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Il cafone sismico. E cosmico
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Nella profluvie mediatico-televisiva indecente e lacrimosa che è stata versata sul terremoto dell’Aquila, le notizie vere vengono dai non-giornalisti.

In una radio sento l’intervento un ascoltatore, giovane ingegnere. Dice: noi ingegneri sappiamo come si costruisce in zona sismica; ma il problema sono gli impresari edili, quelli che hanno vinto l’appalto, e che di fatto sono i padroni da cui dipendiamo. Questi, costruiscono «come sanno»; ossia come hanno imparato, al massimo, in un corso di geometra in cui si sono diplomati trent’anni orsono...

Non trovo ritratto più folgorante del sistema dirigente italiano, la causa vera della nostra sciagura ricorrente, sismica e urbanistica. Siamo un Paese che non solo non permette che i competenti comandino, ma nemmeno se ne serve; nemmeno ascolta i loro suggerimenti, nemmeno dà loro voce in capitolo. Prima che la disonestà dell’impresario, viene l’ignoranza dell’impresario. Ignoranza soddisfatta di sè, assertiva: qui si costruisce come ho sempre fatto io – che vuol dire: chi se ne frega di quel che fanno in Giappone, non mi interessa, non mi incuriosisce, io non lo voglio sapere, ho già imparato abbastanza all’istituto tecnico trent’anni fa. La sua «abilità» edile, del resto, da trent’anni consiste essenzialmente nell’ammanicarsi con la «politica locale», nell’aggiudicarsi l’appalto e i soldi, spesso il subappalto di terzo livello, e soldi pochi.

Chiusura ermetica alle idee innovative, mancanza di aggiornamento, scarso repertorio di curiosità e interessi, cortezza di vedute, furbizia meschina che si rivela stupidità, assenza di gusto e povertà di esigenze: tutto questo indica il ritratto del «cafone», e mostra l’Italia come il luogo del potere dei cafoni. Un potere denso, invincibile, rovinoso per il paesaggio civile come per quello panoramico, e per la statica immobiliare. L’enigma italiano è la persistenza del cafone, e la sua ascesa là dove non dovrebbe.

Perchè il cafone è una figura rurale; come ho già raccontato altrove (1), non è il contadino – che è un competente agricolo – ma il bracciante a giornata. Esisteva come figura servile del latifondo. Ma invece è sopravvissuto al latifondo meridionale, ed è asceso al potere – restando cafone, ossia senza curiosità e con poche nozioni, nessun senso di responsabilità e nessuna competenza.

Che ridicola tragedia: basta un terremoto di modesta potenza, e l’opera del cafone si rivela assassina. In questo senso, il terremoto dell’Aquila mi pare un argomento fortissimo contro il «federalismo».

Altrove, significa forse portare il potere più vicino al cittadino, dunque meno impersonale e burocratico, e più controllabile dal basso. Ma in Italia, significa semplicemente dare ancor più potere ai cafoni. La dimensione «locale» è per natura quella dove il cafone fiorisce, la sola dove sta a suo agio, dove parla il dialetto senza sentirsi in soggezione di fronte ai competenti «venuti da fuori» e dove non gli sfuggono i rapporti, per lui troppo complessi e dinamici, che si creano nella società moderna, urbana o addirittura nazionale o globale. Per contro, nel «locale» è avvantaggiato su chi «viene da fuori», perchè conosce e capisce meglio di quello i rapporti fittissimi che si instaurano in una società arretrata, e per cui il cafone ha una vivissima sensibilità: le parentele, gli apparentamenti, i gradi di cuginanza – ciò che il cafone esprime col detto «qui siamo tutti una famiglia» – i rapporti di potere locali, le inimicizie che magari si mascherano da «opposizione democratica» ma derivano da antichissime frodi su pietre confinarie, usucapioni contestate, tagli di olivi o nocciole e simili meschinità rurali.

Il cafone ha orizzonti minimi, e perciò il suo ambiente per essenza è «locale». Persino le sue avidità e disonestà sono microscopiche e si contentano di uno spazio esiguo.

