Known Unknowns: la Finanziaria nella valigia
10 Giugno 2009
Partiamo da una notizia che ha dell’incredibile, ma che serve a capire cosa sia il denaro oggi.
Dopo averne letto su «Il Giornale», mi sono stropicciato gli occhi e
sono andato a verificare direttamente sul sito ufficiale della Guardia
di Finanza, perché non ci credevo. Invece la notizia è recentissima ed
è vera: funzionari della Sezione Operativa Territoriale di Chiasso, in
collaborazione con i militari della Guardia di Finanza del Gruppo di
Ponte Chiasso, nel corso dei controlli volti al contrasto del traffico
illecito di capitali hanno sequestrato a due cinquantenni giapponesi,
scesi alla stazione ferroviaria di Chiasso da un treno proveniente
dall’Italia, la bellezza di duecentoquarantanove bond della Federal
Reserve statunitense, del valore nominale di 500 mln di dollari
ciascuno, più 10 bond Kennedy da 1 mld di dollari ciascuno, oltre ad
altri titoli di Stato a stelle e strisce, debitamente occultati nel
doppio fondo di una valigia: valore complessivo del «tesoretto» 134 mld
di dollari, pari a oltre 96 mld di euro
(1).
Questa era la notizia da sparare in prima pagina, mica le tette di
Noemi! Invece, dopo il primo giorno silenzio. Silenzio totale. Non vi
pare strano? Strano se i soldi fossero veri, più strano ancora se sono
falsi!
Perché forse non avete capito bene, ma si tratta di circa 180.000
miliardi di vecchie lire! Sono sette volte l’ultima legge finanziaria e
il doppio della manovra finanziaria che fece Giuliano Amato nel 1992,
quella lacrime e sangue! Per capirci meglio, i danni per il sisma
dell’Abruzzo sono stati stimati da Guillermo Franco (senior engineer di
AIR Worldwide, società che si occupa di modelli di rischio da
catastrofi) in una cifra fra i 2 miliardi e i 3 miliardi di euro.
Insomma quei due cinquantenni con gli occhi a mandorla con quel
tesoretto, che avevano nel doppiofondo della valigia, potrebbero
ricostruire da 30 a 45 volte l’Abruzzo!
Mi domando: ma cosa sono, da dove vengono quei soldi? Non eravamo in
una crisi epocale? Non c’era in giro una crisi di liquidità? Com’è che
qualcuno se ne va in giro con 7 finanziarie nel doppio fondo di una
valigia?
Frattanto cercano di convincerci che tutto va bene, che la normalità è
tornata: «La severità di questa recessione causerà ulteriori perdite di
posti di lavoro, ulteriori pignoramenti, ulteriori dolori, ma nel punto
in cui ci troviamo, per la prima volta possiamo iniziare a vedere
barlumi di speranza». Così parlò Barak Obama e tutti ad applaudire
(2).
Come a dire che la crisi è finita, siamo in fondo al tunnel, vediamo
la luce, l’America è in ripresa, l’Eurozona è in ripresa, l’economia è
in ripresa, la finanza è in ripresa, i catastrofisti sono serviti, i
complottisti pure, dalla crisi usciremo più forti, un mondo migliore ci
aspetta: ottimisti di tutto il mondo unitevi, sorridete, alleluja! Se
fossimo in tempi civili, non dico che avremmo già preso i forconi e
fatto penzolare qualche solone dell’economia e qualche dozzina di
banchieri, ma almeno una strizzatine alle parti molli gliela avremmo
rifilata. Siccome però siamo civilizzati, il direttore non ce lo
consentirebbe e l’editore ci censurerebbe, non lo facciamo, non
esortiamo a farlo, manteniamo un contegno, molto sangue freddo e alcune
dosi - abbondanti! - di sedativi. Perchè la verità è un’altra.
Andiamo con ordine e lasciamo parlare i fatti. E’ il settembre del
2008, quando l’ineffabile governatore della BCE Jean Claude Trichet
annuncia trionfante «urbi et orbi» (… e soprattutto agli orbi!) che la
frenata della crescita economica europea si protrarrà per tutta
l’ultima parte dell’anno in corso, mentre per una graduale ripresa
bisognerà attendere il 2009…
(3).
Il 5 marzo 2009 il nostro ci ripensa e ci informa che no, l’economia
dell’eurozona inizierà sì una graduale ripresa, ma solo a partire dal
2010
(4).
