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Demografia e bugie
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«Fra pochi anni», predisse qualche tempo fa Daniel Pipes (un neocon) «le grandi cattedrali d’Europa appariranno come le vestigia di una civiltà anteriore, fino a quando un regime di tipo saudita le trasformerà in moschee, o un governo talebano le farà saltare».

L’allarmismo demografico ha sempre buon gioco nel vuoto intellettuale di massa. Solide certezze vengono periodicamente strillate: i musulmani ci seppelliranno con la loro alta natalità; nel mondo saremo presto 9.3 miliardi, cresce paurosamente la popolazione del terzo mondo, tutti futuri immigrati clandestini.

Ora si apprende che le ultime e più precise valutazioni dell’ONU smentiscono questi luoghi comuni (1). Con sorpresa degli stessi demografi, l’Europa del nord s’è messa a fare più figli. Francia, USA e Gran Bretagna aumenteranno la loro popolazione in modo continuo. Per contro, in Cina la popolazione diminuisce molto velocemente o (il che è lo stesso) invecchia a ritmo sorprendentemente accelerato; e la natalità decresce in Asia, America Latina e Medio Oriente. Nel 2050, è possibile che nascano quasi tanti bambini cinesi quanti nord-americani.

Cosa è accaduto?

Le proiezioni dei demografi sono viziate da una incertezza fondamentale: la decisione di mettere al mondo un figlio dipende da poco calcolabili fattori personali e sociali, che per di più cambiano di continuo. Politiche sociali a favore dei figli (come in Francia) cambiano il quadro entro poche generazioni. Inoltre, le propriezioni dipendono dall’ideologia di chi le calcola: se più o meno anti-natalista, per esempio. Nel 1998, le valutazioni ONU asserivano che nel 2050 la popolazione del pianeta sarebbe stata di 8,9 miliardi. Nel 2000, l’ONU corresse: saremo 9,3 miliardi (due Brasile in più). Oggi, l’ONU prevede 9,1 miliardi. Proiezioni che, in realtà, variano secondo chi le elabora da 8,1, a 19 miliardi e passa.

Si tenga presente che, perchè una popolazione resti stabile, bisogna che ogni donna abbia durante la sua vita  2,1 figli (il cosiddetto tasso di rimpiazzo). Una delle più recenti proiezioni dell’ONU prevede per il 2050 che il tasso di rimpiazzo sarà - a livello globale - di 2,02, e che a fine secolo sarà sceso a 1,85, e insomma la popolazione mondiale decrescerà.

Una delle scoperte inattese è il calo della fertilità delle donne musulmane stanziate in Europa. Solo alcuni Paesi registrano questo genere di dati nelle statistiche. Ma tra i pochi, c’è l’Olanda: e qui, tra il 1990 e il 2005, la fertilità delle donne immigrate dal Marocco è passata da 4,9 figli per donna a 2,9. Per le immigrate turche, la fertilità è passata da 3,2 a 1,9, molto sotto il tasso di rimpiazzo. Nel 1970, in Germania, le donne di origine turca avevano due bambini più delle donne nate tedesche; nel ‘96, un figlio in più; oggi, solo mezzo figlio in più.

In generale, i tassi di fertilità delle immigrate diventa uguale a quello delle native nel giro di un paio di generazioni. Sintomo di importanti effetti culturali che agiscono sulle immigrate, quali l’istruzione universale femminile, l’aumento del tenore di vita, e l’adesione ai costumi locali (fra cui la contraccezione facile).

Ma la sospresa è scoprire che la natalità decresce rapidamente anche nei Paesi islamici. Dove non c’è (o così si ritiene) contaminazione culturale dall’Occidentale, e dove metà della popolazione è sotto i 20 anni, quindi nella massima fertilità. In realtà, in Tunisia, negli Emirati, in Kuweit e in Libano la fertilità è scesa a livelli quasi europei. Algeria e Marocco hanno un tasso di 2,4 e stanno velocemente scendendo al tasso di rimpiazzo. La Turchia percorre la stessa strada - in discesa.

In Indonesia (il Paese con la più grande popolazione musulmana), secondo l’«UN World’s Population Prospects Report 2008», tra il 2010 e il 2015 il tasso di fertilità sarà sceso a 2,02, lievemente sotto il tasso di rimpiazzo. In Bangladesh la fertilità di ogni donna sarà allora di 2,2, e in Malaysia di 2,35. Entro il 2050 anche il Pakistan avrà raggiunto la fertilità di rimpiazzo (2,1).