E’ la tipica tragedia del sud: chi ha una visione più ampia, un più ampio repertorio di curiosità e di esigenze, deve «andare in città», o «nel Nord»; ciò depaupera ancor più le già scarse competenze «locali», ma consolida la rete dei cafoni che restano, che non si sentono più giudicati nè spinti a una vita più esigente. Ma anche nel Nord mediamente più civile ed efficiente, appena è emersa una volontà localista e particolarista, è emerso Bossi coi suoi leghisti, ossia la figura insospettata del cafone del Nord. Quello che vuol moltiplicare le provincie per moltiplicare i «posti»; che per furbizia fa spendere 400 milioni di euro in una doppia votazione anzichè in un solo «election day», perchè spera che non raggiunga il quorum un referendum che non piace al capo-cafone; con ciò, s’intende, smentendo senza nemmeno capirlo la sua pretesa di essere classe dirigente, o in ogni caso più competente o meritoria dei «terroni».

In zona sismica, la calda, cordiale rete familiare tessuta dai cafoni provinciali mostra tutta la sua pericolosità. L’ospedale non ha l’agibilità, la casa non è costruita in regola? L’autorità competente addetta al controllo è «locale», ossia cafonesca, e non reagisce. Magari non per dichiarata disonestà, ma per «buon cuore». Qui, siamo tutti una famiglia; il funzionazio della ASL non se la sente di multare il costruttore locale – è un cognato – nè di imporre le insuperabili esigenze della legge al primario o al sindaco o al piccolo impresario locale – è stato al matrimonio della figlia, ci ha ricoverato il nipote senza lista d’attesa... Perchè farsi dei nemici in un posto dove si vive tanto bene, «come in famiglia»?

A livello locale, provinciale, comunale, cessa di funzionare anche la (supposta) funzione dell’opposizione politica, ossia la sorveglianza sugli atti del governicchio locale, e la denuncia degli abusi. Far mandare in galera un assessore dell’altra parte? Il preside che ha fatto costruire quella casa dello studente? Mai più: anche dall’altra parte abbiamo cognati, nuore, padrini di cresima. Si trova un accomodamento: chiudo un occhio, domani possiamo aver bisogno «noi»...

Tanto più che maggioranza cafona ed opposizione cafona, per non parlare della cittadinanza locale cafona, sanno di dover essere alleate davanti a un pericolo comune, che le minaccia entrambe: l’apparizione del competente. Sulla scena locale, così morbida e familiare, il competente è un disturbo, e ci si coalizza spontaneamente per impedirgli non solo di comandare – questo mai – ma persino di aver voce in capitolo.

Il competente mette in soggezione sindaco e capo dell’opposizione, ugualmente. E’ al corrente di quel che si fa in Giappone (pensa tu...). Ma soprattutto, l’ingegnere competente conosce le leggi, e vuole che vi si obbedisca: non le leggi del Parlamento, sia chiaro, che tutti sappiamo arbitrarie, fatte solo per farci spendere dei soldi. Quello pretende obbedienza alle «leggi della fisica», della statica e della scienza dei materiali. Leggi per le quali, secondo lui, non si può trovare un accomodamento, un addolcimento «così, fra di noi». Per l’appalto o il subappalto, che ci serve l’ingegnere che parla in lingua e nomina le scoperte del Giappone?

Scegliamo Santino, che è nato muratore ed oggi ha una bella impresina, è pure cognato dell’assessore; ha bisogno di lavorare e sà come si fa, e fa spendere poco. Così si lavora, da noi. Santino ha sempre fatto benissimo, con metà del cemento preteso dall’ingegnere.

Voi mi direte: esistono anche competenti disonesti e coglioni. Esistono sì, ma sono più rari appunto perchè, se disconoscono le leggi dello Stato, temono almeno le leggi della fisica. Nel «locale», i competenti disonesti bisogna formarli, o cercarli altrove: ho visto che all’Aquila, l’ospedale l’ha fatto e certificato un docente di urbanistica che stava a Roma. Il «locale» promuove questo tipo di competenti, per questo in Italia ne abbiamo un gran numero.