Dopo due settimane appena, il 19 marzo, la ripresa diventa moderata, ma
soprattutto da certa diventa solo possibile, mentre il 2009 viene
classificato come «un anno molto difficile, ma» - e qui mi tocco -
Trichet ci rassicura che «siamo quasi tutti d’accordo che il 2010 potrà
essere un anno di moderata ripresa»
(5).
Il 17 aprile 2009 la tendenza è confermata, confermatissima. Il 2009
sarà un anno difficile per l’economia globale ma la ripresa inizierà
nel 2010 e l’impareggiabile Trichet si compiace per i recenti commenti
delle autorità statunitensi che hanno dichiarato che un dollaro forte è
nell’interesse dell’America
(6).
L’11 maggio nella conferenza stampa al termine del Global Economy
Meeting, di cui è presidente, Trichet annuncia che i mercati sembrano
tornati a una situazione precedente al fallimento di Lehman Brothers,
che la crisi economica globale ha «toccato il fondo» e che alcuni Paesi
mostrano segnali di crescita
(7).
Qualche giorno dopo (14 maggio 2009) il quadro delineato dalla BCE nel
suo bollettino mensile comincia a disallinearsi un po’ dal «moderato»
ottimismo del suo presidente: «L’economia mondiale, inclusa quella
dell’area dell’euro, permane in forte rallentamento, con la prospettiva
di un continuo marcato ristagno della domanda sia interna che esterna
nel 2009 e di una sua graduale ripresa nel corso del 2010». Ma gli
utili dati economici e i risultati delle ultime indagini congiunturali
«forniscono incerti segnali di stabilizzazione su livelli molto
contenuti, dopo un primo trimestre nettamente più negativo delle
attese». La Banca Centrale Europea prevede dunque «alcuni andamenti
avversi che verosimilmente si concretizzeranno nei prossimi mesi, tra i
quali l’ulteriore deterioramento delle condizioni del mercato del
lavoro»
(8).
Meno di un mese (è il 4 giugno 2009, qualche giorno fa… ) e la
situazione precipita: la BCE taglia le stime 2009. Il PIL del’Europa si
attesterà tra il -5,1% e il -4,1% del PIL, mentre una crescita
economica è attesa solo dopo la metà del prossimo anno: nel 2010 la
dinamica prevista è tra un -1% e un +0,4%. Solo tre mesi prima, a
marzo, i tecnici della BCE indicavano per il 2009 una recessione più
contenuta (tra il -3,2% e il -2,2%, mentre per il 2010 stimavano una
dinamica tra il -0,7% e il +0,7%. Tutto questo mentre i tassi restano
inalterati al minimo storico dell’1%
(9).
Dal canto suo il 20 maggio 2009 la Federal Reserve aveva già tagliato
le stime sull’andamento del PIL statunitense per il 2009, ipotizzando
una ulteriore contrazione compresa tra il 2% e l’1,3% nell’anno in
corso
(10).
Secondo le ultimissime stime aggiornate del Fondo Monetario
Internazionale, anche il PIL mondiale nel 2009 si attesterà in caduta
libera con un -1,3% e la contrazione delle grandi potenze economiche
sarà generalizzara: Giappone -6,2%; Eurozona -4,2%, USA -2,8%, mentre
il 2010 segnerà un andamento sostanzialmente piatto, altro che ripresa!
(11).
Il 6 giugno 2009 il presidente della Bundesbak, Axel Weber, membro del
consiglio dei governatori della BCE, dopo una serie di dichiarazioni di
prammatica, ammette: «le previsioni restano molto incerte»
(12).
Incerte? In America infatti non si fanno illusioni. Dietro l’ottimismo
di facciata di Obama, sta la gelida consapevolezza del governatore
della Federal Reserve Ben Bernanke, che il 24 febbraio 2009, parlando
davanti al Congresso USA e specificando che la recessione potrebbe
finire quest’anno se i mercati saranno stabili (il che non sembra),
toglie ogni illusione sul futuro a breve e medio termine: una ripresa
complessiva arriverà soltanto fra tre anni
(13).
Pochi giorni dopo anche il Fondo Monetario Internazionale ammette che,
se ripresa ci sarà, comincerà solo da metà del 2010 ed è costretto a
rivedere al ribasso le sue precedenti stime, dove aveva parlato di una
crescita complessiva della produzione al lumicino, ma comunque
positiva, a +0,5%. E invece si scenderà a -0,6%: un fatto senza
precedenti dalla seconda guerra mondiale. Il dato di quest’anno è stato
molto preoccupante, la produzione industriale di gennaio è andata a
picco, malissimo il settore automobilistico e il crollo dei colossi di
Detroit è lì a dimostrarlo
(14).
