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L’usura come «mutuo speciale»
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Il mutuo in genere è un contratto bilaterale, con cui una parte concede all’altra una res consumptibilis (che perisce ipso facto coll’uso di essa), con obbligo di restituzione dell’equivalente dopo un certo lasso di tempo. Per esesmpio dò una salsiccia, un litro di vino, un provolone, una pagnotta di pane e dopo un mese o un anno mi devi ridare l’equivalente, nulla di meno nulla di più.

L’usura è prestito o mutuo del denaro (1) o di una res cosnsumptibilis a interesse o pagamento, per l’uso del denaro o della res stessa. L’etimologia è uso o consumo, ossia mi devi pagare anche il consumo o il suo uso. Onde se ti dò 100 lire dopo un mese mi dovrai 100 + 10 lire.

L’usura per San Tommaso (S. T., II-II, q. 78, aa. 1-4) è peccato contro la giustizia commutativa (che obbliga al contraccambio equivalente, se ho ricevuto 100 kg di oro debbo solo altri 100 kg di oro, né più né meno). Per Platone, Aristotele, Catone, il Codice di Giustiniano (2), i Padri latini e greci, San Tommaso e gli scolastici, il denaro non è una cosa produttrice ex natura sua di nuovo valore. Per la modernità, invece, il denaro è una res che per sua natura produce altro denaro.

Secondo la Teologia Scolastica solo due fonti possono dare lucro lecito: la natura o sostanza (albero da frutta, casa, terreno); e il lavoro (seminare, irrigare, mietere, potare, raccogliere). Anche Dante riprende tale concetto «E poiché l’usuriere altra via tene, per se natura e per la sua seguace (industria o lavoro)/dispregia, poi ch’in altro (guadagno per l’uso del denaro prestato) pon la spene» (Inferno, XI, 109-111). «L’unico onere imponibile nel mutuo è quello della restituzione del denaro nella stessa quantità in cui fu ricevuto, (…) traslazione del dominio e gratuità dell’uso. Violando questo si ha l’usura (F. Roberti-P. Palazzini, ‘Dizionario di Teologia Morale’, Roma, Studium, 6a edizione, 1968, 2° volume, pagina 1.738)».

La natura o sostanza si suddivide in:
ά) cose che permangono in essere dopo l’uso e che sono ex se fruttifere (albero, campo, casa, cavallo).
β) cose che periscono con l’uso medesimo (consumpibiles) che sono sterili o non produttive ex se di altro valore (pasta, salsiccia, vino).

San Tommaso (Somma Teologica, II-II, q. 78, a. 1, in corpore) insegna che «l’interesse per il denaro prestato o usura è per se stesso un’ingiustizia: poiché si vende una cosa inesistente (…). Infatti, per le cose il cui uso coincide col loro totale consumo (…), non si deve computare l’uso come distinto  dalle cose stesse. Per queste cose il prestito equivale ad un passaggio di proprietà. Quindi se si volesse vendere il vino separatamente dal suo uso, si venderebbe 2 volte la stesa cosa o ciò che non esiste».

Il capitale è una res [bene mobile (automobile) o immobile (casa) non consumabile con l’uso] che ha una lucrosità intrinseca (casa, terreno, automobile), il cui uso (abitare, seminare, far da taxi) è distinto e separabile dalla sostanza e quindi può essere oggetto lecito di mutuo o contratto, indipendentemente dalla sostanza (affitto la casa per abitazione e mantengo la casa; affitto il campo per la semina e mantengo il terreno; affitto l’auto a un taxista e tengo la proprietà dell’automobile). Per la modernità, invece, il denaro è capitale, che per sua natura deve produrre altra ricchezza o parte di ricchezza prodotta, destinata a nuova produzione.

Le cose che usate cessano di esistere (sale, olio, benzina) hanno un uso utile, che non è distinguibile dalla loro sostanza o natura (natura del sale o dell’olio è di condire un cibo, che viene distrutto tramite manducazione; mentre la benzina fa correre un’automobile, per combustione e distruzione totale di se stessa). Dal loro uso ne deriva un utile, ma quest’utile formalmente lo si ottiene tramite distruzione totale della cosa, natura o sostanza. Quindi l’uso non è distinguibile dalla cosa o sostanza. Ora, se non è distinguibile non è neppure «apprezzabile» o valutabile distintamente da essa. Quindi, l’uso non può essere oggetto lecito di mutuo, contratto, distinto dalla cosa. Altrimenti farei pagare 2 volte la stessa cosa, la natura o sostanza e in più l’uso che distrugge ex se la sostanza.