Impressionante il declino dell’Iran: quando andò al potere il regime degli ayatollah 30 anni fa, il tasso di fertilità di ogni donna era 6,5; nel 2000, è calato a 2,2; oggi, è a 1,7, (tassi «italiani»).

Solo due popolazioni hanno ancora un alto tasso di fertilità nel mondo islamico: palestinesi e  yemeniti.

Ciò avrà un effetto rivoluzionario e imprevisto: entro il 2020, il «cuore» dell’Islam si sarà spostato (almeno demograficamente) dal Medio Oriente all’Africa sub-sahariana, dove la popolazione attuale sarà cresciuta, dagli 800 milioni attuali, a 1,7 miliardi del 2050 (e forse a 3 miliardi a fine secolo). Niger, Mali, Burkina Faso e Senegal mantengono un tasso di fertilità sopra i 4 figli per donna. E sono i Paesi più poveri, quelli dove l’assistenza sanitaria e l’istruzione pubblica sono poco o nulla presenti.

La demografia dislocherà anche il cristianesimo, nelle sue varie denominazioni. Nel 2025 i cristiani africani saranno tanti quanti i cristiani in Sudamerica (sui 640 milioni); nel 2050, è quasi certo che la maggioranza dei cristiani abiterà in Africa. Kinshasa sarà uno dei centri della nuova universalità cristiana.

Per contro, la Gran Bretagna ha visto crescere il suo tasso di fertilità da 1,6 a 1,9, e ciò in soli sei anni. L’aumento è dovuto agli immigrati musulmani? Sì, ma non solo: anche agli europei dell’est (da soli, hanno contribuito per un  terzo al piccolo «baby boom» attuale in Scozia) e, evento del tutto imprevisto, a un robusto contributo di donne inglesi fra i 30 e i 40 anni. Fatto sta che l’Inghilterra ritiene che la sua popolazione crescerà, dai 60 milioni d’oggi, ai 75 nel 2050. E che la Sanità Pubblica (National Health Service) si trova a corto di levatrici nuove, e offre persino un premio di 5 mila euro alle levatrici anziane, perchè non vadano in pensione.

La Francia ha conosciuto una simile ripresa: il tasso di natalità, che era di 1,7 figli per donna nel 1993, è salito a 2,1 (il tasso di rimpiazzo) dal 2007; e ciò (chi l’avrebbe detto) nonostante il crollo della fertilità delle immigrate. In Svezia, il tasso di fertilità continua a crescere dal 2004 ad oggi. In Germania, la ministra della famiglia, Ursula von der Leyen, ha annnunciato nel febbraio scorso che le nuove nascite sono in crescita continua da due anni.

E l’Italia?

Come tutta l’Europa meridionale, continua a decrescere - o a crescere per l’apporto demografico determinante degli immigrati. La causa, la mancanza di politiche sociali pro-famiglia. Non siamo molto lontani dall’esempio rovinoso dell’Ucraina, che ha oggi 46 milioni di abitanti, e nel 2050 potrebbe averne non più di una trentina (là, non ci sono immigrazioni di massa).

La Russia è notoriamente vittima di una tragedia demografica: alla bassa natalità si coniuga un’altissima ipermortalità (da 3 a 5 volte superiore alla media di Paesi simili per gli uomini, il doppio per le donne), dovuta essenzialmente all’alcolismo, al degrado del sistema sanitario post-sovietico, alla diffusione di malattie come l’AIDS. E’ possibile che tra un decennio, la popolazione russa in età di lavoro scompaia al ritmo di un milione in meno ogni anno.

La scarsa natalità di Paesi come l’Italia, con costosi sistemi sociali, ha rilevanti effetti sul costo del lavoro. Specie quando, come da noi (e nell’Europa continentale in genere) vige un sistema pensionistico «a ripartizione», dove cioè sono i lavoratori a pagare i pensionati, con prelievo dalle loro paghe. Se il livello di fertilità rimane a 2,1 (tasso di rimpiazzo), e si va in pensione a 60 anni (per morire poi a 78), il prelievo è «solo» il 27% sulle paghe. Se la fertilità è scesa a 1,7, mentre la longevità cresce a 80-83 (come nel caso italiano), il prelievo deve salire al 45% del salario - cosa insostenibile - o la differenza essere coperta dall’esazione fiscale, cosa ancor meno sostenibile.

Una rivolta sociale è dietro l’angolo. Non a caso la UE raccomanda di aumentare l’età pensionabile ad almeno 65 anni, e di aumentare la partecipazione al lavoro dei cittadini in età attiva: per esempio da noi solo 60 donne lavorano; in Germania sono 67, in Danimarca sono 78, in USA sono il 70%.