Frattanto scatta l’allarme inflazione: Trichet, sempre lui, parla di
stabilità dei prezzi (in effetti l’aumento di liquidità dovrebbe
generare inflazione) e che l’Eurotower «deve assicurare la stabilità
dei prezzi ed è convinta che la stabilità dei prezzi è un prerequisito
della crescita e della creazione di occupazione». Per questo «non ci
deve essere nessuna compiacenza» e «la stabilità dei prezzi nel medio
termine va assicurata»
(15).
Già perché - come aveva ammonito a fine marzo il presidente
dell’Eurogruppo, Jean-Claude Junker, intervenendo alla commissione
Affari economici e monetari del Parlamento europeo «le notizie sono
sempre più negative. La situazione economica nella zona euro continua a
degradarsi e quella sui mercati finanziari resta fragile. All’orizzonte
si profila il rischio di una rottura della coesione sociale ed esiste
il forte rischio che al termine della crisi ci si possa ritrovare con
una inflazione galoppante, come ha dimostrato la storia». E ciò, pur
commentando il dato di marzo che indica una inflazione nella zona euro
scesa allo 0,6%, il livello più basso di sempre. Secondo Junker «non
c’è il rischio che qualche Stato possa essere insolvente, anche se
qualcuno trova finanziamenti sui mercati un po’ più cari di altri», ma
i leader europei «hanno l’obbligo a breve di pensare ad una strategia
di uscita per un consolidamento di bilancio per quando ci sarà la
ripresa». In poche parole stampare soldi ci ha salvato per ora dal
tracollo, ma il problema è solo rimandato
(16).
Fatto sta che la fiducia di imprese e consumatori nella eurozona resta
ai minimi storici: mai così bassa dal gennaio 1985, assicura la
Commissione UE. Nei primi tre mesi dell’anno è l’Italia il Paese che fa
registrare il calo «più significativo» delle aspettative di imprese e
consumatori, con un livello mai così basso da oltre ventiquattro anni,
anche se a marzo sono rimasti stabili rispetto a febbraio. Qualcuno
intravede un segnale, seppur timidissimo, di ripresa. Peccato che
l’indicatore relativo al settore finanziario è crollato nell’ultimo
mese di ben quattro punti nella eurozona. In questo quadro - sottolinea
la Commissione UE - in Italia la fiducia è colata a picco più che in
altri Paesi: a marzo 4,5 punti in meno, rispetto a una media euro pari
a -0,6 punti
(17).
Ma non è questione di fiducia, non è sindrome psicologica: è la fredda
realtà dei dati a parlare da sola e gli italiani sono quelli che
sembrano in realtà averlo capito prima degli altri. Infatti nella zona
UE (i dati sono dello scorso fine settimana) crolla il PIL: -2,5%
rispetto all’ultimo trimestre 2008. Il dato peggiore riguarda la
Germania (-3,8%), seguita da Austria e Olanda (-2,8%), Italia (-2,4%),
Spagna (-1,9%), Belgio (-1,6%) e Francia (-1,2%). Nell’UE-27 il calo è
stato del 2,4%, col Regno Unito a -1,9%. Su base annua, invece, nel
primo trimestre 2009 il PIL è diminuito del 4,8% nella zona euro e del
4,5% nell’UE-27. E dopo la Germania (-6,9%), c’è l’Italia (-5,9%), poi
Francia (-3,2%) e Spagna (-3,0%). La recessione fa segnare un calo
dello 0,5% nella spesa delle famiglie per i consumi, ma sopratutto un
calo del 4,2% degli investimenti, dell’8,1% dell’export e del 7,2%
delle importazioni. Frattanto sempre nel primo trimestre 2009 il PIL
USA è calato dell’1,5%, mentre quello del Giappone del 4,0%
(18).
Intanto il tasso di disoccupazione nei Paesi che compongono l’area
dell’Euro in aprile si è attestato al 9,2% contro l’8,9% di marzo, mai
così alto dal settembre 1999. Nell’UE-27 il tasso è arrivato all’8,6%,
contro l’8,4% di marzo. Si tratta di 14.579.000 persone nella zona euro
e 20.825.000
nell’Ue-27.
