L’Iran: fino a dove?
18 Giugno 2009
Ormai conta poco, ma forse Ahmadinejad aveva davvero vinto le elezioni. A dirlo è una fonte insospettabile: un sondaggio americano, condotto da due organizzazioni «non-profit» chiamate «Terror Free Tomorrow» e «New America Foundation», finanziate – tenetevi forte – dal Rockefeller Brothers Fund.
«Il nostro sondaggio – scrivono i responsabili – è stato effettuato tra l’11 e il 20 maggio, per telefono da un Paese vicino (leggi Iraq) e in Farsi», dunque al di fuori del controllo del regime iraniano.
Ebbene: questo sondaggio aveva dato «Ahmadinejad davanti a Mussawi in proporzione 2 contro 1». Tuttavia «il 52% del campione non aveva opinione o ha rifiutato di rispondere» (fatto in sè significativo). Da questo, gli analisti americani avevano tratto la conclusione non che Ahmadinejad avrebbe perso, ma che nessuno dei candidati avrebbe raggiunto il 50% necessario per evitare un secondo turno (Signs of Fraud Abound, But Not Hard Evidence).
Ma ormai i risultati del voto non hanno più importanza. E non ha importanza, a questo punto, nemmeno la prova provata che c’è Israele dietro la «campagna Twitter» che ha innescato e coordinato la protesta della gioventù iraniana che sta destabilizzando il regime (per i particolari tecnici, rimando a Proof: Israeli Effort to Destabilize Iran Via Twitter #IranElection).
Non ha importanza, perchè gli eventi, apparentemente, hanno assunto una forza autonoma, e stanno superando le intenzioni dei contendenti ed anche dei destabilizzatori. Fino al punto da mettere in pericolo le fondamenta della «repubblica» islamica e della «rivoluzione» di 33 anni fa.
Non era questa l’intenzione di nessuno dei due contendenti nè delle rispettive fazioni ed elettorati di massa. Mussawi è un uomo di questo potere, a cui deve la sua posizione non meno che Ahmadinejad. Anche la «gioventù Gucci» di Teheran deve i suoi privilegi all’ordine «rivoluzionario» instaurato da Khomeini un trentennio fa, quando la «rivoluzione teocratica» scalzò il precedente sistema di potere (e 3 milioni di iraniani dello Scià fuggirono all’estero).
Anzi, all’inizio, per quanto è dato indovinare, si è trattato di una lotta tutta interna, ai massimi livelli del potere teocratico: l’ayatollah Rasfanjani contro la «guida suprema» ayatollah Khamenei, in cui Mussawi e Ahmadinejad e le connesse folle sono usate come pedine. Più precisamente, la lotta di Khamenei per sottrarre a Rafsanjani la cassa, ossia l’introito petrolfero.
Ancora una volta, la fonte è insospettabile: Chris Cook, ex presidente dell’International Petroleum Exchange, che da cinque anni assiste i poteri iraniani nello sviluppo del mercato petrolifero e della connessa organizzazione finanziaria.
Dice Cook: «A differenza che in Occidente, dove i governi sono posseduti dal sistema bancario e finanziario, in Iran è il ministero del Petrolio che ha i cordoni della borsa e quindi comanda».
E questa «Oil Mafia» è più o meno identificata con l’ex presidente Hashemi Rafsanjani, oggi sostenitore di Mussawi (anche se fu lui liquidare il suo governo nel 1989). La guida suprema Khamenei ha in mano le Guardie rivoluzionarie e la milizia Basoji, anch’essa un potere economico, basato su fondazioni religiose (bonyads). Ma sono briciole in confronto agli introiti petroliferi, visto che la seconda e terza voce dell’export iraniano sono i tappeti persiani e... i pistacchi.
La guida suprema ci ha messo anni per prendere in qualche modo il controllo del malloppo petrolifero. Quando Ahmadinejad è stato eletto presidente 4 anni fa, ha tentato due volte di nominare ministri del petrolio uomini suoi; per due volte le figure da lui proposte sono state bocciate dal parlamento (majlis), ovviamente pagato dalla «Oil Mafia». Solo nell’agosto 2007 Ahmadinejad (e Khamenei dietro di lui) è riuscito a mettere un suo uomo al ministero: Gholamhossein Nozari, già capo della compagnia nazionale petrolifera iraniana.
