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Il potere e la grazia: cristianesimo e «scontro di civiltà» (II)
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Il Ratzinger, esegeta di Sant’Agostino, che Tremonti non conosce

Ma, per chi conosce a fondo il pensiero e la storia della formazione personale di Ratzinger, i conti non possono tornare. Benedetto XVI è teologo di formazione agostiniano-bonaventuriana. La teologia di Ratzinger/Benedetto XVI non da ora ha assunto come propria la concezione, mistica, di Sant’Agostino sulla Chiesa come luogo della Grazia, e non del potere politico. Luogo terreno dello Spirito, anch’Essa nella sua componente umana soggetta alla fragilità dell’attuale condizione post-adamitica dell’umanità, ma tuttavia, in quanto Chiesa «pellegrina» nel mondo, riflesso della ed accesso alla Città di Dio ultraterrena. L’Aquinate avrebbe poi aggiunto, agli attributi propri della Chiesa, anche quello di «militante» che tuttavia non toglie il senso dell’esodo dall’aldiquà all’aldilà ma solo alla metafora ebraica unisce, giustamente, quella romana.
Dio è Amore (1 Giovanni 4,16) e l’essenza della Legge, della Torah, della quale, ce lo ha detto Cristo, neanche uno iota cadrà, è l’amore di Dio e del prossimo (Matteo 22, 34-40). Ogni tentazione alla «mondanizzazione» della Chiesa nasce proprio dalla dimenticanza di questo, dalla dimenticanza della Verità che Dio è Amore. Per questo mentre Origene ed Eusebio di Cesarea hanno illusoriamente creduto nella possibilità della cristianizzazione dello Stato, ossia hanno creduto che fosse l’impero, il potere sacralizzato, il veicolo storico della Grazia di Cristo (13); Agostino con la dottrina delle due civitates ha invece voluto impedire ogni confusione tra la Chiesa, Essa stessa, per l’Ipponate, non esattamente coincidente con la Città di Dio, ma piuttosto sua, ancora purificanda, «porzione» terrena, e la Comunità politica di diritto naturale. La quale ultima, dunque, per essere di diritto naturale, è anch’essa voluta, nel suo giusto ordine, da Dio, ed è perciò «buona», ma non è il veicolo della Grazia. Ciò significa che mentre la Chiesa è via verso il Cielo, la Comunità politica, che sorge dalla natura sociale dell’uomo, tale, ossia di diritto naturale, deve sempre rimanere. Per Agostino la città terrena e la Città di Dio nell’orizzonte storico-temporale sono ad un tempo radicalmente distinte ed inevitabilmente intrecciate, mescolate, in quanto i confini tra le due sono segnati dalla Grazia e quindi si tratta di confini che l’uomo può solo «ri-conoscere» e non «de-finire» una volta per tutte.

La dottrina agostiniana, spiega Ratzinger: «non mira né a ecclesializzare lo Stato né a statalizzare la Chiesa, ma, in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che rimangono e devono restare ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuova forza della fede nell’unità degli uomini nel corpo di Cristo, come elemento di trasformazione, la cui forma completa sarà creata da Dio stesso, una volta che questa storia abbia raggiunto il suo fine» (14). Sicché in Agostino, conformemente al Vangelo, non è prioritaria la cristianizzazione delle strutture politiche e sociali ma quella dei cuori. Egli sa bene che solo dall’apertura dei cuori alla fede ed all’Amore di Cristo segue anche la trasformazione delle relazioni interpersonali, comprese quelle proprie della vita politicamente associata, ossia della polis: «Qui - precisa ancora Ratzinger commentando sant’Agostino - non è consentito abbandonarsi ad alcuna illusione: tutti gli Stati di questa terra sono ‘Stati terreni’ anche quando sono retti da imperatori cristiani (…). Sono Stati su questa terra e quindi ‘terreni’ e nemmeno possono divenire di fatto qualcosa d’altro. In quanto tali sono forme di ordinamento necessarie di quest’epoca del mondo ed è giusto preoccuparsi del loro bene» (15).

Agostino critica, in altri termini, la sovradeterminazione del momento politico. Egli ha il coraggio di ammettere l’imperfezione senza elevarla a ideale, e, insieme, ha la consapevolezza dell’alterità della «civitas Dei» rispetto ad ogni «res publica». Questo divario in Agostino non contrasta affatto con l’elogio delle virtù civiche che hanno fatto la grandezza di Roma: «Mostrando - egli scrive - , attraverso l’opulenza e la gloria dell’Impero romano, tutto ciò che possono produrre le virtù civiche anche disgiunte dalla vera religione, Dio intendeva dimostrare che questa rende gli uomini cittadini di un’altra città, dove la verità è regina, la carità legge e la cui durata è eterna». Questo significa che la nuova città prodotta dalla Grazia, la quale vive nei suoi abitanti mescolata alla città terrena, non ha bisogno, per rendersi evidente, del naufragio delle virtù naturali, comprese quelle politiche. Ma significa al tempo stesso che la Grazia, che opera nei cuori fedeli a Dio, dà forma ad una comunità di uomini, la comunità cristiana, che sanno di essere, in definitiva, «senza patria (terrena)», «comunità di stranieri», che accetta, usa e si preoccupa giustamente anche delle realtà terrene pur sapendo di non essere a casa propria in esse. La Chiesa è una comunità che, perciò, pur non negandola anzi valorizzandola, si oppone ad ogni assolutizzazione della Patria, della Nazione. L’«amor di patria» è certamente, per il Cristianesimo, una forma dell’Amore di Dio ma diventa il contrario dell’Amore rivelato laddove la patria terrena diventa un assoluto, laddove, in altri termini, l’amore per la patria diventa nazionalismo che pretende di piegare a sé, come mera radice storico-identitaria, la Fede. La Chiesa di fronte agli «Stati terreni», persino di fronte a quelli cristiani o cristianizzati, rimarrà sempre, fino alla fine dei tempi, una «comunità di stranieri», di «pellegrini» in cammino, una «legione in marcia», verso la oltremondana Città di Dio, la vera «terra promessa», ossia la «Patria Celeste». Questa è la «novità» cristiana rispetto alle antiche teologie civili pagane ed alle moderne teologie-politiche neopagane, anche rispetto a quelle che si presentano sotto sembianze in apparenza cristiane in nome dell’«ateismo devoto» e dei «valori etici» o dell’«Occidente cristiano».

Ecco perché la fede non può mai coincidere con l’attestarsi a difesa di una cultura o di un determinato assetto di convivenza sociale o ancora con una determinata civiltà chiamata, oltretutto, allo scontro con altre civiltà. Se è vero che la fede è generatrice di cultura e di civiltà, ma solo secondariamente come ricorda Romano Amerio criticando il cosiddetto «cristianesimo secondario» ossia la valutazione della fede per le sole sue realizzazioni civili, è altrettanto vero che essa non si identifica mai in toto con nessuna forma di civiltà, neanche con quella cristiana o di radici cristiane.
La Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, è universale, non «occidentale». Volerne fare l’anima dell’oOcidente, la religione dell’Occidente, di «questo» Occidente poi!, significa violarne l’essenza più autentica. Significa essere «pagani», non cristiani. Significa ridurre il Cattolicesimo a religione civile, a teologia politica.

L’equivoco traspare anche, e forse soprattutto, nell’ambito del cattolicesimo conservatore, dove, pur facendo riferimento al magistero sociale cattolico, si guarda alla «cristianizzazione» degli Stati senza nulla dire circa la necessaria priorità dell’effusione nei cuori, anche in quelli degli statisti, della Grazia di Cristo. Questo perché a questi circoli catto-conservatori quel che interessa prima di tutto è la «consacrazione» di certi assetti socio-economici neo-liberisti improntati all’intoccabilità della proprietà privata (una intoccabilità che proprio il magistero sociale cattolico, cui essi mostrano di richiamarsi, smentisce). Scrive, per esempio, Marco Invernizzi, esponente di Alleanza Cattolica: «Un conto è dire che il cristianesimo non è una religione civile e altro è affermare che non debba far nascere una cultura e costruire una civiltà. Un conto è sottolineare il significato profetico della Chiesa che non si deve legare ad alcuna forma di potere, altro è negare… l’organizzazione delle società e degli Stati secondo i principi della dottrina sociale della Chiesa …» (16).