In un solo mese i disoccupati sono dunque cresciuti di 396.000 nella
zona euro e di 556.000 unità nell’UE-27, mentre in un anno sono
aumentati di 3.100.000 nella zona euro e di 4.653.000 nell’UE-27. Gli
incrementi maggiori si sono avuti in Spagna (18,1%), Lettonia (17,4%) e
Lituania (16,8%), quelli più bassi in Olanda (3,0%) e in Austria
(4,2%). Il dato italiano non è ancora disponibile. In aprile 2009, il
tasso di disoccupazione dei giovani con meno di 25 anni è stato del
18,5% nella zona dell’euro e del 18,7% nell’UE-27. Un anno fa era del
14,7% in entrambe le zone. Checché ne dicano per tranquillizzarci, la
situazione è drammatica.
Per questo è stato richiesto di accelerare lo stanziamento di 19
miliardi di euro dei finanziamenti UE programmati per sostenere
l’occupazione nel periodo 2009-2010
(19).
Sull’altra sponda dell’Atlantico, mentre il petrolio tende di nuovo
verso i 70 dollari al barile ed il dollaro si svaluta sull’Euro,
favorendo l’esportazione americana, negli USA nel solo mese di maggio
si sono persi 345 mila posti, la disoccupazione ai massimi da 25 anni,
con un tasso percentuale che è salito al 9,4% dall’8,9% di aprile, il
livello più alto dallagosto del 1983 e questo nonostante gli analisti
si aspettassero un rialzo più contenuto al 9,2%. Il comparto
manifatturiero ha perso nel mese 156.000 impieghi.
L’ottimismo sbandierato da Obama è una foglia di fico che nasce dalla
constatazione che sono stati persi 345.000 impieghi, mentre gli
analisti ne attendevano 520mila ed è la minore dal collasso di Lehman
Brothers, ma la verità è che la serie consecutiva in cui si è
registrata una perdita di impieghi è salita a 17 mesi e che secondo
numerosi economisti, il tasso di disoccupazione salirà al 10% - 11% nei
prossimi mesi. Questo senza contare quanti hanno contratti part-time o
occasionali, che fa salire la percentuale degli americani senza lavoro
in maggio al 16,4% dal 15,8% di aprile
(20).
Le conseguenze in termini di default su prestiti e mutui è facilmente
immaginabile, con il probabile rischio di incrementare la spirale
congiunturale, anche grazie alla progressiva contrazione della
propensione ai consumi. Altro che fine del tunnel! E infatti qualcuno
intravede scenari ben diversi.
GEAB numero 32, il report mensile del gruppo Europe2020, aveva
anticipato le tendenze geopolitiche per il quarto trimestre del 2009,
in cui si prevedeva che la crisi sistemica globale potrebbe culminare
nel quarto trimestre del 2009 in una fase definita di «dissesto
geopolitico globale», determinata da due principali processi strategici
(21):
1) La scomparsa della base finanziaria (dollaro + debito) in tutto il mondo;
2) La frammentazione degli interessi dei principali blocchi e
dei principali attori globali, con la conseguente disintegrazione degli
attuali sistemi internazionali ed il dissesto strategico dei principali
protagonisti globali.
Riguardo alla scomparsa della base finanziaria (dollaro + debito) a
livello mondiale, va detto che le fondamenta del sistema finanziario,
sulla quale banche, assicurazioni e istituzioni globali si sono basate,
paleserebbe oggi più che mai la propria inconsistenza, per il fatto di
avere costruito il sistema su di una montagna di carta priva di
sottostante ricchezza reale, aggravata dall’aver iniettato massicce
quantità di nuova liquidità sotto forma di moneta.
Il risultato degli interventi messi in campo sarebbe stato quello di
sostituire il debito pubblico al debito privato tossico, diluendo il
valore della moneta e incrementando ulteriormente il debito pubblico,
in modo da rendere gli asset pubblici (quali i Buoni del Tesoro)
tossici, quanto e più degli asset privati, che avrebbero dovuto
sostituire. Inoltre non si sa per quanto tempo ancora occorrerà
immettere liquidità nel sistema per non vederlo crollare. Il motivo è
semplice: secondo gli analisti . lo riferisce una notizia ANSA del 17
marzo - è impossibile stabilire quanti e dove siano i titoli tossici:
nessuno lo sa o può saperlo perchè il 90% degli strumenti finanziari
circola su mercati non regolamentati e valgono complessivamente circa
dieci volte il Prodotto Interno Lordo mondiale.
Avete capito? Dieci volte il PIL mondiale! Enorme poi anche il
controvalore gestito dagli hedge fund: nel 2007 era di duemila miliardi
di dollari, superiore all’intero PIL italiano.