Non è una perdita che Rafsanjani è disposto a tollerare. Il clan familiare di Rafsanjani, detto «lo squalo», possiede vasti imperi finanziari in Iran, controlla il commercio estero, ha grandi proprietà terriere, relazioni a tutti i livelli alti del potere (dai clerici di Qom alla casta giudiziaria e al «bazar» di Teheran) e – incredibile a dirsi – la più grande rete di università private in Iran, note con il nome di «Azad»: ben 300 branche disseminate in tutto il Paese, fonte di posti di lavoro, di finanziamenti politici e anche della massa studentesca (tre milioni di ragazzi) da lanciare all’appoggio di Mussawi. Nei campus e negli auditorium di Azad si è organizzata la campagna anti-Ahmadinejad.
Si aggiunga che Rafsanjani aspira chiaramente al posto di guida suprema, e ha motivo di considerare l’attuale «guida» Khamenei un usurpatore. Rafsanjani era stato tra i prescelti dall’imam Khomeini per entrare nel Consiglio Rivoluzionario della prima ora, mentre Khamenei è entrato nel Consiglio alquanto più tardi, quando esso è stato allargato a nuovi membri.
Quando poi, grazie alle sua trame, Khamenei è diventato successore di Khomeini e guida suprema, Rafsanjani ha operato per mettere in dubbio la legalità della sua nomina e – cosa più grave – le sue qualifiche teologico-religiose. Un gruppo di potenti clerici di Qom, istigati da Rafsanjani, hanno sancito che il dirigente supremo doveva essere non solo un’autorità teologica (mujtahid), ma una «fonte di emulazione» (marja), ossia un mujtahid con un seguito di studenti islamici, cosa di cui Khamenei era privo. Segno, si insinuava, che la sua formazione religiosa era poco brillante. Rafsanjani invece è un marja, pieno di studenti religiosi, oltrechè di clientele...
Ciò significa che, come autorità religiosa, Khamenei non ha nemmeno l’ombra dell’indiscusso prestigio del defunto Khomeini; è una «guida suprema» debole proprio sul piano che più conta nella repubblica teocratica. La fronda contro di lui da parte del clero di Qom è continuata a lungo, e forse dura ancora. Questo spiega come mai l’ayatollah supremo abbia tenuto sempre un profilo basso, lasciando che fosse Rafsanjani ha esercitare il vero potere per il decennio in cui questo è stato presidente, dal 1989 al 1997.
Khamenei ha impiegato il decennio per estendere faticosamente la sua base di potere. Poichè gli mancava l’appoggio dei teologi di Qom, si è associato l’establishment della sicurezza e del settore militare, dei servizi segreti (IRG) e delle milizie Basij.
Ahmadinejad è un esponente appunto della generazione dei «nuovi» rivoluzionari, quelli che hanno combattuto la guerra contro l’Iraq; il suo governo è fatto di compagni d’arme.
«Una sorta di siloviki meno tecnocratici e meno sofisticati di quelli che hanno in mano il potere in Russia», dice Cook: i siloviki sono gli ex agenti del KGB ascesi alla gestione con Putin.
Khamenei è oggi capo supremo delle forze armate, capo delle tre branche del potere (compreso il giudiziario) e dei media di Stato, capo di istituzioni lucrose come la «Fondazione degli Oppressi» e del «santuario dell’imam Reza», che sono potenti centri di clientelismo. Rafsanjani ha i suoi imperi economici privati, può contare sul bazar di Teheran (la borghesia «compradora» privilegiata) e sull’establishment teocratico di Qom.
Le elezioni hanno portato alla luce questo scontro prima riservato nei corridoi felpati delle scuole «teologiche». Con esiti esplosivi, perchè la popolazione è stata chiamata a prendervi parte con il voto, e ci ha creduto.
E’ apparso chiaro alla fazione della guida suprema che, dietro al clamore della propaganda elettorale che chiedeva un cambiamento di direzione della presidenza (ossia contro Ahmadinejad) era Rafsanjani che manovrava, e aveva di mira la poltrona suprema del supremo ayatollah Khamenei. Per prendere il suo posto, non per rovesciare la poltrona e il sistema tutto.