Detto così sembra tutto molto bello e lineare. Ma non si ricade qui, come dimostra tutta l’attività lobbistica profusa, in nome dell’ «Occidente cristiano» (cristiano ?), da Alleanza Cattolica nell’ambito del centro-destra, nell’illusione eusebiana di fare dello Stato l’agente missionario della fede, con la sola conseguenza di provocare reazioni di rigetto di una fede ridotta o prostituita ad una teologia politica, ad un progetto politico? Certo qualunque cattolico, soprattutto in politica, deve tendere ad attuare i principi del diritto naturale e del magistero sociale cattolico. Ma quando si dice o si sottende più o meno consapevolmente che, secondo la dottrina sociale cattolica, sarebbe l’organizzazione degli Stati l’elemento prevalente, e non invece la conversione del cuore alla quale sola una organizzazione come quella auspicata può effettivamente seguire, non si rischia di diventare «cristianisti», nel senso nel quale usa questo termine Remì Bragué quando ricorda che non fu dalla legge civile, come pensano coloro, i «cristianisti» appunto, che riducono la fede ad ideologia politico-sociale, che nacque la Cristianità medioevale ma dalla semplice e sincera fede di pochi uomini che iniziarono la loro missione in un mondo pagano? Prima il Regno di Dio, che è spirituale, poi il resto viene da sé.

Augusto Del Noce, in proposito, osservava: «O pensare che la trasformazione della società debba succedere alla trasformazione dell’uomo; o, all’opposto, pensare che la trasformazione dell’uomo sia condizionata da quella della società… alla prima tesi consegue la più precisa distinzione della religione dalla politica; nella seconda tesi la politica si sostituisce alla religione nella lotta contro il male. Lecito ad ognuno optare per l’una o per l’altra; non però lecito contaminarle. Certo i Santi hanno trasformato il mondo, ma senza proporselo; la trasformazione è un ‘sovrappiù’, dato a chi ha cercato innanzitutto il regno (non temporale) di Dio: segue all’irradiazione di un’autentica esperienza religiosa. Questa distinzione segna pure il limite che la concezione cristiana lascia all’azione strettamente politica: ricerca della minimizzazione del male col diminuire… le tentazioni offerte alla volontà debole, ma senza la pretesa diretta di una trasformazione dell’uomo» (17).
Cristianesimo, «cristianismo» e «leggi imperfette»

La diversità del Cristianesimo rispetto a qualunque teologia-politica sta in questo: il Cristianesimo insegna che il Regno di Dio è in questo mondo ma non è di questo mondo. Esso afferma il carattere storico della salvezza ma non cerca la sua realizzazione nella politica o con i mezzi della politica. In questo modo, mentre i «cristianisti» invocano la realizzazione del nuovo e definitivo ordine etico-politico su questa terra, facendosi eredi ed emuli delle ideologie totalitarie di destra o di sinistra (infatti esiste un «cristianismo» di destra identificabile con il cattoconservatorismo ed al tempo stesso un «cristianismo» di sinistra identificabile con il cattoprogressismo), i cristiani veri sanno, per divina rivelazione, che la salvezza incomincia a manifestarsi senza dubbio nella storia ma in forza dell’azione della Grazia e non dell’imporsi di un potere o di una egemonia politica.

Di tale diversità del Cristianesimo rispetto alla scimmiottatura «cristianista» è segno evidente il tradizionale insegnamento del magistero sulle cosiddette «leggi imperfette», ossia quelle che pur non essendo in tutto conformi al diritto naturale la comunità politica, anche nel caso fosse governata da cristiani, è chiamata a tollerare per evitare mali maggiori o per attuare il bene nelle concrete circostanze storiche che ne impediscono una più ampia estensione. La legge imperfetta indica lo scarto, conseguente alla natura ferita dell’uomo, tra il diritto naturale e la legge civile. Questo insegnamento è foriero di un sano realismo politico che può riportarsi a sant’Agostino, prima, ed a San Tommaso d’Aquino, poi, e che è stato ripreso in età moderna da Leone XIII in una importante quanto purtroppo dimenticata enciclica, «Libertas», del 1888, nella quale il grande Pontefice così si esprime: «Se non che la Chiesa con intelligenza di madre guarda al grave peso dell’umana fragilità, e non ignora il corso degli animi e delle cose, ond’è trasportata l’età nostra. Per queste cagioni, senza attribuire diritti fuorché al vero e all’onesto, Ella non vieta che, per evitare un male più grande e conseguire e conservare un più gran bene, il pubblico potere tolleri qualche cosa non conforme a verità e giustizia. Nella sua provvidenza Iddio stesso, infinitamente buono e potente, lascia pure che vi siano mali nel mondo, parte perché a beni maggiori non si chiuda la via, parte perché non si apra a mali maggiori. Nel governo dei popoli è giusto imitare il Reggitore dell’universo: che, anzi, non essendo possibile alla potestà umana impedire ogni male, deve ‘permettere e lasciare molte cose impunite che la divina Provvidenza punisce, e giustamente’ (Agostino, ‘De libero arbitrio’ 1, 6, 14). Tuttavia, se per ragione del bene comune, e per quest’unica ragione, può la legge umana e anche deve tollerare il male, approvarlo però e volerlo per se stesso non può, né deve; perché il male, essendo per sé medesimo privazione del bene comune, ripugna al bene comune, che, per quanto è possibile, ha da volere e tutelare il legislatore. E qui pure necessario che la legge umana prenda esempio da Dio, il quale nel tollerare che vi siano i mali nel mondo, ‘né vuole che il male si faccia, né vuole che non si faccia, ma vuole permettere che si faccia, e questo è bene’ (Summa th. p. I qu. 19 a. 9 ad 3). La quale sentenza dell’Angelico Dottore racchiude in poche parole tutta la dottrina della tolleranza del male. Bisogna peraltro riconoscere, se vogliamo far giudizio retto delle cose, che quanto più di male è costretto a tollerare uno Stato, tanto è più lontano dalla perfezione, e similmente che la tolleranza del male, essendo un dettato di prudenza politica, va circoscritta entro i limiti del criterio che la fa nascere, e che è il supremo bene sociale. Laonde, ove questo venisse a scapitarne, e la società andasse incontro a mali maggiori, non sarebbe più permessa, perché in tal caso non potrebbe aver ragione di bene».

Con il che, attenzione!, il Pontefice non faceva certo l’elogio della democrazia liberale, ossia della democrazia non giacobina, il modello americano, che tanto oggi piace ai cattoconservatori. Infatti, i fondamenti gius-contrattualistici della democrazia liberale, rintracciabili nella filosofia di John Locke, non sono affatto compatibili con la tradizione agostiniano-tomista dei rapporti tra Chiesa e Comunità politica di diritto naturale. Questo perché Locke afferma che la Verità non è affatto conoscibile neanche parzialmente dall’uomo, tutt’al più, essa sarebbe, protestanticamente, solo accettata per mero atto fideistico. Sicché i diritti della persona non trovano in Locke alcun vero, ultimo ed autentico fondamento in Dio. Essi restano, in altri termini, senza alcun autentico fondamento metafisico. Per diritti umani Locke, poste le sue premesse antimetafisiche, non può che intendere esclusivamente quelli sanciti dal «contratto sociale», stipulato tra il monarca costituzionale ed i sudditi, ossia quelli positivisticamente posti dalle mutevoli carte costituzionali. In tal senso la democrazia liberale rivendica, coerentemente, come sua base teologico-filosofica il soggettivismo, il contrattualismo, l’utilitarismo ed il relativismo. Invece Leone XIII, sulla scorta di Agostino e Tommaso, non approva come fondamento della comunità politica né il soggettivismo relativistico né il contrattualismo utilitaristico ma semplicemente afferma che essa, la comunità politica, che nasce dalla natura umana medesima, e che dunque vi sarebbe stata anche senza il peccato, non può però, nell’attuale condizione posteriore al peccato originale, non riflettere, per forza di cose, la stessa imperfezione che ha ferito l’umana natura. Da qui la triste necessità di dover, in certe situazioni, tollerare, in via di compromesso, tuttavia circoscrivendolo, il male, giustificandosi pertanto anche la possibilità delle leggi imperfette.