Poi arriva un terremoto modesto, e sono 300 morti, e gli altri sotto le tende in attesa della ricostruzione, a invocare «Stato aiutaci». Lì, sotto le tende, il cafone mostra tutta la sua antica virtù, che estasia i giornalisti (cafoni) delle TV: aiuto e solidarietà reciproca, propensione a faticare, fatalismo, pazienza e sopportazione. Sono una famiglia, davvero. Chiedono poco, un po’ di riscaldamento e una TV per vedere – no, non come si fa in Giappone, ma la partita.

Il cafone non ha grandi curiosità nè esigenze spaziose. Tutto ciò è bello e commovente, ed è veramente  il meglio che l’Italia sappia dare. Tanto, ancora per poche settimane i media racconteranno della «corruzione» del potere «locale», i giudici prometteranno fulmini e galera per i «corrotti» che mescolavano troppa sabbia a poco cemento. Poi smetteranno, e comincerà la «ricostruzione», i sub-appalti, le «normative» su cui chiudere un occhio, e allora la rete familiare locale, che è così offensivo chiamare corrotta, riavrà la meglio.

Sempre alla radio, sento Zamberletti raccontare quanto segue: fra i documenti di non so quale municipio della Carnia raso al suolo dal terremoto del Friuli, trovò un diploma che conferiva la cittadinanza onoraria a un parlamentare. Quale merito s’era guadagnato il politico? Era riuscito a far depennare dall’elenco dei comuni a rischio sismico la cittadina, facendo così risparmiare agli edili locali i sovraccosti relativi, e al Comune la responsabilità. La cittadina era distrutta; quella vicina, inserita nell’elenco perchè senza santo in paradiso, era stata risparmiata dal terremoto, tutta in piedi.

Non è uno splendido apologo italiano? Cittadinanza onoraria per il furbo che ci ha messo in pericolo, su nostra insistente richiesta... Cafone d’onore, si può dire.

C’è da tremare a pensare al «federalismo compiuto», a come renderà l’Italia. Altro che potere locale ai locali; qui ci vorrebbe, per ogni Paese o città di provincia, un podestà estraneo alla calda rete familista cafona.

Le Città-Stato rinascimentali, perennemente dilaniate dalla guerra fra vicini (la sola che agli italiani piaccia) – guelfi e ghibellini, bianchi e neri, Milan e Inter, fate voi, erano solo pretesti «politici» per faide tribali cafone – ogni tanto chiamavano e stipendiavano dei podestà «da fuori», estranei alle faide, senza generi e nuore locali, perchè le governasse. Nel '300 Firenze, il comune ricchissimo, disperato per le faide e tartassato dai suoi banchieri, chiamò addirittura un francese, Walter de Brienne. Esistevano allora podestà itineranti, una vera professione, che andavano su richiesta a governare città che non riuscivano più a governarsi da sole, tanto s’erano invelenite nella dimensione «locale». Praticamente, le Città-Stato si facevano volontariamente commissariare.

Dante dà la colpa della ingovernabilità di Firenze a «la gente nova e i subiti guadagni», ossia ai cafoni risaliti e arricchiti; ma evidentemente lo spessore dello strato cafone non era ancora del tutto impermeabile ed ermetico, visto che le cittadinanze avevano la coscienza e l’umiltà di ammettere di aver bisogno di essere governate da sopra e da fuori; e l’edilizia era bella e nobile, e si chiamavano pittori, scultori e architetti – competenti – che erano il meglio sul mercato. Niente di paragonabile alle «ricostruzioni».

Oggi, ci avete fatto caso?, il «mercato immobiliare» riflette questa sventatezza cafona che si crede furba. Nei prezzi del «mercato» – quanto ti chiede il costruttore al metro quadro – la qualità costruttiva non entra per nulla. Una stamberga anni '40 costa in base alla sua «posizione», carissima se è «centralissima» o «panoramica», nè il fatto che sia fabbricata male riduce il prezzo. E noi, felici, compriamo non un immobile ma una «posizione», senza chiedere se, poi, la casa magari ci crollerà addosso.

Compratori cafoni per venditori cafoni: la legge della domanda e dell’offerta cafona, ecco una legge ferreamente rispettata.

C’è qualche rimedio? Qualcuno ha idee per una soluzione? Resto in attesa.




1)
Vedi il mio «Selvaggi col telefonino», e in particolare il capitolo sui «Fellah urbani».


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