Ossia, mentre posso lecitamente affittare una casa e far pagare un affitto, mantenendo la sostanza della casa e concedendo solo l’uso, che essendo distinto dalla res è stimabile e fruttificatile, non posso fare un contratto sulla benzina venduta a 100 lire il litro come sostanza chiedendo un guadagno ulteriore per l’uso, dacché il litro di benzina (o sostanza) pagato è consumato ipso facto nell’uso della benzina (accensione del motore). Le cose infruttifere o sterili non possono essere vendute e in più si pretende l’utile o il guadagno sull’uso di esse, poiché l’uso equivale alla sostanza che è distrutta dall’uso. Onde se vendo una cosa infruttifera o sterile (benzina, olio, sale) dò il diritto di distruggerla; in giustizia commutativa si può chiedere lecitamente solo l’equivalente in quantità (100 litri) e qualità (vino Barolo, non vinaccia) o il prezzo in denaro (10 mila lire) che si era pattuito e nulla di più, altrimenti pecco contro la giustizia commutativa (contraccambio equivalente) poiché vendo 2 volte la stessa cosa («bis vendere idem est vendere etiam quod non existit»).

Tuttavia - per i tomisti - vi sono tre eccezioni, che confermano la regola e che rendono lecito il guadagno sul mutuo di una cosa consumabile e infruttuosa: ne subisco un danno (non ho più l’olio per fare i dolci che vendevo; non ho più il milione con cui potevo comprare una casa); cessa il lucro che ottenevo dalla cosa (la mia famiglia beveva il vino e ora lo deve comprare; deve andare in affitto poiché non ho potuto acquistare la casa); corro il pericolo di non riavere il mio (Tizio è vecchio o poco serio e forse non arriverà all’anno prossimo o non vorrà restituire il dovuto). In questi tre casi si ha il diritto di esigere qualcosa, ma non in forza del mutuo o prestito o dell’uso del denaro, bensì per motivi estrinseci al mutuo in quanto tale o all’uso del denaro (confronta  Billuart, «Cursus Theologiae. Tractatus de contractibus», diss. IV, a. 5 § 4, che cita in suo favore Sant’Antonino, Gaetano, Ferrarensis); mentre San Tommaso ammette solo la prima eccezione «damnum emergens» e non le altre due «lucrum cessans» e «periculum sortis» ossia pericolo di perdere il denaro prestato e solo Domingo Soto con pochissimi altri lo seguono. In pratica mi sembra che le altre due circostanze seguano la prima.

Il denaro

Per gli scolastici è uno strumento che serve per lo scambio di cose di valore. I prodotti possono venir scambiati l’uno con l’altro e si ha il baratto; tuttavia, sin dai tempi più antichi, si vide la necessità di avere uno strumento che fungesse da intermediario nell’effettuazione di tutti gli scambi: esso è il denaro o la moneta. Per esempio vivo a Roma e voglio acquistare un castello a Milano e non posso portare da Roma a Milano un altro castello simile, onde mi servo del denaro come strumento di scambio: io ti dò 1 milione, tu mi dai il castello. Onde il denaro è solo misura o valore di scambio delle merci (prezzo). Esso rappresenta le cose, le misura (1 milione = misura del valore del castello, rappresenta o «rende presente» il castello) e le trasporta da un luogo (Roma) all’altro (Milano). San Tommaso lo definisce «misura delle cose venali o che si vendono».

«Il denaro è stato inventato principalmente per facilitare gli scambi: quindi l’uso proprio del denaro è il consumo o la spesa che di esso si fa negli scambi. Perciò di suo è illecito percepire un compenso per l’uso del denaro prestato, cioè per l’usura» (S. T., II-II, q. 78, a. 1, in corpore).