Un confronto tra Origene ed Agostino

Nell’opera già citata sull’unità delle nazioni secondo la patristica, Ratzinger mette a confronto Agostino con Origene a riguardo della diversità di prospettive, tra i due, circa i rapporti tra Chiesa e comunità politica. Nel confronto Origene appare come il prototipo del «cristiano rivoluzionario» per il quale la Legge di Cristo delegittima sino ad annullarli gli ordinamenti terreni. Qui può scorgersi ad un tempo la radice dell’errore teocratico come dell’errore «purista», che ritroviamo entrambi anche in età moderna, ed in quella  contemporanea, ogni qual volta qualcuno rivendica il «governo dei preti», il clericalismo, o, al contrario, l’impoliticità assoluta della fede, il laicismo. Secondo Origene i cristiani non avrebbero potuto assumere uffici politici, fare il servizio militare, lavorare al servizio dello Stato, amare, neanche in via subordinata a Dio, la patria. In Origene la fede è pensata solo in funzione della radicalità del fattore escatologico in quanto, come è noto, questo padre della Chiesa, «padre» tuttavia condannato per alcune sue tesi, assumeva il proprio «radicalismo rivoluzionario» dai suoi imprudenti ammiccamenti con certe concezioni gnostiche, molto vive in Alessandria d’Egitto, le quali negavano per principio gli ordinamenti naturali in nome dell’orrore gnostico per la materia, per la carne, sempre considerata impura, malvagia.
Un’analisi magistrale dell’attuale passaggio in atto, in ambito politico cattolico, da un origenismo di «sinistra» ad un origenismo di «destra», la dobbiamo a Massimo Borghesi, docente di filosofia della religione presso l’Università di Perugia, che in proposito ha scritto una pagina di eccezionale esegesi filosofico-politica: «… l’origenismo appare - scrive appunto il Borghesi - come il presupposto di quell’ ‘ipermoralismo’ che attraversa tanta teologia postconciliare dimentica della categoria di peccato e di grazia. Sarebbe interessante osservare, e non possiamo che accennarvi, come questo ipermoralismo sia passato indenne nel mutamento di mentalità che segna il passaggio dagli anni Sessanta e Settanta agli anni Ottanta, abbandonando la sua forma di sinistra, filo-rivoluzionaria e terzomondista, e spostandosi a destra, in chiave filoccidentale. Si ha qui, a seguito dell’impotenza e dello scacco della varie ‘teologie della liberazione’, un mutamento di prospettiva per cui, dalla lotta contro il potere e lo Stato, si passa all’idea della riconquista cristiana dello Stato e dei suoi ordinamenti. La Chiesa appare ora come la coscienza morale della crisi e lo Stato (o il partito dei cattolici) come collaboratore nella risoluzione della medesima. Da Origene si passa a Gelasio e ad Eusebio, ma l’orizzonte moralistico permane immutato. Il passaggio avviene come per contraccolpo dacché non si può vivere del vuoto. Se la cristianità è dissolta e l’orizzonte non è quello del riaccadere dell’esperienza cristiana è inevitabile che il rapporto con il potere, ora vissuto conflittualmente ora come àncora di salvezza, assuma un valore determinante. Il potere, colmando il vuoto, è ‘ciò che fa essere’ una presenza cristiana, ciò che la rende ‘progettuale’, che le dà spessore e realtà. Il potere ha bisogno della Chiesa come coscienza morale della crisi e la Chiesa ha bisogno del potere per ‘restaurare’ la società in crisi. In questo mutuo scambio si consuma, ‘quando esso assume un volto ideologico’, un’illusione non meno grave di quella che vedeva nella ‘conflittualità’ la radice di ogni purificazione: l’illusione di Eusebio che ‘equivoca l’universalismo cristiano con quello romano’ (l’autore si riferisce alla romanità storica del tramontato impero dei tempi di Eusebio di Cesarea, circa la funzione ‘provvidenziale’, trans-storica, della quale, nel senso della dantesca ‘Roma onde Cristo è romano’, abbiamo già detto alla nota numero 13, sicché la frase dovrebbe oggi essere corretta così ‘equivoca l’universalismo cristiano con quello occidentale’, nda). Come l’origenismo rivoluzionario non ha però fermato il processo di scristianizzazione così anche la sua ricaduta gelasiano-eusebiana non sembra sortire effetti migliori (…). In un contesto simile

l’‘uscita di sicurezza’ della ‘via etica’, come terreno su cui riconquistare un consenso e un’egemonia perduti, difetta quanto meno di realismo. E questo anche quando, in una considerazione che vuol essere realistica, diviene giustificazione dell’unità dei cattolici a difesa di determinati valori trascurati o negati in altri contesti. Il limite, in tal caso, non sta nel fatto che determinate posizioni vadano difese, ma nel far consistere nella tutela di due o tre valori lo specifico cristiano in politica e nel far dipendere dalla loro attuazione la fisionomia cristiana di una società. Si ha qui, da parte ecclesiale, una sovradeterminazione del momento politico che di fronte all’insignificanza pratica della fede nella società attuale, non può non colpire» (18).