Rafsanjani aveva probabilmente una tattica: fare in modo che si arrivasse al secondo turno elettorale, il 19 giugno, in cui l’anti-Ahaminejad, il candidato Mussawi, avrebbe recuperato a suo favore i voti degli altri due contendenti selezionati dal Consiglio supremo (ossia tutta gente del potere costituito), Mosen Rezai, ex capo dei Guardiani della rivoluzione sotto Rafsanjani – che avrebbe potuto, nei calcoli, raccogliere un po’ di voti dei quadri dei servizi segreti – e Mehdi Karrubi, che come «riformista sociale» avrebbe potuto sottrarre ad Ahmadinejad un po’ di voti delle campagne: Karrubi ha proposto, durante la campagna, di distribuire direttamente al popolo gli introiti petroliferi, proposta ultra-demagogica che nessuno di quelli al potere penserebbe mai di realizzare.
Questa tattica, «democristiana» al massimo grado, prevedeva una bassa partecipazione al voto, e soprattutto alla campagna elettorale. Ma la campagna ha eccitato gli animi, risvegliato speranze proibite nella gioventù urbana, ed ha portato ad un 83% di votanti. Come in tutti i poteri oligarchici, l’appello al popolo si è dimostrato ancora una volta pericoloso per gli stessi poteri.
Gli attori dell’oligarchia sono stati obbligati dagli eventi a cambiare ritmo e gioco, e il ritmo lo danno le manifestazioni e contro-manifestazioni, entrambe di massa. Una situazione apparentemente pre-rivoluzionaria, in cui sono gli eventi a dettare le parti.
Mussawi, l’uomo di ferro della guerra Iran-Iraq (governò per tutti gli 8 anni, instaurando un’economia di guerra statalizzata impedendo al clan Rafsanjani di fare troppi profitti di guerra) è alleato a Rafsanjani e passa per «riformatore»; i media occidentali vogliono intervistare Rafsanjani come «riformatore» (lui resta nell’ombra, e fa parlare sua figlia, di colpo divenuta «riformatrice»). Khamenei è costretto a venire allo scoperto, e rivelare la sua debolezza in quanto autorità «teologica».
Lo si è visto quando la guida suprema ha invitato Mussawi a smettere le manifestazioni e a «canalizzare la protesta attraverso i corpi legali», ossia a demandare il giudizio sul risultato elettorale al Consiglio dei Guardiani, la giunta teocratica di 12 membri. Con ciò, sperando di guadagnare tempo e che nel tempo, le proteste di piazza smorissero; e intanto ha ricordato a Mussawi di agire nei limiti della «legalità» rivoluzionaria.
Ancor peggio: Khamenei ha addossato le azioni provocatorie a «nemici» (probabilmente quelli esterni), e a «certi complotti dietro le quinte» (allusione a Rafsanjani) che vogliono «creare il caos in Iran». Dopo di chè, si è rivolto personalmente a Mussawi e gli ha detto: «Il tuo carattere è diverso da quella gente, è necessario che tu risolva i problemi nella calma». Un invito patetico, quasi una strizzata d’occhio: siamo tutti nella stessa barca, se continui così crolla il sistema, la «rivoluzione» da cu tutti dipendiamo.
Con ciò, la guida suprema s’è posta personalmente in gioco. Non solo Khamenei non è stato capace di mantenere la mistica distanza dalle cose di tutti i giorni dell’imam Khomeini (un maestro nel fingere dispregio per i fatti di questo mondo, mantenendo una distanza pontificale da esse), ma ha posto Mussawi nella condizione di sfidare l’ordine della Guida Suprema in carica.
Perchè le manifestazioni sono proseguite e proseguono, nonostante l’augusto invito ad adire «le vie legali», ossia a demandare la questione elettorale alla teocrazia. Non sono certi che Mussawi o Rafsanjani guidino la protesta di piazza; forse la cavalcano; forse sono costretti a cavalcarla, perchè quando certi eventi scoppiano, per i leader la sola via d’uscita dal patibolo è andare avanti. Fino in fondo.