Esso ha relazione con tutte le cose che possono essere commutate (scambiate reciprocamente) nei vicendevoli rapporti economici umani, ma non con le altre cose che stanno al di fuori di tali rapporti. Vale a dire il valore di una cosa (casa o castello) è misurato dal prezzo (misura o valore) che se ne dà per averla (1 milione per il castello, cento mila per la casa) questo prezzo o valore o misura è il denaro il quale ha lo scopo di essere speso nella commutazione con altre cose. Questa è la sua funzione, mezzo di scambio. Come la bilancia sta a tutto ciò che pesa per pesarlo, il metro a ciò che è lungo per misurarlo, così il denaro sta a tutte le cose venali o che si vendono in quanto misura il loro valore. Onde il compito del denaro si esaurisce nel misurare il valore di ciò che si vende, come la bilancia misura ciò che pesa e il metro la lunghezza. Se la essenza o natura del denaro è di essere misura e non di produrre altro denaro, il suo uso ordinato di mezzo al fine è che di fatto misuri. Se utilizzo la bilancia per navigare o il metro per volare, li uso contro natura, contro il loro fine, così se utilizzo il denaro non solo come misura del valore di una cosa venale, ma come principio e fonte di produzione di ricchezza lo snaturo ed è perciò che l’usura è un peccato contro natura. Onde il denaro serve ad essere commutato con un’altra cosa (1 milione-castello) ossia speso nello scambio di due cose. Di qui nasce la identità tra denaro e res consumptibilis al primo uso, infatti come consumo il vino quando lo bevo, così consumo il denaro (1 milione) quando lo scambio col la res venalis (castello). Onde il denaro è res sterilis ex natura sua. Questo è il principio che regola il problema dell’usura. Il denaro per sua natura è sterile e non può essere impiegato come produttore di altro denaro.

Tuttavia «de pecunia lucrari posse», col denaro più l’industria o lavoro umano si può guadagnare, però il lucro è originato dal lavoro o industria umana unite al denaro e mai dal solo denaro in sé. Quindi non licet separare la sostanza del denaro dal suo uso distinto dalla sostanza e stimabile separatamente da essa. Se dono l’uso del denaro dono anche la sostanza e viceversa se dono la sostanza del denaro dono anche il suo uso, come chi vende il vino vende eo facto anche l’uso di esso. Quindi non posso chieder di più di quanto ho dato. Perciò il contratto o mutuo sul denaro per essere lecito o è unilaterale e gratuito, una donazione; oppure se è bilaterale e oneroso, l’unico onere imponibile è la restituzione del denaro nella stessa quantità in cui fu ricevuto, tranne i tre casi di eccezione: «cessazione di lucro», «danno emergente» e «pericolo di non restituzione», se violo tale principio c’è l’usura che lede la giustizia commutativa e obbliga alla restituzione del plus.

Cinque concilii ecumenici (Lateranense III, IV, V, Lugdunense II, di Vienne) hanno condannato l’usura. Benedetto XIV, nell’enciclica «Vix pervenit» del 1 novembre 1745 ha confermato le leggi precedenti.

«Dal prestito, per sua natura, si esige che sia restituito solo ciò che fu prestato. Se si chiede più di ciò che si prestò, pretendendo che oltre il capitale sia dovuto un certo guadagno in ragione del prestito stesso, vi è usura. (…) Non si nega che talvolta nel contratto di prestito possano intervenire alcuni altri titoli esterni al mutuo stesso (…) e che da essi derivi una ragione lecita per chiedere qualcosa in più del capitale che si prestò».

Se in pratica la disciplina viene mitigata, non è per il cambiamento della dottrina sul concetto di denaro o usura, ma «questo cambiamento viene attribuito alle condizioni economiche e ai titoli estrinseci moltiplicati. La dottrina tradizionale resta però sempre immutata (F. Roberti-P. Palazzini, ‘Dizionario di Teologia Morale’, Roma, Studium, 6a edizione, 1968, 2° volume, pagina 1.738)». Il CIC (1917) canone 1.543 sanziona tale principio nella prima parte del canone citato «se un bene viene dato a qualcuno in proprietà perché lo restituisca più tardi nello stesso genere, da questo contratto non è lecito prendere nessun guadagno in ragione dello stesso contratto (‘ratione ipsius contracti’)». Tuttavia dopo aver ribadito, in teoria nella prima parte, la dottrina tradizionale sulla sostanza o natura del mutuo, la seconda parte del canone parla, in concreto, delle circostanze estrinseche al mutuo «nel prestito della cosa fungibile, non è illecito mettersi d’accordo su un guadagno ammesso dalla legge, eccetto che non consti essere sproporzionato».