Data anche questa situazione, difficilmente sanabile, tutte le realtà
che siano dipendenti dal dollaro e dal livello di indebitamento dei
suoi principali operatori economici (famiglie, imprese, settore
pubblico) sarebbero le prime ad essere esposte al rischio di dissesto
nel quarto trimestre del 2009 secondo lo scenario illustrato da GEAB
numero 32. USA e Gran Bretagna sarebbero i più colpiti, ma è ovvio che
anche il resto del mondo ne risentirà.
Basti vedere cosa sta accadendo in Germania, alle prese con un deficit
di bilancio drammatico, senza precedenti dal dopoguerra ad oggi, oltre
80 miliardi di euro (oltre il 4% del PIL), che obbligherà ad un aumento
della fiscalità diffusa al pari di quanto sta già avvenendo in Islanda,
Irlanda e Regno Unito. Altri dati tedeschi: il debito sul PIL è
previsto in crescita, oltre l’80 % entro il 2010, mentre l’export
tedesco ha subito una contrazione di oltre il 25%. Il debito pubblico
tedesco diventa così il terzo debito più grande del mondo dopo quello
di Giappone ed USA (in termini quantitativi) e l’andamento della spesa
pubblica è di 500 miliardi solo per tamponare le difficoltà del sistema
bancario tedesco. E non deve sorprendere che ci sia una «corsa
all’acquisto di lingotti d’oro da parte di piccoli risparmiatori
tedeschi che hanno portato la Germania a diventare il primo compratore
al mondo di lingotti d’oro nel primo trimestre dell’anno (davanti a
Svizzera ed USA)»
(22).
La progressiva erosione della base finanziaria alla fine del 2009
determinerebbe ovviamente la volatilizzazione del potere, ricchezza e
influenza dei protagonisti della scena geopolitica e questo a sua volta
determinerà una frammentazione degli interessi e delle politiche
internazionale dei principali blocchi di Stati. La necessità di
salvaguardare se stessi e la propria sfera di influenza potrebbe
naturalmente indurre i singoli Stati - a partire da quelli più forti a
livello internazionale - a elaborare strategie di breve e medio
periodo, ignorando politiche globali di lungo periodo.
Contemporaneamente in un contesto fortemente competitivo le grandi
potenze esportatrici (Cina, Giappone, Germania ed EU) cercheranno di
mantenere per sè i mercati solvibili rimasti, mentre nel caso di
persistenza della caduta del commercio globale, queste nazioni non
avranno altra scelta che rafforzare i mercati interni, magari con forme
di protezione elaborate all’interno di strategie regionali ed in
spregio degli accordi multilaterali e delle regole esistenti. Il
localismo sarà la carta spendibile della politica nei prossimi 24 mesi:
in politica tutto questo varrà oro per le formazioni politiche
localiste, nazionaliste, antimondialiste. Vediamo come.
Tutto questo determinerà l’accrescersi delle tensioni internazionali
oltre ad un progressivo svuotamento di autorità del WTO e delle
organizzazioni sovranazionali, le quali subordinanano il loro potere al
fatto che la maggior parte dei loro membri accettino di rispettare le
regole del gioco e che alcune di esse detengano una posizione dominante
da tutti riconosciuta, accettata o subìta. Ma se i singoli membri
possono rifiutare o almeno ignorare le regole globali, queste
istituzioni sono destinate a restare senza alcun potere.
In conseguenza di ciò si potrebbero verificare due conseguenze.
La prima conseguenza sarebbe l’accentuazione dei particolarismi e
localismi a fronte di una progressiva erosione dell’attuale sistema
degli organismi internazionali ONU, WTO, OSCE, FMI, G7, G8, G20 e di
tutti i principali centri nevralgici del sistema monetario e
finanziario, mediante il ritorno di forme palesi o mascherate di
protezionismo, la crescente perdita di peso del Fondo Monetario
Internazionale ed il crollo del commercio internazionale. In
particolare, mentre l’impotenza dell’ONU fa già oggi rimpiangere
persino la Società delle Nazioni, il FMI, che potrebbe teoricamente
fornire aiuti di emergenza agli Stati sul punto di crollare, dovrà fare
i conti con il sensibile aumento di Stati a rischio default e con la
indisponibilità degli altri a conferire soldi.
L’OCSE rischia di apparire una società di consulenza e i vari G7, G8 e
G20 luoghi metafisici di astrazione economico-politica.
