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La Cina e i suoi No-Tav: anno 1431
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Da un articolo dell’Herald Tribune:

«Dalla lettera di un amico che vive a Pechino traggo la seguente osservazione: ‘Un importante avvocato di Pechino mi ha detto che molto del lavoro del suo studio consiste nel liquidare società miste germanico-cinesi, allo scopo di indurre il partner tedesco ad andarsene. I tedeschi si trovano a competere, in altri Paesi, contro tecnologie cinesi che sono state copiate da ditte tedesche, riprogettate per abbassare i costi’. Il mio amico aggiunge che a suo parere la Cina è nella fase iniziale del suo ricorrente rifiuto storico delle influenze straniere, e ciò renderà impossibile per la Cina sviluppare lampia cultura dellinnovazione che esiste in Occidente’. Il mio amico è un ingegnere».

William Pfaff, A Sad Story, Herald Tribune, 31 gennaio 2012 (William Pfaff è il commentatore principe, da mezzo secolo, dell’International Herald Tribune. Americano critico della deriva americana, cattolico, vive a Parigi).

Nel 1402, appena salito al trono, l’imperatore Zhu Di – che aveva scelto il nome imperiale di Yongle, ossia «Gioia Durevole» – ordinò la più grande spedizione marittima mai realizzata nel passato, e che sarebbe rimasta ineguagliata anche nel futuro, almeno fino all’epoca delle navi a motore: lo scopo, esplorare oceani e mari lontani, per stabilire un impero commerciale internazionale attorno all’Impero di Mezzo. L’idea, a quanto risulta, gli era stata suggerita da un giovane energico eunuco: Zheng He. Costui era stato catturato tredicenne durante la conquista cinese dello Yunan nel 1381, era probabilmente di origine musulmana, e con la sua intraprendenza e intelligenza era salito in carriera, mettendosi in luce fra le migliaia di castrati di corte che costituivano la servitù, ma anche l’amministrazione, nella Città Proibita.

Zheng He
  Zheng He
L’imperatore nominò Zheng He suo ammiraglio, e gli delegò tutti i mezzi e l’autorità per realizzare l’impresa. Entrambi senza limiti, perchè l’impresa non era mai stata tentata prima. Bisognava cominciare praticamente da zero, non essendo la Cina una potenza navale. Il nuovo ammiraglio creò a Nanchino i più grandi cantieri navali mai visti, ordinò il taglio e il trasporto di migliaia di tronchi d’albero, e organizzò la costruzione di navi a ritmo accelerato; nello stesso tempo, sempre a Nanchino, diede vita ad una scuola interpreti dove si studiavano le lingue estere, e allestì un centro di raccolta e di studio di tutte le possibili mappe costiere e portolani che si potevano rintracciare presso mercanti e naviganti, onde ricavarne una cartografia coerente.

In soli tre anni, furono varate 1.500 giunche, molte delle quali giganti di oltre 150 metri fuori tutto, al limite delle possibilità della cantieristica in legno: basti dire che erano otto o nove volte più lunghe delle caravelle con cui Colombo, novant’anni più tardi, avrebbe attraversato l’Atlantico. Dotate di tre alberi con le caratteristiche vele rese rigide da stecche di bambù (ciò che permetteva di stringere il vento molto meglio dei navigli europei dell’epoca), la loro tenuta del mare era aumentata da compartimenti stagni, ispirati alle camere vuote della canna di bambù fra i nodi: un’innovazione che le flotte occidentali avrebbero adottato solo diversi secoli dopo. Inoltre erano lussuose, con ornamenti d’oro, cabine di lusso per i capitani, profusione di seta negli arredamenti, e cannoni di bronzo, più per mostra che per vera battaglia.



Nel 1405 l’immensa flotta prese il mare dalla foce dello Yangtze. Una simile folla di vele non si sarebbe mai più vista nei mari, fino ai tempi dell’impero britannico al suo apice. Gli equipaggi numeravano 27.800 uomini: per confronto, si dovrà ricordare che la «Armada de Molucca», con cui Magellano circumnavigò per primo il globo oltre un secolo dopo (1519-1522) constava di cinque navi e 260 uomini (ne tornarono a casa solo 18, su una sola nave, la Vitoria).