Esso, secondo i canonisti approvati e recenti, si rifà alle tre circostanze di cui parlano i tomisti «damnum emergens, lucrum cessans, periculum sortis et dilationis», le quali verificandosi di fatto, possono costituire altrettanti titoli al diritto di compenso o interesse proporzionato (confronta F. Roberti-P. Palazzini, opera citata, pagine 1.739-1.740), se vi è sproporzione vi è usura. Il CIC non ha cambiato la dottrina tradizionale definitivamente ultimata dalla scolastica; infatti «solo i titoli estrinseci al mutuo, quando si verificano, possono giustificare il diritto-dovere degli interessi e determinare la giusta misura» (ivi).

I moralisti odierni si attengono a San Tommaso, ma aggiungono che data la situazione economica attuale (la moneta non ha più riserva aurea) il prestito di denaro può essere considerato un lucro cessante («lucrum cessans») ed è lecito chiedere un interesse nei limiti permessi. Il principio della gratuità del prestito permane, secondo l’adagio «date mutuum, inde nihil sperantes». Tuttavia se il valore intrinseco della moneta è mutato, per inflazione o riduzione del fondo aureo, «bisogna restituire la moneta avente lo stesso valore intrinseco che aveva al momento in cui fu concluso il contratto (A. Vermeeersch, ‘Quaestiones de justitia’, Bruges, 1904)».

Inoltre data la svalutazione costante della moneta, se presto 1 milione nel 1980 non è giusto che nel 2000 riceva solo 1 milione, poiché il valore di acquisto della moneta è cambiato. Il guadagno non è frutto della sostanza del denaro in sé ma vi è la circostanza estrinseca alla sostanza del denaro: danno («damnum emergens») poiché il milione del 2000 non ha lo stesso valore o misura di quello del 1980.

Obiezione

secondo alcuni moralisti «probati» moderni, San Tommaso avrebbe preso troppo sul serio la concezione di Aristotele (V Ethic, c. 5, lect. 9; I Pol. , c. 3, lect. 7) secondo la quale il denaro è una res consuntibile. Ora tale concetto aristotelico non sarebbe accettabile oggi; infatti il denaro come tale, intrinsecamente, si può sostituire a beni non consuntibili e quindi l’usura o vendita dell’uso del denaro è lecita (vedi padre Tito Sante Centi) poiché il denaro «di suo non è un bene di consumo ma fungibile di valore universale».

Risposta: mi sembra che già in San Tommaso si trovi la risposta a questa duplice obiezione,
a) il denaro si può sostituire a beni non consumabili, in quanto è la misura del loro valore e non in quanto bene non consumabile in sé. Onde non può essere considerato come fonte di ricchezza ma solo come misura del valore o del prezzo;
b) inoltre esso è «misura o valore di tutte le cose venali» e deve essere scambiato commutativamente con esse, onde di suo o intrinsecamente non produce ricchezza aggiunta tramite l’uso alla sua sostanza o natura.