A differenza di ogni prospettiva origenista, che salta il politico per giungere direttamente all’escatologico, ed a differenza di ogni prospettiva eusebiana, che anticipa l’escatologico nel politico, la teologia della politica (attenzione: «teologia della politica» e non «teologia-politica»!) di Agostino, poi ripresa e completata sotto certi aspetti dall’Aquinate, mette in conto la permanenza dell’attuale situazione storica senza cedere al millenarismo. Anzi, Agostino ritiene tanto giusta e provvidenziale l’attuale situazione di attesa da desiderare certo un rinnovamento del mondo e dunque anche del politico ma rimanendo, lui sì per davvero, fedele alle promesse escatologiche che reputano questo mondo un’entità provvisoria. Per questo Agostino non nega affatto la realtà del politico e tuttavia neanche cerca nella sua cristianizzazione la vera espressione della Grazia salvifica. Egli sa che solo dalla conversione dei cuori può derivare la capacità umana, offuscata dal peccato, di «vedere» bene, innanzitutto in se stessi, la legge di natura e di applicarla nel modo migliore. Ecco perché Agostino se non «santifica», come Eusebio, neanche «demonizza», come Origene, il potere ed i suoi ordinamenti. Per Agostino, l’atteggiamento realistico implica una adesione alla realtà e non una fuga da essa. Ma la Grazia viene prima di tutto, essa è la «realtà nuova» importata dalla vita cristiana. Ciò che separa la «Civitas Dei» dalla «civitas mundi» non è affatto il primato dell’etica ma quello della Grazia, il riconoscimento o meno dell’azione della Grazia nella storia. Ed è questo primato della Grazia che rende coloro che ne partecipano «altri», «diversi», «estranei al mondo», «stranieri». Ma, attenzione!, Agostino non propone una Chiesa pneumatica, invisibile, incorporea, «gnostica», come più tardi farà Lutero. La Chiesa per l’Ipponate non è una «comunità di anime belle» senza visibilità concreta ed avulsa ed indifferente al mondo, al sociale ed al politico. Agostino non è un cinico quietista che abbandona il mondo al suo destino di dannazione, né egli è un moralista origeniano che invoca soluzioni palingenetiche e pseudo-escatologiche. Per l’Ipponate, la Chiesa è una «comunità carnale», fatta cioè di uomini in spirito, anima e corpo, dunque di uomini che possono anche peccare, imperfetti, e al tempo stesso aperti all’opera della Grazia, che dicono di sì a Colui che solo può, in forza, appunto, della Sua Grazia, trasformare il loro cuore. La Chiesa, il «Resto di Israele», è dunque il luogo della Grazia, il solo possibile luogo della Grazia su questa terra. Ecco perché Essa, la Chiesa, se da un lato è «senza patria terrena», non potendosi identificare con nessuna realtà politica, culturale o etnica mondana perché la sua vera Patria è il Cielo verso il quale è peregrinante o, nell’immagine tomista, marciante, dall’altro lato non è affatto «senza luogo», proprio perché il luogo è Essa stessa nella sua carnalità, nella sua corporeità ad un tempo visibile e spirituale. Il Cristianesimo, perciò, non è una «u-topia». Anzi, nella sua storia, ogni qualvolta i cristiani, errando, a volte fino a sconfinare nell’eresia, hanno preteso un «cristianesimo utopico», ossia senza o avulso dalla corporeità visibile della Chiesa, è accaduto esattamente il contrario ossia esso è diventato succube di qualche potere mondano. Come nel caso del protestantesimo. Scrive il Borghesi: «… quanto più il cristianesimo è u-topia, è ‘senza luogo’, tanto più esso si strugge dal desiderio di avere una ‘patria’, di essere riconosciuto come parte del mondo. La distinzione agostiniana per cui Dio nella città di Dio precede la ‘civitas’, mentre nella città terrena la ‘civitas’ precede i suoi dèi, è così perduta. Ora, convenientemente depurato da ogni ‘imprevisto’, da ogni grazia ritenuta di fatto superflua, ridotto a cultura etica universale, anche il cristianesimo può entrare a far parte del pantheon di valori con cui la città terrena glorifica sé stessa» (19). E Ratzinger, dal canto suo, chiosa: «Anche l’Action Française nazionalistica di Charles Maurras, agli inizi del secolo (scorso), voleva riformare il mondo in nome dei valori cristiani, ma non era fede. La fede è solo questo: l’apertura energica a una presenza, alla presenza di Cristo» (20).

«Spanteizzare il mondo» ossia la «sovversione cristiana». Gli equivoci nicciani di Massimo Cacciari e di Jan Assmann

Ora, la proposta di Tremonti, per quanto l’attuale ministro dell’Economia possa aver personalmente fede, è esattamente quel che paventano Borghesi e Ratzinger. E’ la tentazione eusebiana, ripresentatasi a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, che succede a quella origeniana, egemone in precedenza ossia negli anni sessanta e settanta. Ma se è vero che Agostino rigetta l’utopismo millenaristico e rivoluzionario dell’origenismo è altrettanto vero che «… il suo cristianesimo, fattosi consapevolmente legale, rimane, in senso ultimo, ‘rivoluzionario’, poiché non può considerarsi identico ad alcuno Stato» (21). Dove con il termine «rivoluzionario» si vuol indicare l’attitudine propria della Rivelazione ebraico-cristiana a «spanteizzare», a «sdeificare» il mondo, a deridere, come facevano i Profeti dell’Antico Testamento, gli dèi dei popoli perché solo Dio, il Dio trascendente della Rivelazione, è il vero Dio degno di adorazione. Il cristiano, proprio per questo, mette in discussione ogni sistemazione, anche politica e sociale, puramente terrena. Egli, che è «pellegrino» o «militante» su questa terra, sa che ogni sistemazione della città terrena è transeunte e deve essere trattata con sano e realistico distacco. In questo senso il Cristianesimo è «rivoluzionario», «sovversivo», sempre «ironico». La «sovversione» cristiana non può pertanto non agire anche nei confronti della civiltà borghese, nei confronti dell’occidente, relativizzandone, con ironia, le pretese di superiorità e di egemonia globale.

Questo carattere «sovversivo» della fede cristiana è proprio quello che, con ragionamento sibillino, rimprovera al Cristianesimo un ex-marxista oggi nicciano come Massimo Cacciari. In una intervista di diversi anni fa a Maurizio Blondet, Cacciari accusa il Cristianesimo di essere il vero responsabile del nichilismo per aver distrutto gli ethoi delle società tradizionali (22). Quella cacciariana è una critica neopagana, sulla linea filosofica che da Marx lo ha condotto a Nietzsche e per questo tramite nei paraggi dei pensatori «gnostici» della rivoluzione conservatrice tedesca degli anni ‘30 del secolo scorso, ossia in particolare Martin Heidegger e Carl Schmitt. Non è stato affatto un caso che Cacciari sia diventato, negli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, il principale interlocutore da sinistra della «nuova destra», un gruppo, quest’ultima, di intellettuali che nato in Francia negli anni ‘60 intorno a pensatori neo-nicciani come Alain De Benoist e Guillaume Faye (il primo attualmente su posizioni pagano-comunitariste e terzomondiste; il secondo invece su posizioni occidentaliste, suprematiste e dichiaratamente razziste e neocon) fu importato anche in Italia, alla fine degli anni ‘70, trovando i propri maggiori esponenti nostrani in Marco Tarchi, all’epoca dirigente missino poi defenestrato ed ora docente di scienza della politica all’università di Firenze, in Alessandro Campi, un tempo missino anche lui ora docente di politologia presso l’università di Perugia e, passato con Galli della Loggia a posizioni liberalconservatrici, attuale consulente di Gianfranco Fini, ed infine in Marcello Veneziani, già giornalista di area missina attualmente free lance di Libero e de Il Giornale, il quale, rispetto agli altri sopra nominati, continuò tuttavia a mantenere rapporti sia con la «vecchia destra» missino-moderata e nostalgico-fascista, sia con la destra «tradizionale» evoliana, sia con il mondo della destra cattolica tradizionalista.

«Ethos - diceva Cacciari a Blondet -, o per i latini Mos, … indicava la ‘dimora’, l’abitare in cui ogni uomo si trova dalla nascita, la radice a cui ogni uomo appartiene. In questo senso, un greco … ‘apparteneva’ a un ‘ethos’. A una stirpe, a un linguaggio, a una ‘polis’. Che non era stato lui a scegliere (…). Ogni società tradizionale ha, o meglio, è un ethos. Ogni società tradizionale, come un albero rovesciato, ha la sua radice nella legge divina, nel nomos. La legge della ‘polis’, dice Erodoto, è l’immagine di ‘Dike’ (…) duemila anni fa, l’‘ethos’ ha cessato completamente di esistere (…). Sì, il Cristianesimo è stato dirompente rispetto ad ogni ‘ethos’ (…). Sant’Agostino lo dice chiaramente: la Città di Dio è ‘pellegrina sulla terra’; ne segue che il cristiano non ha casa o è a casa sua dovunque. Il cristiano ‘non si cura’ dei diversi costumi, delle diverse leggi, delle diverse istituzioni con cui la pace terrena si ottiene e si mantiene» (23).

Dal momento che il diavolo è menzognero e fa le pentole ma non i coperchi, è inevitabile che anche chi cerca di accreditarne le «dottrine» non può che fare lo stesso: mentire. Blondet annota, durante quell’intervista, che quello che Cacciari citava era un passo della «Città di Dio» di Agostino: lo si trova nel capitolo XIX paragrafo 17. Tuttavia all’amico Blondet è forse sfuggito che la citazione cacciariana di Agostino era, secondo noi non a caso ma artatamente, incompleta, monca di altre parole precedenti e successive, ma essenziali, dell’Ipponate che smontano la lettura neopagana che Cacciari fa del Cristianesimo come responsabile dello spaesamento e del nichilismo. Infatti, la citazione completa di quel passo di Agostino recita esattamente: «Questa città celeste quindi, finché è pellegrina sulla terra, chiama cittadini da tutte le nazioni e raccoglie la società pellegrina fra tutte le lingue, senza badare a diversità di costumi, di leggi, di istituzioni con le quali si istituisce o si mantiene la pace terrena, senza eliminare o distruggere nessuna di esse, anzi accettando e seguendo tutto ciò che tende ad un unico e medesimo fine della pace terrena, nonostante le diversità da nazione a nazione, purché ciò non costituisca un ostacolo per quella religione che insegna a venerare l’unico, vero e sommo Dio» (24).

