, occorrerà ricordarsi che il seme non è stato affidato per sé: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire mi segua e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà. Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!». Questo brano del Vangelo segue quello dell’entrata trionfale a Gerusalemme, quando la folla sembra riconoscere in Gesù il Messia atteso. E’allora che il Cristo rifiuta il giudizio del tribunale della Storia (che, a fronte delle trionfali apparenze di quei giorni, è ingannevole) per preparare il Giudizio che passerà attraverso la Croce: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, porta molto frutto».

Gli ebrei sognavano un messia nazionale, guerriero e vittorioso; la salvezza è venuta invece per tutti dalla Croce, accettata come volontà del Padre! Noi crediamo in Cristo crocifisso «scandalo per i Giudei e follia per i pagani» dice San Paolo. Attraverso la Croce, Gesù ha redento gli uomini: «quando sarò innalzato da terra attirerò a me tutti gli uomini».

La testimonianza della Fraternità San Pio X è stata proprio testimonianza contro la logica del mondo, per questo Dio ne ha benedetto l’opera. Ma non è ancora giunta l’ora della gloria, che non sarà di questo mondo: qui siamo ancora «servi inutili». Nella Chiesa, per la Chiesa essi sono chiamati ad essere il seme buono destinato a portare molto frutto. Contro talune divisioni che ora oppongono talvolta gli uni agli altri, dentro la Chiesa ora sarebbe bene che in umiltà ed obbedienza reciproca, essi, analogamente a quanto il Papa ha fatto con i vescovi,  meditassero sulle parole di San Paolo ai Galati: «Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!».

Monsignor Lefebvre non lo avrebbe voluto.

Domenico Savino



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