Secondo la legislazione vigente

Il «Testo Unico Bancario» sancisce che il tasso d’interesse massimo, oltre il quale vi è usura, è stabilito dall’«Ufficio Italiano Cambi». In questo modo la ‘Banca Centrale’ stabilisce il valore minimo e massimo entro i quali variano i tassi d’interesse. I moralisti stabiliscono che il tasso di restituzione deve essere quello d’inflazione reale registrato dall’«ISTAT» (in Italia) che attualmente oscilla tra il 4-5%, poiché l’«ISTAT» fa riferimento all’aumento annuo dei beni di prima necessità quali il gas, la luce, il petrolio e i trasporti. Quindi il prestatore deve ottenere, al tempo convenuto, una restituzione di una somma equivalente a ciò che avrebbe potuto acquistare con la somma prestata nella data del mutuo, ossia prestito iniziale + tasso d’inflazione reale. Per esempio se ho prestato 1.000 euro nel 1990, nel 1991 la restituzione dovrà essere di 1.000+ 40-50 euro, non di più; se invece passano 10 anni, nel 2000 dovrò riavere 1.000+ 400-500 euro, altrimenti ci ho rimesso poiché il potere d’acquisto dell’euro 10 anni dopo è inferiore a quello di 10 anni prima del 40-50%. Questa non è usura ma giustizia commutativa, che altrimenti verrebbe violata dal restitutore del mutuo. Le Banche sogliono dare un interesse annuo pari al 2-3% e chiedere un interesse per il prestito pari al 20-30%. Ciò, moralmente, è già usura. Legalmente lo Stato considera usura ciò che sorpassa notevolmente quanto chiede la banca, ossia oltre il 60%.

Don Curzio Nitoglia



1) Sotto i pontificati di Vittore (189-199), Zefirino (199-217) e Callisto (217-222), Ippolito
Romano nel suo «Philosophoumena», IX 2, 11-12 (Elenco di tutte le eresie), narra la vicenda del fallimento della banca del futuro Papa Callisto, situata presso il quartiere della Piscina pubblica; Callisto era un cristiano schiavo («servus») di Marco Aurelio Carpoforo («pater familias seu dominus») anch’egli cristiano. Ciò conferma l’uso comune tra i primi cristiani di affidare agli schiavi la conduzione delle proprie banche, poiché non si attribuiva un valore assoluto al denaro, ma neppure lo si disprezzava come intrinsecamente perverso. Esso era reputato strumento di scambio e utilizzato come mezzo utile a cogliere il fine, tanto quanto né più né meno. L’investimento e l’impiego bancario potevano proteggerlo o mandarlo in fumo, essi erano reputati leciti ma non l’optimum, infatti erano lasciati agli schiavi. Solo un uso del denaro finalizzato anche, ma non esclusivamente, alla carità verso il prossimo poteva impreziosirlo soprannaturalmente e renderlo imperituro. Infatti, Callisto pur avendo fallito con la banca, riuscì a sovrintendere a quelle catacombe che ancora oggi portano il suo nome («sopra la banca la Patria campa, sotto la banca la Patria crepa»). Il successo dell’impresa cimiteriale era dovuto innanzitutto alle elargizioni delle matrone romane di rango senatoriale e di facoltosissimi uomini d’affari, i quali non erano pauperisti né liberisti, non disprezzavano la ricchezza né la esaltavano come il fine ultimo della vita umana,
ma ne usavano come un mezzo che è indifferente in sé e diventa buono o cattivo a seconda dello scopo con cui è usato. Il Vangelo ci insegna: «Fatevi degli amici con le ricchezze periture, che vi accolgano negli eterni tabernacoli», ossia facendo l’elemosina ai «santi»-poveri, si presta a Dio ed Egli ci ricompenserà facendoci entrare nei seggi del Cielo eterno. E’ quello che ha capito il cristianesimo e che è stato pervertito, per eccesso, dal liberismo e per difetto dal socialismo.
2) Confronta S. Mazzarino, «L’impero romano», Roma, Tuminelli, 1962, pagine 291-304.

Bibliografia

Bernard, D. Th. C., voce «Usura», volume XV, coll. 2323 ss.
D. Prümmer, Manuale Theologiae moralis, II volume, pagina 245.
F. De Vitoria, «Commentarios a la Seconda Secundae de sancto Thomàs», Salamanca, 1934, t. III, pagina 236 seguenti.
E. Degano, «Mutuo e usura in Benedetto XIV», Roma, 1960.
E. Degano, voce «Usura», in «Enciclopedia Cattolica», Città del Vaticano, 1954, volume XII.
G. Aspiazu, «L’uomo d’affari», Roma, 1954.
M. Mastrofini, «Le Usure», Roma, 1831.
J. Pieper, «Sulla Giustizia», Brescia, 1956.
C. Spiq, «La justice», Parigi, 1934.


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