E’ evidente che Cacciari per sostenere la sua falsa tesi della fede cristiana come radice del nichilismo ha dovuto forzare il pensiero di Agostino e fargli dire che il cristiano «non si cura» della pace terrena e dunque della politica. Invece, al contrario, «Il cristiano non teme il potere. Anzi, (…) dovrebbe desiderarlo per poter render più facile il cammino che ogni uomo intraprende per realizzare il proprio destino (fermo rimanendo che) proprio il cristiano, di fronte a qualsiasi potere, sarà sempre il lottatore per la libertà della persona» (25).

Maurizio Blondet, nell’intervista in questione, giustamente contesta Cacciari sulla base dello Schmitt ancora cattolico e di quello «epimeteo cristiano», ossia pentito post-nazista, e ricorda «l’inconcepibile potenza politica del Cattolicesimo romano» capace di unire il massimo di presenza nella storia con il massimo di trascendenza, sicché la «mistica» non impedisce alla Chiesa di proporre anche una «etica» per la vita comune (26). Ma Blondet è andato oltre: ha dato una prima essenziale risposta al filosofo barbuto, attuale sindaco di Venezia: «La Chiesa - ha scritto Blondet - non è l’autorità radicalmente ‘sovversiva’ che sradica o spregia ogni ‘ethos’ tradizionale e particolare, ‘non curans quidquid in moribus, legibus institutisque diversum’, ma l’estensione al mondo intero - poiché ogni impero è virtualmente universale, e ciò che è fuori dai suoi confini non è che ‘Gog e Magog’ - di un ‘ethos’ sacro. Dove la Chiesa ha sradicato gli dèi della ‘polis’, è per restaurare un ordine più alto, una moralità radicata in ogni caso nel divino’ (27). Questo ordine più alto, al quale si richiama Blondet, è l’ordine della Redenzione mediante la Croce. L’ordine più alto che Cristo, mediante la Croce, restaura è, appunto, quello che esisteva nello stato adamitico dell’umanità, precedente il peccato originale.

Ora, Blondet affermando quanto sopra è perfettamente in linea, forse a sua stessa insaputa e con sua somma sorpresa, con la teologia di Ratzinger/Benedetto XVI. Per sincerarsene, basta mettere a confronto il rilievo di Blondet a Cacciari con la confutazione che Ratzinger fa della tesi di Jan Assmann, egittologo, che legge la «distinzione mosaica» nei termini della nascita, nel panorama religioso dell’umanità, dell’intolleranza e del senso del peccato, di contro alla presunta tolleranza e gioia di vivere che sarebbero state coltivate dalle religioni pagane tra loro intercambiabili. Assmann porta avanti un’apologia del politeismo «tollerante» e del monoteismo «intollerante» del tutto analoga a quella, di matrice illuminista e nicciana, a suo tempo fatta propria da Alain de Benoist e dalla Nouvelle Droite francese e che in un certo senso Cacciari ha a sua volta ripreso nella citata intervista con Blondet.

Ascoltiamo Ratzinger in questa lunga pagina che, per comprendere lo stesso fondamento della fede cristiana, è necessario riportare quasi per intera:

«Tolleranza e fede nella verità rivelata sono concetti che si oppongono? (…) affermare di aver trovato la verità non è forse una presunzione … che deve essere respinta, se si vuole spezzare la spirale della violenza che attraversa la storia delle religioni? (…) si diffonde sempre più la convinzione che la rinuncia da parte della fede cristiana alla rivendicazione di verità sia la condizione fondamentale per ottenere una nuova pace mondiale, … per la riconciliazione tra cristianesimo e modernità. Questa problematica è stata recentemente riformulata e approfondita dall’egittologo Jan Assmann, muovendosi dalla contrapposizione tra la religione biblica e quella egizia e il politeismo in generale (…). In questo senso egli parla della ‘distinzione mosaica’, che considera essere il vero spartiacque della storia delle religioni. Che cosa intenda dire con questo, viene da lui così espresso: ‘Con la distinzione mosaica intendo l’introduzione della distinzione tra vero e falso nell’ambito delle religioni. Fino ad allora la religione era basata sulla distinzione tra puro ed impuro, o tra sacro e profano e non c’era assolutamente posto per l’idea di falsi dèi (…) che non si possono adorare …’. Gli dèi delle religioni politeiste sarebbero stati in un rapporto di equivalenza funzionale tra loro e sarebbero dunque stati interscambiabili gli uni con gli altri. Le religioni avrebbero avuto la funzione di strumento di traducibilità interculturale. ‘Le divinità erano internazionali, perché erano cosmiche (…) nessuno metteva in discussione la realtà degli dèi stranieri e la legittimità di forme di venerazione straniere. Il concetto di una religione non vera era totalmente straneo ai politeismi antichi’. Con l’introduzione della fede-in-un-Dio-unico accade dunque qualcosa di nuovo, di sconvolgente: questo nuovo tipo di religione sarebbe per sua natura una ‘antireligione’, che emargina tutto quello che la precede come ‘paganesimo’, e non il mezzo di una traducibilità interculturale, bensì di uno straniamento interculturale. Solo a questo punto si sarebbe costituito il concetto di ‘idolatria’ come il supremo dei peccati: ‘Nell’immagine del vitello d’oro, del peccato originale dell’iconoclastia monoteistica (…) è espresso il potenziale di odio e di violenza, che si è sempre tradotto in atto nella storia delle religioni monoteistiche’. Il racconto dell’Esodo, con questo suo potenziale di violenza, appare come il mito di fondazione della religione monoteistica e al contempo come il ritratto dei suoi effetti. La conseguenza è chiara: l’‘Esodo’ deve essere annullato; dobbiamo far ritorno in ‘Egitto’ - vale a dire: la distinzione tra vero e non vero nell’ambito delle religioni dev’essere abolita, dobbiamo tornare al mondo degli dèi, i quali esprimono il cosmo in tutta la sua ricchezza e molteplicità, e di conseguenza non conoscono un’esclusione reciproca, anzi, al contrario, rendono possibile una reciproca comprensione. Il desiderio di annullare l’‘Esodo’, d’altra parte, attraversa tutto l’Antico Testamento. Esso affiora continuamente durante la storia delle peregrinazioni nel deserto e si rende drammaticamente presente, ancora una volta, alla fine dell’Antico Testamento, nel primo ‘Libro dei Maccabei’, dove si riferisce di ‘traditori della legge’ che propongono un’alleanza ‘con le nazioni che ci stanno attorno, perché da quando ci siamo separati da loro, ci sono capitati molti mali’. Essi decidono di non vivere più secondo la legge di Mosè, ma ‘secondo le usanze dei pagani’ (1 Maccabei 1,11-15). Dal canto suo, Assmann descrive minuziosamente la nostalgia dell’Egitto, del ritorno a prima della distinzione mosaica, a partire dal Rinascimento, con la venerazione del ‘corpus Hermeticum’ come di una teologia originaria, fino ai sogni egiziani dell’Illuminismo, con il ‘Flauto magico’ di Mozart quale grandiosa realizzazione artistica di questa nostalgia. Egli mostra in maniera impressionante come questo nuovo interesse per l’Egitto sia stato suscitato dai conflitti politici e religiosi dell’epoca che conobbe ‘la terribile esperienza delle guerre di religione e le controversie religiose riguardanti ateismo, politeismo, deismo, libero pensiero al seguito di Thomas Hobbes e Baruch Spinosa’ (…). Se capisco bene, per lui la formula di Spinoza ‘Deus sive natura’ è al contempo la formula che sintetizza ciò che intende con questo ritorno, con il suo ‘Egitto’: la distinzione tra vero e falso può essere espunta dalla religione se cade la distinzione tra Dio e cosmo, se il divino ed il ‘mondo’ vengono di nuovo visti indistintamente come un’unica realtà. La distinzione tra vero e falso è indissolubilmente connessa alla distinzione tra Dio e il mondo. Il ritorno all’Egitto è un ritorno agli dèi, in quanto respinge un Dio che sta di fronte al mondo, e considera gli dèi unicamente come forma di espressione simbolica della natura divina (rectius: ‘divinizzata’, nda) (…). E’ palese che nelle tesi qui brevemente tratteggiate si trovino formulati con molta precisione i contenuti essenziali della crisi del cristianesimo che ai nostri giorni diventa sempre più acuta (…). Infatti vengono qui messi in luce … sia il problema fondamentale… della verità e della tolleranza, sia la problematica della posizione del cristianesimo nella storia delle religioni (…). (Ma) Se si guarda alla storia effettiva delle religioni politeiste, l’immagine da (Assmann) abbozzata… appare essa stessa come un mito (…). La tesi secondo cui gli dèi politeisti sono tra loro perfettamente interscambiabili, e quindi sono mezzi di comprensione interculturale, può appoggiarsi sulla politica religiosa dell’Impero Romano ma non corrisponde affatto alla storia del politeismo in generale (E’ incontrastato che, nel caso delle fusioni culturali in grandi imperi che abbracciano diverse etnie e culture, si sia giunti a tali processi di traduzione soprattutto per motivi politici, ma la problematica del politeismo si estende largamente al di là di questi processi). Basta leggere Omero per ricordarsi delle guerre tra gli dèi e del fatto che le guerre tra gli uomini sono considerate il riflesso e la conseguenza delle guerre tra gli dèi (…).