Conseguentemente anche i nodi strategici del sistema, come Wall Street,
la City di Londra, il centro finanziario di Tokio, così come i centri
secondari di Hong Kong, Singapore e Dubai, attentamente controllati
dalle potenze preminenti (in primis, naturalmente, gli USA) subiranno
gli effetti di questa crisi, dato che quasi 3/4 del mercato finanziario
si svolge tra Londra, New York e Tokio. Tutti e tre appartengono alla
sfera di influenza del dollaro e hanno sistemi politici strettamente
legati a Washington.
La seconda conseguenza è che tutti i cosiddetti grandi protagonisti
globali, come USA, Cina, Russia e l’Unione Europea (oltre all’area
mediorientale), a vario titolo soggetti all’influenza del dollaro,
resterebbero coinvolti e questo potrebbe generare instabilità interna
ad ognuno di essi. Ma lo scenario più inquietante potrebbe essere
quello americano.
Il processo di disgregazione geopolitica potrebbe iniziare appena dopo
questa prima fase e, come ha già anticipato in un suo articolo Maurizio
Blondet
(23),
è stato oggetto di un report presentato al Pentagono nel dicembre 2008
da Nathean Freier (professore di Strategia, Politica e Previsione dei
Rischi presso lo US Army’s Peacekeeping and Stability Operations
Institute e militare in pensione col grado di tenente colonnello), dal
titolo «Known Unknowns: unconventional ‘strategic shocks’ in defense
strategy development», edito dallo Strategic Studies Institute
dell’United States Army War College, in cui vi è descritto il rischio
di disgregazione del territorio americano e dei suoi confini sotto
l’impatto della crisi. In esso si parla di probabili e più pericolosi
shock futuri di natura non-convenzionale, di natura non-militare e di
eventi, quindi, non di competenza specifica della Difesa, con la
specifica che le minacce «di contesto» (che vengono dall’assenza di
intenzione o progetto ostile) sono le meno comprese e le più pericolose.
Quasi contemporaneamente il Managing Director del Fondo Monetario
Internazionale Dominique Strauss-Kahn, aveva messo in guardia sulla
possibilità di sommosse e disordini nei mercati globali se l’attuale
crisi finanziaria non venisse affrontata e le famiglie a basso reddito
fossero vessate da restrizioni nel credito e da una crescente
disoccupazione.
Gli USA sono ovviamente la struttura portante del paradigma
dollaro+debito, sono il condensato di tensioni sociali ed etniche
enormi, nonché di alterità geopolitiche interne molto accentuate. Gli
interessi delle diverse aree geografiche americane divergerebbero
ulteriormente con l’intensificarsi della crisi: la bancarotta della
California, si scontrerebbe con il crollo dell’area industriale del
settore automobilistico ed entrambi con la Florida, il Texas, lo Stato
di New York e Washington. Ognuno potrebbe cercare di attirare a sé le
risorse disponibili, in un agone competitivo che metterebbe sotto
stress la coesione interna del Paese. Se il potere economico
collassasse, il potere politico manifesterà, specie negli USA, tutta la
propria impotenza, sicchè il solo potere capace di mantenere la
coesione interna sarà quello militare.
Obama sa bene che quella è la casta intoccabile: Guantanamo può anche
essere condannata, ma non i suoi aguzzini e non è affatto sorprendente
che non una sola testa nell’apparato della Difesa sia caduta, pure se
la vittoria di Obama è stata ottenuta grazie alla promessa di un
rovesciamento della strategia militare di Bush. I politici cambiano, ma
i militari ed i leader restano, specie se, come ipotizza il report di
Friere, potrebbe essere l’esercito l’ultima istanza posta a
salvaguardia dell’integrità territoriale della nazione. Se ciò dovesse
accadere, o se comunque le istituzioni politiche fossero costrette ad
accentuare il ricorso all’uso monopolistico della forza per controllare
e reprimere eventuali rivolte popolari, questo determinerebbe la fine
non solo del «modello americano», ma con esso anche quello del sistema
strategico occidentale per come adesso lo conosciamo, finora
interamente centrato sugli Stati Uniti.
Ma anche senza il profilarsi di scenari drammatici o fantascientifici,
l’indebolimento strutturale del modello USA, la necessità di ricorrere
ad una crescente fiscalità per sostenere le spese, il bisogno di
operare scelte alternative tra diverse ipotesi di allocazione della
spesa (welfare o Difesa, ad esempio?), le inevitabili (queste sì!)
tensioni interne, l’appannamento del ruolo di superpotenza egemone,
l’inaffidabilità per contro del suo sistema economico-finanziario,
indebolirebbe in maniera significativa l’immagine e il potere della
potenza americana, oltrechè del sistema di coesione che vi è stato
costruito intorno.