Di fatto, l’aggiustamento necessario del welfare avviene da noi in modo surrettizio, e sleale. Da una parte, milioni di pensionati, con le varie «riforme», sono stati ridotti a poco a poco a vivere con 600 euro mensili. Dall’altra, un commesso del Senato è appena andato in pensione - a 52 anni - con 8 mila euro mensili (e 15 mensilità). Ciascuno dei 598 ex dipendenti del Senato prende 133.695 euro l’anno lordi, «quindici volte e mezzo l’importo di una pensione media INPS» (2). E quel genere di pensioni, al contrario delle nostre, aumentano del 14-15% l’anno.

Ovviamente, nulla giustifica simili emolumenti per i commessi parlamentari (dei fattorini); nè competenza nè qualità del lavoro. E’ un privilegio più scandaloso delle veline di Berlusconi, che nè Berlusconi nè alcun altro governo ha mai sanato, perchè il Senato come la Camera sono enti «autonomi» nelle loro spese, ossia si danno gli stipendi che vogliono loro.

Gli italiani si ribelleranno mai a questa casta?

Nell’attesa, consoliamoci con la demografia della Cina. Il leggendario colosso demografico è in calo velocissimo. Qui, la causa non ha nulla di naturale: è la feroce politica del «figlio unico» imposto dal regime, che si coniuga con l’aborto selettivo delle femmine, che sono considerate un peso per la famiglia. Se è permesso avere un solo figlio, la famiglia lo sceglie maschio. L’ecografia, che consente di vedere in anticipo l’effetto del nascituro, è un bell’esempio di tecnologia al servizio di un crudele pregiudizio tradizionale (ciò vale anche per l’India).

L’effetto: nascono in Cina 118 maschi ogni 100 femmine. Entro il 2020, il 12-15% dei giovani cinesi (40-60 milioni) non troverà una moglie. Il fenomeno si produce anche in altri Paesi asiatici: Taiwan, India e Pakistan, Bangladesh, Corea del Sud. Secondo alcuni calcoli, mancano 40 milioni di donne in Cina, 40 in India, 6 milioni in Pakistan, 3 in Bangladesh. In tutto l’estremo Oriente, 90 milioni.

Questo induce i demografi a qualche previsione catastrofista. Per esempio, un’esplosione dei comportamenti antisociali e delittuosi: il tasso di criminalità fra i giovani maschi non sposati è molto, molto più alto che fra quelli sposati. La CIA sospetta che entro il 2020 il regime di Pechino possa trovar opportuno sfoltire quella massa di giovani maschi soli in qualche causa gloriosa, di tipo bellico.

Ma altri demografi fanno notare che la popolazione cinese invecchia ora così rapidamente, che il numero degli anziani bilancerà le teste calde degli scapoli, producendo una nazione più acquietata. Inoltre, segnalano la crescita in Cina di una classe media, con tutti gli effetti che una classe media porta nella società: fra cui la riduzione delle nascite, in coincidenza con l’aumento del benessere e dei consumi. Entro il 2020, la popolazione mondiale sarà - secondo questi demografi - cresciuta di un miliardo; ma la classe media in tutto il mondo sarà di 1,8 miliardi, di cui un terzo (600 milioni) cinesi. Ma qui siamo di fronte ad una previsione - una delle tante - che può essere smentita: i calcoli si riferiscono a prima della grande crisi economica globale.

Un fatto sembra in ogni caso certo: l’umanità nel suo complesso ha preso la strada discendente. Oggi, l’età mediana (non media) dell’uomo nel mondo è 28 anni. Nel 2050, sarà salita a 38 anni, a 50 in Giappone, a 47 in Europa, e a «soli» 41 negli Stati Uniti: con ciò, gli USA resteranno la sola entità occidentale fra le dieci nazioni del pianeta per popolazione, anche fra mezzo secolo.

Con un effetto curioso, rivelato dal grafico qua sotto (3): in Cina, i vecchi sopra i 65 anni saranno più numerosi che negli Stati Uniti, triplicandosi in un quarantennio.



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1) Martin Walker, «The world’s new numbers», The Wilson Quarterly, spring 2009.
2) Sergio Rizzo, «Le ricche pensioni del Senato, a un commesso 8 mila euro», Il Corriere della Sera, 6 maggio 2009.
3) http://paul.kedrosky.com/archives/2009/01/the_china_shift.html, 20 gennaio 2009.


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