Possiamo quindi concludere: in ogni caso gli dèi non erano sempre pacificamente intercambiabili. Altrettanto spesso, anzi, più frequentemente, essi erano cause di violenze reciproche; è noto anche  il fenomeno per cui gli dèi di una religione sono diventati i demoni di un’altra. D’altronde, la Bibbia stessa mette a confronto realisticamente i sogni egiziani di un Israele nostalgico con la vera realtà dell’Egitto. L’Egitto reale non era la terra della bella libertà e della pace, ma una ‘dimora di schiavi’, una terra di oppressione e di guerre. Ma ora dobbiamo fare un altro passo. Le religioni politeiste non sono una realtà statica (…). Esse sono sottomesse ad un processo storico (…). I miti … perdono… sempre più credibilità. Lo sviluppo dell’antichità greco-romana ci mostra in maniera esemplare il processo per il quale la maturazione della coscienza comune inevitabilmente conduce con insistenza sempre maggiore alla domanda, se sia poi tutto vero. La questione della verità non è stata inventata da ‘Mosé’. Essa sorge immancabilmente quando la coscienza raggiunge una certa maturazione (…). La questione della verità era sorta tra i presocratici ed ha trovato in Socrate la sua forma più grande (…). L’idea della pacifica interscambiabilità degli dèi in realtà non regge. C’è piuttosto una profonda inconciliabilità,(…). Ancor più importante nel nostro contesto è la… constatazione: la questione della verità è inevitabile. Essa è indispensabile all’uomo e riguarda proprio le decisioni ultime della sua esistenza: esiste Dio? Esiste la verità? Esiste il bene? La ‘distinzione mosaica’ è anche la distinzione socratica, potremmo dire. Qui si rendono visibili la motivazione interiore e la necessità interiore dell’incontro storico tra la Bibbia e l’Ellade. Ciò che le unisce è appunto l’interrogativo sulla verità e sul bene in quanto tale che pongono alla religioni … la distinzione ‘mosaico-socratica’. Questo incontro ha preso avvio ben prima dell’inizio della sintesi tra fede biblica e pensiero greco della quale si preoccuparono i Padri della Chiesa. Esso si realizza già all’interno dell’Antico Testamento, soprattutto nella letteratura sapienziale e nel memorabile evento della traduzione in greco dell’Antico Testamento, che fu un momento di incontro interculturale di somma portata. Certo, nel mondo antico l’esito della questione socratica rimane aperto, ed è diverso in Platone ed in Aristotele. In questo senso rimane nel mondo dello spirito greco un’attesa rispetto alla quale l’annuncio cristiano è apparso come l’agognata risposta. Questa attesa aperta, che nel pensiero greco era come il gesto di chi aguzza lo sguardo in ricerca, è uno dei motivi principali del successo della missione cristiana. (…) nel bacino del Mediterraneo, più tardi nel mondo arabo ed anche in parti dell’Asia, il monoteismo si presenta come la riconciliazione tra ragione e religione: la divinità alla quale giunge la ragione è identica al Dio che si mostra nella Rivelazione. Rivelazione e ragione si corrispondono. Esiste la ‘vera religione’; la questione della verità e la questione del divino si sono riconciliate (Questa sintesi di religione della ragione e rivelazione biblica è l’idea guida - di cui si sono gettate le fondamenta nell’Antico Testamento - dei Padri della Chiesa, a cui Agostino nel ‘De Civitate Dei’ nella controversia con Plotino e Porfirio ha dato una forma sistematica conclusiva… un ulteriore passo dell’incontro fra cristianesimo e platonismo si produsse quando il cosiddetto Pseudo-Dionigi al declino del V secolo o all’inizio del VI trasformò in senso cristiano l’interpretazione di Proclo, mutò il politeismo nella dottrina dei cori degli angeli e con la sua teologia negativa divenne uno dei padri della mistica cristiana) (…).  Assmann loda la intercambiabilità degli dèi gli uni con gli altri, che appare come una strada per la pace interculturale ed interreligiosa. Lo disturbano l’‘intolleranza’ del primo comandamento e la condanna dell’idolatria quale peccato fondamentale. Come abbiamo già visto, ciò si presenta a sua volta come la canonizzazione dell’intolleranza. Ora, è esatto che il Dio unico è un ‘Dio geloso’, come lo chiama l’Antico Testamento. Egli smaschera gli dèi perché nella sua luce si vede che gli dèi non sono Dio, che il plurale di Dio è di per sé una menzogna. La menzogna è sempre non libertà e non è un caso… che nel ricordo di Israele l’Egitto appaia come una casa di schiavi, come un luogo di non-libertà. Solo la verità rende liberi. Dove l’utilità viene anteposta alla verità… l’uomo diventa schiavo dell’utilità e di coloro che possono decidere quale sia l’utile. In questo senso è indispensabile anzitutto la ‘demitizzazione’ che spoglia gli dèi del loro falso splendore e quindi del loro falso potere, per poi mettere in luce la loro ‘verità’, ossia per spiegare quali siano i veri poteri e le vere realtà che stanno dietro di loro. Detto altrimenti: una volta avvenuta questa ‘demitizzazione’, questo smascheramento, anche la loro verità relativa può e deve venire alla luce. Conformemente a questo, vi sono all’interno dell’atteggiamento cristiano nei confronti delle religioni ‘pagane’ due fasi, che tuttavia devono necessariamente concatenarsi l’una con l’altra e non possono essere nettamente distinte in una successione temporale. La prima fase è l’alleanza del cristianesimo con la ragione, l’alleanza che predomina negli scritti dei Padri, da Giustino ad Agostino ed oltre: coloro che annunciano il cristianesimo… vedono i semi del ‘Logos’, della ragione divina, non nelle religioni, ma nel movimento della ragione che ha dissolto quelle religioni. Ma sempre più chiaramente appare anche un secondo punto di vista, con il quale vengono alla luce anche il legame con le religioni ed i limiti della ragione. Mi sembra molto caratteristico, al riguardo, il pensiero di Gregorio Magno. In una prima lettera - ancora nella fase ‘illuministica’ -  egli scrive al re inglese Aethelbert: ‘Dunque, mio illustrissimo figlio, conservate con cura la grazia che avete ricevuto da Dio (…). Aumentate ancora il vostro nobile zelo (…) reprimete il culto degli idoli; distruggete i loro templi ed altari. Fate crescere le virtù dei vostri sudditi attraverso un comportamento eccellentemente morale …’. Ma Gregorio dentro di sé approfondisce ancora la questione, e già un mese dopo questa lettera scrive a un secondo gruppo di missionari partiti da poco e a un certo Mellitus in maniera completamente diversa: ‘Non appena sarete arrivati - con la grazia di Dio - presso il nostro reverendissimo fratello, il vescovo Agostino, ditegli che tra me e me ho riflettuto a lungo su una questione degli inglesi. Non si dovrebbero cioè distruggere i templi degli idoli di quel popolo, ma unicamente annientare i simulacri degli dèi che vi si trovano (…). Vedendo che non si distruggono i suoi templi, non solo abbandonerà l’errore, ma si recherà con gioia ancora più grande a riconoscere e ad adorare il vero Dio nei luoghi abituali’. Inoltre Gregorio in questa circostanza propone che le cerimonie ed i sacrifici animali vengano trasformati in feste per onorare i Santi ed i Martiri, (…). Qui appare… la continuità del culto. Il luogo sacro rimane sacro e la precedente intenzione di onorare il divino viene ripresa e trasformata, acquistando un nuovo significato. A Roma lo si può constatare ovunque. Un nome come Santa Maria in Minerva lascia riconoscere allo stesso modo trasformazione e continuità. Gli dèi non sono più dèi. Come tali sono caduti: la questione stessa sulla verità ha tolto loro la divinità e provocato la loro caduta. Ma al contempo è venuta alla luce la loro verità: essi erano il riverbero del divino, presentimenti di figure, in cui il loro senso nascosto, purificato, trovava compimento. In questo modo esiste ora anche una ‘traducibilità’ degli dèi, che in quanto presentimenti, in quanto gradini della ricerca del vero Dio e del suo rispecchiarsi nella creazione, possono diventare ambasciatori dell’unico Dio (…). Platone aveva ragione identificando il punto più alto del divino con l’idea del Bene (…). Il concetto biblico di Dio riconosce Dio come il Bene, come il Buono (confronta Marco 10,18). Questo concetto di Dio raggiunge il suo culmine nell’affermazione giovannea: ‘Dio è amore’ (1 Giovanni 4,8). Verità e amore sono identici. Questa affermazione - se se ne coglie tutto quanto essa rivendica - è la più alta garanzia della tolleranza; di un rapporto con la verità, la cui unica arma è essa stessa e quindi l’amore» (28).