L’articolazione del sistema internazionale andrebbe delineandosi allora
per aree di influenza geopolitica multipolare, in relazione alla
capacità di ciascun soggetto di esercitarvi la propria egemonia. E qui
i sistemi economici giocheranno la loro influenza, al pari di quelli
politici.
Da questo punto di vista l’Unione Europea, con l’eccezione della Gran
Bretagna dipende dalla base dollaro+debito, ovviamente meno degli USA:
l’euro potrebbe servire da parafulmine della crisi. Inoltre l’Europa è
più policentrica rispetto agli USA, gli Stati che la compongono hanno
margini di manovra assai più ampli. La Germania vi svolge un ruolo
centrale e in uno scenario come quello delineato tenderebbe
inevitabilmente a guardare al suo destino manifesto, che è ad Est, se
non altro per gli approvvigionamenti energetici. Dietro la vicenda
Opel, c’è qualcosa che noi non comprendiamo completamente. Però a
Berlino debbono avere pensato che legarsi attraverso il capitale
«anglofilo» di Fiat a Crysler avrebbe significato compromettersi
ulteriormente con l’area dollaro. Se è vero che c’è chi invece paventa
per contro non il crollo USA, ma quello dell’Unione Europea o
dell’Euro, perché le banche europee sarebbero più esposte delle loro
controparti americane per centinaia di miliardi di asset tossici in
particolare nell’Est, è altrettanto vero che il default sarebbe
territorialmente limitato e che in tale contesto circoscritto l’azione
eventuale di risanamento potrebbe essere assai più facilmente
praticabile. In tempi di crisi l’organismo piccolo può essere curato
più efficacemente.
Si dice anche che la crisi USA rischia di trascinare la Cina e la
Russia, la quale ultima, a partire dal caso Opel-Magna, manifesta tutta
la sua volontà di legarsi alla eurozona, abbandonando la dipendenza
dall’area dollaro, offrendo ed agitando in cambio le proprie materie
prime ed il proprio ruolo geopolitico e una discreta forza militare.
Inoltre Cina e Russia potrebbero almeno temporaneamente convergere
sulla spartizione di zone di influenza nel continente eurasiatico,
profittando della debolezza USA.
L’America rischierebbe così di trovarsi da sola, legata mani e piedi
dalla potenza asiatica cinese, con il Giappone come unico alleato. Il
sogno unipolare dell’era Bush si ribalterebbe nell’incubo di uno scacco
geopolitico, di una esclusione dal continente eurasiatico e dalle aree
strategiche del pianeta, saldamente presidiato da chi vi abita (Europa,
Russia, Cina, India).
Se questo scenario dovesse verificarsi, l’America ha solo una
supremazia che ancora per qualche tempo le resterà, quella militare,
l’unica che le può consentire, se non di conquistare il mondo, di
impedire almeno che esso si organizzi a prescindere dal suo ruolo
egemone. Che voglia rinunciarvi è perlomeno dubbio. Esaurito il
soft-power della messianicità obamiana, potrebbe essere di nuovo la
spada a fare la storia. Ma come in ogni conflitto, occorre sempre
trovare l’occasione che lo inneschi.
Tra le «Known Unknowns» («incognite note») di Nathan Freier, il
professore dell’US Army’s Peacekeeping and Stability Operations
Institute di cui si è detto sopra, vi è anche quella di «una «guerra
ibrida», in cui uno o più attori (statuali e non) ostili facciano
ricorso a metodi non militari per «resistere all’influenza
statunitense»: ad esempio, Freier immagina un asse russo-cinese che
sfrutti la sua posizione nelle istituzioni internazionali e nei mercati
per minacciare gl’interessi degli USA. I «successi dei competitori in
campo non militare» potrebbero spingere una frustrata dirigenza di
Washington a reagire militarmente, con una mossa che sarebbe giudicata
universalmente «illegittima» e che, se rivolta contro Paesi come Russia
e Cina, potrebbe avere «costi inaccettabili o dare il via ad
un’allargamento indesiderato ed incontrollato del conflitto».
Freier riconosce che queste tre ipotesi sono «estreme» ma - avverte -
«plausibili e non fantasiose». L’importante è che il Dipartimento della
Difesa sfrutti il momento provocato dai recenti choc strategici per
ripensare i suoi piani non sono in reazione agli choc passati, ma pure
in previsione di quelli futuri». Talvolta una guerra, specie in caso di
supremazia tecnologica e militare, è il modo migliore per
«delocalizzare» le contraddizioni interne e poter fare con tranquillità
un «reset» del sistema. Mi fermo qui, ma è certo che tra i seguaci
della dottrina Bush, dentro e soprattutto fuori degli USA, sono in
molti ad attendere l’occasione per sferrare il primo colpo e qualcuno
probabilmente a cercarla o costruirla.