Rispetto ai tempi, fu come se gli Stati Uniti lanciassero 1.500 astronavi per la conquista dello spazio. Ed effettivamente la flotta era stata approntata per potere navigare in completa autonomia, senza diver ricorrere a rifornimenti avventurosi in terre sconosciute e forse ostili. Alcuni di questi scafi erano dedicati esclusivamente al trasporto di cavalli; altri portavano soldati con il loro armamento; altri portavano solo grandi cisterne d’acqua. Alcune grandi giunche erano degli orti galleggianti, contenevano vasche riempite di terra fertile in cui erano state coltivate verdure e frutta fresche: un’invenzione che risparmiò ai naviganti cinesi la maledizione che perseguitò, fino al 1700, gli equipaggi oceanici occidentali, lo scorbuto da carenza di vitamina C.



Le navi della Flotta del Tesoro – così fu chiamata – comunicavano fra loro con lanterne e bandiere, ma anche con piccioni viaggiatori e gong. Come strumenti nautici avevano la bussola (invenzione cinese), una sorta di sestante noto come «qianxingban» con cui stabilivano la latitudine puntando sulla Croce del Sud, ed orologi consistenti in bacchette d’incenso graduate, che accese si consumavano con regolarità. L’ammiraglio decideva la rotta consultando una carta nautica lunga sei metri, prodotta dal suo istituto cartografico, di cui srotolava la sezione corrispondente alla zona di mare attraversata: vi erano segnalati i punti di riferimento sulle coste e indicazioni particolareggiate per veleggiare da un punto all’altro.

Lo scopo della spedizione non era la conquista militare, perchè i cinesi considerandosi culturalmente superiori a tutto il mondo, abitanti in un impero allora quasi vuoto nella sua vastità, non erano interessati a stabilire colonie fra popoli arretrati. Lo scopo era inaugurare relazioni commerciali e diplomatiche con i «barbari», e condurre ricerche geografico-scientifiche.



Una politica che era chiaramente espressa nel mandato che l’imperatore Yongle consegnò alla sua flotta colossale:

«Noi regniamo su tutto ciò che è sotto il cielo, pacificando e governando i cinesi e i barbari con imparziale benevolenza, senza distinzione fra il tuo e il mio. Ampliando le vie dei saggi imperatori antichi e dei re illuminati, come in accordo con la vlontà dei cieli e della terra, noi desideriamo che tutte le terre lontane e i domini stranieri ottengano il loro giusto posto sotto il cielo».

La Flotta completò l’esplorazione dell’arcipelago delle Filippine, con cui i cinesi avevano già rapporti commerciali da secoli, ma per via di mercanti privati e affari occasionali. Ora, i contatti divennero sistematici, e a ciò si deve se Magellano, quando vi attraccò un secolo dopo, scoprì che gli abitanti non solo erano ben dotati di lussuose stoviglie di porcellana (di cui i cinesi avevano, soli, il segreto di fabbrica), ma conoscevano la scrittura.



Il punto più lontano toccato in quel primo viaggio fu Calicut nel Malabar, oggi nello Stato del Kerala, India Sud-occidentale, allora grandissimo centro commerciale molto frequentato da mercanti arabi, che vi trovavano spezie e seta (altro segreto di fabbricazione cinese) da esportare in Europa a caro prezzo. V’era – e v’è tuttora – una forte minoranza cristiana e una piccola vivace comunità ebraica: il cronista della spedizione, Ma Huan (svolgeva la stessa funzione che per Magellano avrebbe svolto, nel 1519-22, l’italiano Antonio Pigafetta) raccolse e annotò una strana leggenda che parlava di un uomo santo di nome Mouxie, che fondò una religione; solo che un suo fratello depravato convinse il popolo di Mouxie ad adorare un vitello d’oro, che defecava oro; Mouxie s’infuriò e distrusse il vitallo... Insomma la versione corrotta della biblica storia di Mosè ed Aronne.