Con ciò, la «legalità» rivoluzionaria nata 33 anni fa è in pericolo. Non è più in questione la testa di Ahmadinehad; è in questione la testa di Khamenei e la credibilità della teocrazia.
C’è anche chi pensa il contrario, come l’ambasciatore indiano Bhadrakumar: è una tempesta in un bicchier d’acqua, i caporioni dell’oligarchia non sono tanto stupidi da mettere a rischio il sistema, a cui devono la loro posizione e le loro ricchezze e potere. Finiranno per mettersi d’accordo, magari con un ennesimo rovesciamento di allenze.
Vedremo. La gioventù urbana di Teheran, la gioventù dorata che tiene feste rave in certe cantine di lusso, di nascosto dalla polizia dei costumi, dove corrono whisky e coca e cannabis, continua a scendere in strada. In numero enorme, mai visto. A poco a poco, coi genitori al fianco. Magari nemmeno loro vogliono davvero rovesciare il sistema, nè instaurare una democrazia secolare. Ma lo stanno demolendo giorno per giorno, e le repressioni che richiamano su di sè da parte delle milizie e dei guardiani della rivoluzione, inferociti e disorientati, non fanno che screditare il regime ogni giorno di più.
Uno di questi giovani da festa rave ha detto: «Ho un peso sul cuore perchè so di non vivere come vorrei». Frase adolescenziale, confusa: vuol vivere da vero musulmano, o vuole poter fare le feste rave in discoteca, e bere apertamente il whisky in una società «liberata»? Non lo sappiamo. Ma la confusione adolescenziale non è mai stata un freno ad azioni irreparabili, nel bene e nel male. E la metà della popolazione iraniana ha meno di 17 anni, e i suoi capi teologici sono settantenni oppressivi, e nemmeno loro vivono come predicano. Non si può vivere sempre sotto la falsità.
In attesa che gli eventi si sviluppino, notiamo i riflessi paradossali che la situazione ha sulla scena internazionale.
L’Iran di Ahmadinejad faceva tremare i dittatori del mondo sunnita per la sua pretesa egemonia sciita sul mondo islamico. Ora, sicuramente, i decrepiti monarchi sauditi, gli svergognati emiri petroliferi, e l’uomo forte egiziano tremano ancor più: l’Iran diventa l’esempio della «rivolta dal basso», l’incubo perenne del loro malfermo potere.
Israele non può più bombardare le centrali nucleari iraniane, perchè in questo momento apparirebbe come il liquidatore nel sangue della «autoliberazione» iraniana. Le bombe israeliane sarebbero dirette contro quella che i media servili chiamano la «gioventù riformista». In compenso, le lobby ebraiche – che auspicavano la continuità del potere di Ahmadinejad, il «nuovo Hitler» facilmente demonizzabile – stanno organizzando «spontanee» manifestazioni di goym a favore della «gioventù riformista iraniana» (i radicali in testa, da noi, ma anche il sindacato di AN) perchè l’attrattiva della destabilizzazione, per il Mossad, fa premio su tutto: è una malattia professionale. La lobby americana però incita Obama ad intervenire a favore della suddetta «gioventù», e lo critica per la sua passività: è chiaro che una parola di Obama in appoggio alla semi-rivoluzione islamista rafforzerebbe immediatamente il potere khomeinista e lo stesso Ahmadinejad.
Obama resiste alle pressioni, finora, molto saggiamente. In compenso, sono gli europei a fare i grilli parlanti (su ordine dei loro israeliani interni), andando a fare lezioni all’Iran sui diritti umani e sulla democrazia. Ma l’epoca dei diritti umani – la dittatura morale occidentale, ultima spiaggia dell’egemonia – è finita dal 2001.
E’ finita in Occidente, è finita a Guantanamo e nelle camere di tortura di Abu Ghraib. E’ finita nei brogli elettorali della Florida, e in Europa, nella decisione eurocratica di non tener conto di ripetuti referendum anti-eurocratici.
E noi, ahimè, non diamo alcun esempio di rivolta dal basso contro le nostre inamovibili caste.
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