E così, senza voler instaurare per forza nessi causali, ci piacerebbe
comunque sapere che ci facevano alla frontiera di Chiasso due
giapponesi con 134 miliardi di dollari nella valigia, espressi in
titoli che circolano solo nei rapporti tra Stati. Se sono falsi, è
l’ennesima riprova che dopo i subprime, Madoff e gli asset pubblici, la
finanza del biglietto verde è come quella del Monòpoli, è carta
straccia, tale che le previsioni di un crollo del sistema imminente
sarebbero tutt’altro che spazzatura complottista e catastrofista. Se
quei soldi sono veri, la cosa è persino più inquietante: se, infatti,
di quei 134 miliardi di dollari, per ricostruire l’Abruzzo ce ne
vorrebbero appena 4, mi domando quanti ne basterebbero per
destabilizzare aree ben più vaste. Quanti eserciti di terroristi si
possono armare ed addestrare, quanti attentati organizzare, quante
«armi sporche» costruire, quante speculazioni a breve promuovere,
quanti partiti e rivoluzioni «democratiche» finanziare, quanti media
sovvenzionare, quanti uomini corrompere, quanti Stati strangolare o
soccorrere, per attrarli nella propria sfera di influenza?
Vista l’entità della somma, non vorremmo che qualcuno volesse
utilizzarla per attivare «adeguate risposte preventive» contro
eventuali «successi dei competitori in campo non militare» e non
vorremmo che questi competitori fossero da includere nel novero dei
cosiddetti «competitori globali». Nel dubbio preparate l’elmetto, altro
che veline!
Domenico Savino
1) www.gdf.it/GdF__Informa/Notizie_Stampa/AdnKronos/Adnkronos_2009/Adnkronos_Giugno_2009/info-1518911049.html
2) http://www.repubblica.it/2009/03/sezioni/esteri/obama-presidenza-6/discorso-economia/discorso-economia.html
3) http://news.kataweb.it/item/487590/trichet-l-europa-ha-toccato-il-fondo-la-ripresa-nel-2009
4) http://news.kataweb.it/item/557944/bce-trichet-nel-2010-economia-in-graduale-ripresa
5) http://news.kataweb.it/item/562719/crisi-trichet-moderata-ripresa-possibile-nel-2010
6) http://news.kataweb.it/item/574131/crisi-trichet-2009-difficile-ma-ripresa-dal-2010
7) http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=57744&sez=HOME_ECONOMIA&ctc=60&ordine=asc
8) http://news.kataweb.it/item/584695/bce-forte-rallentamento-economia-graduale-ripresa-2010
9) www.repubblica.it/2009/05/sezioni/economia/bce-1/tassi-inv/tassi-inv.html
10) http://news.kataweb.it/item/587484/usa-fed-taglia-stime-pil-2-1-3-2009-e-2-3-3-2010
11) http://www.finanzalive.com/flash-news/previsioni-fmi-pil-mondiale-caduta-libera-2009/
12) http://news.kataweb.it/item/592299/bce-weber-scenario-resta-incerto-ma-crisi-rallenta
13) http://news.kataweb.it/item/554585/ripresa-solo-fra-tre-anni
14) http://news.kataweb.it/item/562983/fmi-ripresa-a-meta-del-2010
15) http://news.kataweb.it/item/445156/bce-trichet-stabilita-prezzi-va-assicurata
16) http://www.rainews24.it/it/news.php?newsid=112756
17) http://iltempo.ilsole24ore.com/economia/2009/03/31/1008031-crisi_fiducia_livelli_minimi_nell.shtml
18) www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=356093
19) www.repubblica.it/2009/06/sezioni/economia/disoccupazione/disoccupazione/disoccupazione.html
20) www.corriere.it/economia/09_giugno_05/usa_disoccupazione_ai_minimi_d9f85dbc-51cd-11de-b581-00144f02aabc.shtml
21) www.leap2020.eu/4th-quarter-2009-Beginning-of-Phase-5-of-the-global-systemic-crisis-phase-of-global-geopolitical-dislocation_a2805.html
22) www.eugeniobenetazzo.com/ceravamo_tanto_amati.htm
23) www.effedieffe.com/content/view/5695/164/
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