In successivi viaggi – ciascuno della durata di tre anni – la Flotta dei Tesori attraversò l’Oceano Indiano, esplorò il Golfo Persico, e si spinse in Africa fino alle coste del Mozambico. Dovunque la situazione e la convenzienza lo permettesse, stabilì sul percorso una collana di fondaci ed empori di merci cinesi, specie porcellane e seterie, da scambiare con spezie ed altre materie prime tropicali. Una rete commerciale internazionale che Zheng He, evidentemente, progettava di rendere permanente. In patria, l’ammiraglio era accolto ad ogni ritorno come un eroe.



Ma nel 1424 l’imperatore Zhu Di morì, e suo figlio Zhu Gaozhi annullò i viaggi della Flotta.

Come molti imperatori della dinastia Ming, il nuovo autocrate era cresciuto sotto l’influenza dei mandarini, coltissimi funzionari pubblici, esperti di lettere classiche e della filosofia ufficiale
(confuciana), che si conquistavano il posto con esami di Stato severissimi, e altamente meritocratici. Depositari dell’alta cultura, essi erano gelosi degli eunuchi di corte, con cui competevano per il favore imperiale: furono loro ad insegnare al giovane imperatore a disdegnare i traffici con gli stranieri – non producevano nulla che la Cina desiderasse, o di cui avesse bisogno – e di mettere un freno agli eunuchi di corte, che di quei traffici si arricchivano.

Tuttavia, Zhu Gaozhi morì di lì a poco, e gli intraprendenti eunuchi ripresero il controllo sul giovane figlio e successore. Sotto la guida dell’ammiraglio Zheng He, la Flotta riprese nel 1431 il suo settimo viaggio, forte di 300 navi e 27.500 uomini, con l’incarico di stabilire pacifiche relazioni con i regni di Malacca e del Siam. Compiuta questa missione parte della flotta si spinse oltre l’incognito Mar dei Coralli, fino a toccare la costa Nord dell’Australia, come testimonierebbero alcune tradizioni aborigene e vasellame cinese dell’epoca.



Zheng He morì nel viaggio di ritorno. Ciò consentì al partito confuciano nella Città Proibita di riprendere la sua influenza sul monarca; a suo nome, fu ordinato di smantellare l’intera flotta, e persino di bruciare tutti i documenti, i rapporti e i libri di bordo delle sue imprese. La cartografia e la tecnologia marinara caddero in declino, così come lo studio delle lingue barbariche. Nel 1500, un editto imperiale giunse a comminare la pena di morte per chi avesse messo in mare una nave con più di due alberi.

Di lì a pochi decenni, navigatori spagnoli e portoghesi, da Vasco de Gama a Magellano, avrebbero veleggiato incontrastati nel vasto vuoto di potere lasciato dai cinesi: rimpiendolo con cannoni e archibugi di ferro, con lo smisurato dinamismo occidentale, e con l’intenzione di restarci da conquistatori.

L’orgogliosa introversione cinese, convinta che la propria superiorità non avesse nulla da apprendere da fuori, durò per i seguenti secoli. Secoli in cui l’impero più avanzato del mondo divenne a poco a poco un Paese arretrato, con una burocrazia pletorica e corrotta, mentre navi dei barbari bianchi, degli odiati Nasi Lunghi, diventavano di ferro, le loro vele erano sostituite da fumaioli che vomitavano vapore e nuvole di carbone, le loro armi a canna rigata si facevano sempre più potenti e precise, la loro sete di dominio più insaziabile e senza scrupoli.