Cacciari, come si è visto, pensa al razionalismo occidentale come «cristianesimo secolarizzato» nel senso, però, non di parodia della fede ma di suo esito nichilistico. Per il filosofo marx-nicciano la fede cristiana sarebbe la principale responsabile del naufragio nichilistico dell’Occidente. Un’analisi che però non spiega, neanche con il riferimento che Cacciari, nell’intervista con Blondet, fa alla differenza «pelagiana», perché mai, al contrario di quanto egli ritiene nella sua visione nicciana, l’illuminismo ha decantato le lodi della Roma prisca, dalle civiche virtù della religione patria, le virtù appunto dell’«ethos» pagano, da opporre alla Roma cristiana dei Papi? Al neopagano Cacciari vogliamo ricordare che quel «cerchio del sacro», quel tempo ciclico che il Cristianesimo ha spezzato, ma, come si è visto, solo per restituirlo secondo una prospettiva più alta e radicata nella Trascendenza e, pertanto, aperta alla libertà dell’Amore di Dio, era tutt’altro che quel «tempo felice», quell’«età dell’oro», che sin dal XVIII secolo, quello dei «lumi» e del classicheggiante Rousseau, i nuovi pagani sognano nell’arcadia gnostica che essi perseguono. Quello ciclico era piuttosto il tempo nel quale, per dirla con l’iniziato Roberto Calasso, in «Le nozze di Cadmo e Armonia» (Adelphi), «la vita non chiedeva pietà» e nel quale senza scrupoli «si tagliavano le gole alle fanciulle» perché l’atrocità era l’originario fondamento del mondo e gli uomini erano ritualmente alle prese con deità capricciose ed assetate di sangue umano che chiedevano loro per mantenere nell’essere il mondo. Quello del «sacro immanente» era il mondo dei sacrifici umani aztechi ma anche cananei, achei e dorici e persino latini (tracce del ricordo di sacrifici umani arcaici, successivamente dismessi, si ritrovano in certe feste e riti della Roma pagana). Il «paganesimo» di ritorno, il culto tribale dell’«ethos», dell’etnia, della razza, lo abbiamo ampiamente sperimentato con il nazismo. Ecco perché l’autore di queste note ha in più di una occasione cristianamente denunciato il sionismo come una forma di «sacralizzazione» dell’etnia dipendente, nel caso di specie, dall’errata prospettiva pseudo-messianica del giudaismo post-biblico, il quale, ben lungi dall’essersi mantenuto fedele alla Fede di Abramo nel Dio trascendente che si rivela, è rimasto, per il rifiuto di Cristo, tragicamente imprigionato in una sorta di etnocentrismo religioso con pretese universalistiche. Le nostre denunce non mirano certo a negare, marcionisticamente, le origini ebraiche del Cristianesimo ma, appunto, a denunciare il carattere di palese deviazione dalla Fede di Abramo rappresentato sia dal sionismo sia dal giudaismo post-biblico che lo appoggia teologicamente. Che, poi, si tratta di deviazione dalla autentica fede ebraica, quest’ultima adempiutasi in Cristo, lo aveva ben compreso Israel Eugenio Zolli quando, ancora rabbino, si lamentava con sincero dolore della protervia dei primi coloni sionisti, guidati dai loro rabbini. Zolli denunciò sin dagli anni ‘30 del secolo scorso l’intenzione dei sionisti di fare della «casa di preghiera di tutte le genti», ossia di Gerusalemme, una «home nazionale» esclusivamente ebraica. L’allora rabbino capo di Roma aveva personalmente visto all’opera i sionisti durante i prodromi di quelle che sarebbero state le successive pulizie etniche antiarabe del 1948, oggi ampiamente documentate dallo storico israeliano «revisionista» Ilan Pappe.

Luigi Copertino

(fine seconda parte)

• Il potere e la grazia: cristianesimo e «scontro di civiltà» (parte I)



