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La Germania affonda l’Italia e il governo affonda gli italiani
Stefano Gubbiotti
11 Marzo 2012
Anche i politici e gli economisti, da sempre sostenitori incondizionati dell’Euro, oggi ammettono che qualche cosa non ha funzionato e sono i primi a candidarsi a fornire terapie salvifiche. Non hanno visto e previsto nulla e ora, i vari Monti, Prodi e Amato ci vorrebbero far credere, grazie anche ad una potente cassa di risonanza mediatica, che sarebbero in grado di portarci fuori dal guado. In realtà, la crisi non è stata un fulmine a ciel sereno, i problemi si sono presentati, con sorprendente tempismo, subito dopo l’ingresso nella Moneta Unica: il Paese ha smesso di crescere, ha perso, anno dopo anno, competitività e si è verificato un pernicioso enorme aumento nei prezzi interni, ai danni dei cittadini e a favore di settori oligopolistici e/o caratterizzati da domanda anelastica.
Tuttavia, secondo i professori euroinfatuati, le cause della crisi non sarebbero tanto da ricercare nella scelta di aderire alla Moneta Unica, che anzi, ancor oggi, difendono come indubitabilmente vantaggiosa, quanto nella nostra incapacità di ridurre il debito pubblico e di fare riforme strutturali; in sostanza, non avremmo fatto i compiti a casa. I compiti non li abbiamo certamente fatti, ma è importante capire se si tratti solamente di una mezza verità che, come spesso accade, nasconde una grande bugia. La tesi infatti che non convince, è che l’Euro abbia portato al Paese degli indubbi vantaggi. Come correttamente sottolinea Paolo Savona, in Italia non è stata mai fatta un’analisi oggettiva dei costi e benefici della nostra appartenenza alla Moneta Unica.
Con l’Euro abbiamo rinunciato alla politica monetaria. Ci siamo preclusi la possibilità di avere una nostra Banca Centrale che, all’occorrenza, possa svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza per lo Stato e per il sistema bancario, che influisca sui tassi d’interesse e il cambio, armi fondamentali per garantire ad un Paese flessibilità nella competizione internazionale.
Era certo che la Moneta Unica, per come è stato concepito il ruolo della BCE, ci avrebbe prima o poi privato anche dell’altro strumento di politica economica fondamentale: la politica fiscale. Se uno Stato altamente indebitato rinuncia alla propria sovranità monetaria, deve per forza soggiacere ai mercati per finanziarsi, perché non ha più una Banca Centrale che, se necessario, faccia il prestatore di ultima istanza, si impegni cioè a comprare illimitatamente i titoli di debito pubblico che il mercato non vuole. Dato che si sapeva che la BCE, per statuto, non può svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza, era del tutto prevedibile che i mercati, alla prima occasione, avrebbero cominciato a richiedere spread elevati sul debito dei Paesi più deboli dell’Eurozona, che a loro volta avrebbero perso la possibilità di fare scelte fiscali: lo spread diventa l’arbitro assoluto e ti obbliga a tagliare le spese e ad aumentare le tasse. Ma i nostri politici e professori, con Maastricht, si spinsero oltre: venne infatti accolta a cuor leggero la tesi tedesca, che la politica della BCE dovesse essere esclusivamente finalizzata al contenimento dell’inflazione, per di più, un livello di inflazione tutto tedesco.
Di conseguenza, in questi dieci anni, l’Euro, più che rappresentare una media delle economie dell’Eurozona, è stato una sorta di moneta tendente ai valori del vecchio marco. Questa è stata la vera grande vittoria della Germania: una politica monetaria incentrata sulla stabilità, su un Euro forte, che ha contribuito ad aumentare i differenziali di crescita dei Paesi membri dell’area Euro e ha drenato una massa enorme di ricchezza a favore di Berlino. Quindi con l’euro abbiamo perso una nostra Banca Centrale e ne abbiamo una che, per imposizione tedesca, a differenza della FED, non può stimolare la crescita economica e non può prestare soldi ai Paesi in difficoltà, con la conseguenza che gli Stati che si trovano nella necessità di tagliare il proprio bilancio, non possono contare su politiche monetarie espansive che compensino i pesanti effetti recessivi causati dai tagli e dalle maggiori imposte. Questa situazione trascina i Paesi più deboli in un circolo vizioso: lo spread aumenta la spesa pubblica, i conseguenti tagli di spesa e aumenti delle imposte, determinano riduzioni del PIL che a loro volta danno luogo ad una diminuzione delle entrate fiscali e ti trovi costretto a fare ulteriori riduzioni di spesa. La nuova stringente disciplina fiscale imposta ai Paesi dell’Eurozona, se non accompagnata da politiche monetarie compensative e, eventualmente, dagli Eurobond, finirà per peggiorare la situazione.
È pertanto impellente una riforma radicale della BCE che ricalchi un modello simile a quello della FED. È opportuno che diventi un prestatore di ultima istanza, in modo da scoraggiare gli attacchi speculativi al debito dei singoli Paesi, ma sopratutto che vengano cambiate le priorità degli obiettivi: la crescita dell’Eurozona dovrebbe diventare l’obiettivo primario da perseguire, l’inflazione essere solamente un vincolo, peraltro fissato ad un livello target meno tedesco. La BCE deve inoltre poter stimolare la crescita utilizzando i tre canali possibili: compravendita di valute, acquisti da Stati, compravendita con banche. Oggi, a differenza delle altre principali Banche Centrali, ha solamente la possibilità di operare con il sistema bancario, con la conseguenza che, politiche monetarie espansive possono risultare inefficaci, se gli istituti di credito non vogliono, o non possono, immettere nel sistema economico i soldi ricevuti dalla BCE.
Una riforma della BCE di siffatta natura porterebbe l’Euro a svalutarsi rispetto alle principali valute e ad assumere valori più vicini alla media dei fondamentali di tutta l’area. Per l’Italia e la maggioranza dei Paesi membri, sarebbe un toccasana: meglio un po’ d’inflazione (possibile, non certa) e le imprese che esportano, piuttosto che i disoccupati in piazza.
È evidente che qualsiasi tentativo di riforma della BCE, incontri una strenua resistenza della Germania, che ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo, a preservare regole concepite per favorire il più forte. Siamo sicuri che i professori, che non avevano previsto nulla, che ricoprivano ruoli chiave mentre si facevano scelte istituzionali disastrose in sede europea, siano in grado di affrontare questa complessa partita politica? Paolo Savona sostiene che ci dovremmo dotare di un piano A di permanenza nell’Euro e un piano B di uscita. I professori, più che fare i compiti a casa, dovrebbero dimostrare di avere una visione strategica del futuro del nostro Paese e di saper contrastare le pulsioni egemoniche della Germania.
Stefano Gubbiotti
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