Anche in Giappone, il semplice contatto con lo straniero era stato a lungo punito con la morte. Ma negli anni 1870-90, gli ambienti imperiali presero atto che se non volevano farsi occupare dagli stranieri, il loro Paese doveva diventare capace di fabbricare le loro armi moderne, apprendere le loro scienze, imparare la produzione industriale. Diventare moderno, mantenendo lo spirito anti-moderno della cultura feudale nipponica. I samurai avevano già constatato con dispetto, disprezzo e disperazione come un qualunque vigliacco, armato di archibugio, poteva aver la meglio sul più valoroso di loro senza mai arrivare a tiro della sua infallibile katana; eppure furono, in genere, i più ostili alla modernizzazione. La Corte Meji li «punì» ordinando loro – che spregiavano i mercanti, i produttori economici e la loro mentalità volta al profitto – di diventare imprenditori, con denaro pubblico. Diversi riuscirono in quest’impresa impossibile oltre ogni speranza, mantenendo l’etica di lealtà e dedizione della loro cultura.

Nel frattempo, fu introdotta la coscrizione obbligatoria e creato il sistema di pubblica istruzione. Migliaia di uomini d’affari, funzionari, studenti e studiosi furono spediti in Occidente a studiare «le fabbriche di ogni tipo», ma anche «le leggi e i regolamenti fiscali, il debito pubblico, la cartamoneta, le Borse e le assicurazioni, il diritto commerciale». Uno di questo osservatori, Fukuzawa, dopo la sua esplorazione dell’Inghilterra riferì il segreto di quel governo dei barbari: «Fabbriche, eserciti, flotte non sono difficili da costruire, occorre solo denaro. Ma vi è qualcosa che sfugge all’udito e alla vista, e che non può essere comprato e venduto; pervade l’intera nazione. Questa cosa supremamente importante è lo spirito di civiltà». Un altro (un cinese modernizzante) cercherà di attrarre l’attenzione sulla «perfezione del diritto e delle istituzioni politiche» inglesi, e spiegare ai suoi connazionali che «in Europa il commercio è retto da norme precise e dignitose e condotto con metodi esatti». Invano, per la Cina.

Il ministero giapponese dell’Industria, in quel ventennio, giunse ad impiegare cinquecento tecnici occidentali.

I governanti nìpponici avevano visto cosa avveniva alla Cina tutta chiusa nella sua superiorità culturale, nel confuciano disprezzo per il profitto e i mercanti, e la mancanza di curiosità per il mondo esterno: aveva dovuto subire la penetrazione armata inglese, cedere ai britannici porti sottratti alla sovranità cinese, consentire che vi spacciassero a tonnellate l’oppio, e i residenti inglesi vi godessero di assoluta immunità legale. A Pechino, un giovane e inesperto imperatore, Kuang-Hsu, tentò dopo il 1895 una riforma modernizzatrice: durò cento giorni. Fu defenestrato, i suoi ministri giustiziati. Contro gli stranieri, «di lì a poco si scatenò la rivolta reazionaria dei Boxer, antimodernista, xenofoba, anticristiana. Uno dei loro proclami diceva: «La nostra strategia è semplice: dobbiamo distruggere le linee ferroviarie, tagliare i fili elettrici, demolire le navi...». (Marco Vitale, La Lunga Marcia verso il capitalismo democratico, Milano 1989).

Perciò, quando un osservatore occidentale che abita a Pechino scrive di intravvedere i segni del ricorrente rifiuto storico cinese delle influenze straniere, è sciocco prenderlo di sottogamba. Può darsi che la Cina abbia imparato. Che abbia vinto quel difetto fondamentale della sua mentalità e cultura, la convinzione di essere il centro del mondo e di non aver nulla da imparare, che è la causa prima della sua ricorrente ricaduta dal suo primato.

Ma se devo giudicare dagli italiani, i popoli non cambiano mai. Non c’è nulla di più durevole e ostinato dei nostri vizi fondamentali, proprio in quanto sono fondamentali. Non ne siamo coscienti, o addirittura ce ne vantiamo, scambiandoli per virtù. A rettificarli, non ci proviamo nemmeno. Perchè i cinesi dovrebbero essere diversi?



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