13) Eusebio di Cesarea preso da totale ammirazione per Costantino, colui che aveva reso «licita» la «religio christiana», ha creduto di aver individuato in lui l’Unto del Signore ed ha finito per confondere l’universalismo cristiano con l’universalismo romano. Quest’ultimo, in verità, in quanto terreno e storicamente condizionato era solo preparazione ed espressione del vero universalismo soprannaturale ossia quello cattolico. La concezione eusebiana, come è evidente, passò al medioevo e, nella logica teologico-politica, tipica dell’età di mezzo, che comportava la tendenziale eliminazione della distinzione tra le «due città» e la temporalizzazione ecclesiale, finì per «catturare» anche la Chiesa che, durante la sacrosanta lotta per la propria Libertas dal potere imperiale, cedette alla tentazione teocratica, giungendo a rivendicare illegittimamente per sé entrambe le «spade», la spirituale e la temporale. Inutile dire che lo Spirito Santo, che assiste la Chiesa nella sua indefettibilità in ordine alla salvezza, non ha affatto assistito i Papi teocratici nella loro pretesa di dominio temporale, come stanno lì a dimostrare le catastrofi storiche e politiche dei pontificati di un Gregorio VII, che pure per la Chiesa è un Santo e come tale venerato, e di un Bonifacio VIII. Tuttavia se il bilancio politico di quei Pontificati non fu certamente «benedetto dal Cielo», grande e copioso di buoni frutti ne è stato il bilancio spirituale. Comunque sia Gregorio che Bonifacio, nei momenti decisivi, seppero sempre «incarnare» l’essenza spirituale della Chiesa. Il primo, ad esempio, quando, a Canossa, perdonò Enrico IV, togliendogli la scomunica, si comportò più da Pastore che da politico. Infatti egli sapeva benissimo che perdonando l’imperatore gli avrebbe restituito la necessaria legittimità politica della quale lo stesso si sarebbe certamente servito, come gli eventi successivi confermarono, per vendicarsi del Papa e rovesciare a proprio vantaggio i rapporti di forza fino ad esiliare il Pontefice da Roma. Nessuno statista si sarebbe mai comportato come fece il monaco Ildebrando da Soana, ossia Gregorio VII. Ma egli in quel momento si ricordò che la Chiesa non è, appunto, una potenza politica e che la sua missione è quella di salvare le anime, comprese quelle degli imperatori. Gregorio antepose la propria missione sacerdotale al potere politico della Chiesa del tempo. Dette, giustamente, precedenza a Dio piuttosto che al mondo. Bonifacio VIII, dal canto suo, seppe ritrovare, al momento decisivo, il carattere mite e sovrannaturale che è proprio dell’Autorità di Pietro e, ad Anagni, mantenne dignitosamente alto il nome di Santa Romana Ecclesia protestando, inerme, davanti agli emissari del re di Francia che egli, in quanto Vicario di Cristo, non temeva nessun potere temporale. Un comportamento che gli guadagnò il giudizio positivo persino di un Dante Alighieri che, per ovvi e personalissimi motivi politici, non poteva proprio sopportarlo, tanto è vero che ne La Commedia lo ha destinato ad un tristissimo girone infernale. Detto questo non si pensi però che Costantino non abbia avuto un ruolo provvidenziale nella storia della Chiesa e della salvezza. Nulla di più lontano da noi che un facile e conformista «anticostantinianesimo», tipico di certa ecclesiologia post-conciliare. Tutt’altro che leggendario è, a nostro giudizio, almeno nelle sue linee essenziali, l’episodio del «segno» visto in cielo da Costantino alla vigilia della battaglia al Ponte Milvio contro il rivale Massenzio. Battaglia decisiva per la conquista del trono imperiale romano. Dopo quel che la nostra generazione ha potuto constatare circa il miracolo del sole a Fatima, ed in altri luoghi di apparizioni mariane, nessun cattolico può seriamente escludere la veridicità dell’evento testimoniato da Costantino ossia l’apparizione nel sole, resosi senza danni visionabile dall’occhio umano, della Croce circondata dalla nota scritta «In hoc Signo vinces». Ciò che dai più è ritenuto pura leggenda o agiografia, invece nasconde la storicità di un provvidenziale intervento celeste per aprire definitivamente alla fede cristiana le strade dell’impero. Il quale, come si è detto, nella sua rivendicazione di universalità, impossibile però a realizzarsi in termini politici e mondani (nessun impero della storia, benché l’abbia rivendicato, è mai  stato davvero universale), era nient’altro che prefigurazione della vera universalità: la cattolicità della Chiesa di Cristo. Non a caso la Provvidenza ha portato la Chiesa a porre la propria Sede Petrina, la Roccia sulla quale è stato promesso che gli inferi non prevarranno, in Roma. L’episodio «celeste» del Ponte Milvio dunque giunse al momento giusto secondo lo snocciolarsi delle tappe di un evidente e chiaro piano di salvezza universale, che è ancora in atto. Per l’Aquinate, infatti, l’Impero Romano non ha mai cessato di esistere ma è stato trasformato da temporale in spirituale nella Chiesa. Ed in tal senso «trans-storico», e solo in tal senso, continua tuttora, anche oggi, ad essere vero quanto Dante cantava circa la «Roma onde Cristo è romano».
14) Confronta Joseph Ratzinger, «L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della Chiesa», Brescia, 1973, pagina 105.
15) Confronta Joseph Ratzinger, opera citata, pagina 96.
16) Confronta M. Invernizzi «Quale ‘stile’ per il cattolico?» in Il Timone, Anno XI, maggio 2009, numero 83, pagina 59.
17) Confronta A. Del Noce «Pensiero cristiano e comunismo: inveramento o ‘risposta di sfida’?» ora in Felice Balbo «Opere 1945-1964», Torino, 1966, pagine 980-981.
18) Confronta M. Borghesi «Ritorno ad Agostino» in AA.VV. «Il potere e la grazia - attualità di Sant’Agostino», Nuova Omicron, Roma, 1998, pagine 46-47. Si noti che l’intervento di Borghesi fu inizialmente pubblicato su Il Sabato del 5 giugno 1993, pagine 68-72, ossia quando il movimento di Comunione e Liberazione, del quale quella rivista settimanale era l’organo ufficiale, era su posizioni del tutto critiche verso l’occidentalismo ed il neoliberismo all’epoca trionfanti. In anni più recenti, dopo la svolta filo-americana, anche CL, salvo alcuni suoi settori romani che gravitano intorno alla rivista mensile 30Giorni, si è meschinamente allineata su posizioni «cristianiste» nel panorama huntingtoniano dello scontro di civiltà. Ciò è stato causato probabilmente dalla convergenza di due fattori, uno culturale e l’altro molto più bassamente prosaico. Il primo è il ritorno del fondatore, ora defunto, monsignor Giussani a sue giovanili simpatie per certa teologia protestante americana di tipo liberale che lo stesso Giussani, non si sa fino a che punto consapevolmente o sulla scia di una più generale tendenza, quella descritta da Borghesi, al passaggio da posizioni liberal a posizioni cons e neocon, rilesse in chiave conservatrice, contestualmente aprendo ad un ecumenismo verso il mondo ebraico, giustificato in nome della comune appartenenza occidentale (non certamente a caso egli in una collana di «libri dello spirito cristiano», da lui diretta, fece pubblicare il libro del Dawson «Il cristianesimo e la formazione della civiltà occidentale»), senza però debitamente rimarcare la «sospensione» dell’ebraismo dall’Alleanza di Abramo adempiutasi in Cristo e quindi indulgendo un po’ troppo ad una sorta di parallelismo delle salvezze tra gentili ed ebrei, tra Chiesa ed Israele post-biblico. Il secondo fattore è costituito dal fatto che il braccio secolare di CL, la Compagnia delle Opere, ha esteso i propri affari negli States mentre quindici/venti anni fa essi gravitavano per lo più nella berlusconiana e craxiana «Milano da bere». E’ triste dirlo e constatarlo ma è così. Abbiamo ottimi e cari amici ciellini ai quali va tutto il nostro affetto: essi sono i primi consapevoli di questa virata e ne soffrono intensamente.
19) Confronta M. Borghesi, opera citata, pagina 53.
20) Confronta J. Ratzinger, opera citata, pagina 171.
21) Confronta J. Ratzinger opera citata, pagina 108.
22) Si vedano i primi due capitoli di M. Blondet «Gli ‘adelphi’ della dissoluzione - strategie culturali del potere iniziatico», Ares, Milano, 1994, pagine 5-28.
23) Confronta M. Blondet, opera citata, pagine 6-8.
24) Confronta Sant’Agostino, «La Città di Dio», Rusconi, Milano, 1990, pagina 972.
25) Confronta J. Ratzinger, opera citata, pagine 44-45.
26) Confronta M. Blondet, opera citata, pagina 23, nota 3.
27) Confronta M. Blondet, opera citata, pagina 27.
28) Confronta J. Ratzinger, «Fede Verità Tolleranza - il Cristianesimo e le religioni del mondo», Cantagalli, Siena, 2005, pagine 223-244.


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