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Siria e Iran: cilecche occidentali
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In Siria, i ribelli hanno perso, e gli ambienti occidentali che li hanno finanziati ed armati per un «regime change» stanno cercando di salvare la faccia. Lo sostiene Sharmine Narwani, analista di questioni medio-orientali che lavora all’Università di Oxford come ‘senior associate’al St. Antony’s College, e commentatrice per importanti giornali arabi. Su Al Ahram, la Narwani sottolinea che l’invio di Kofi Annan (l’ex segretario ONU) come negoziatore fra le parti in conflitto «è il primo chiaro segno del cambiamento di fase», ed una concessione americana al nuovo clima: Annan dovrà prolungare questa fase negoziale fra il governo siriano, l’opposizione e gli Stati esteri fino a maggio 2012, data delle elezioni parlamentari. «È ciò che Russia, Cina, Iran e BRICS hanno voluto fin dall’inizio – sottolinea l’analista: la creazione di una bolla protettiva attorno alla Siria, in modo da dargli il tempo necessario per attuare le riforme interne che non danneggino le priorità geopolitiche».

Kofi Annan ha «emanato un forte altolà contro sforzi esteri di armare l’opposizione», di fatto rinforzando un comunicato dei ministri degli Esteri della UE che alla fine «rigettava l’idea di intervento militare in Siria». Di colpo, dice la Narwani citando sue fonti, si scopre che «gli USA hanno mantenuto un dialogo continuo col regime siriano durante tutto questo tempo». Esponenti religiosi dell’opposizione, «per lo più Fratelli Musulmani», hanno avuto un incontro col regime nelle ultrime settimane. E i governi europei cercano contatti con «autorevoli riformisti siriani che siano aperti al dialogo».

Restano le sanzioni imposte dalla nomenklatura europea contro gli esponenti siriani – non potranno fare shopping da Harrow’s. Ma nel complesso, pare proprio che gli occidentali non abbiano un chiaro piano sulla Siria, e stiano elaborando una exit strategy che salvi la loro faccia. E il regime saudita e l’emiro del Qatar, che si sono esposti in attivismo anti-Assad, sentendosi coperti dalla ultima superpotenza rimasta, e mobilitando ed armando guerriglieri salafiti per combatterlo, siano stati lasciati col cerino in mano.

Anche Ankara, ostilissima al regime di Assad, ha cambiato posizione. Una fonte della columnist, che, (dice lei) «ha partecipato a un recente incontro a porte chiuse con il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu», si è sentito rassicurare sulla minaccia verbale – espressa ad un certo momento dai turchi – di costituire un corridoio umanitario o una zona di sicurezza lungo il suo confine con la Siria: «Ciò trasferirebbe il conflitto in territorio turco».

Pare che qui sia stato decisiva la diplomazia iraniana (il ministro degli Esteri di Teheran, Ali Akbar Salehi, è stato ad Ankara in gennaio), che avrebbe fatto notare al governo Erdogan che, con la sua posizione in questa crisi, metteva in pericolo la credibilità che si sono recentemente costruiti con il fiero, indipendente atteggiamento verso Israele ed USA. I turchi, dopo molto esitare, hanno accettato che Assad rimanga al suo posto fino al completamento del processo di riforma. Secondo la Narwani, è Mosca che «ha l’iniziativa» nel «muovere verso la prossima fase», onde «guadagnare al governo siriano qualche tempo e spazio per portare a termine le riforme iniziate in primavera. Mosca è sostenuta fortemente dai BRICS ed anche dall’Iran». (Turning Point on the Syrian Front: Dealmaking in Search of a Face-Saving Exit)

L’Iran, si ricorderà, è sotto un più crudele embargo imposto dagli americani e dalla loro lobby. Teheran ha risposto annunciando la riduzione del suo export petrolifero di 300 mila barili al giorno verso i Paesi europei, specie contro quelli più allineati e zelanti a dar seguito alle sanzioni.

Risultato: il rincaro del greggio a 127$. L’embargo danneggia le economie europee più in crisi, e ne allontana le (fragili) speranze di ripresa.

Ciò spiega il sardonico commento della Reuters del 23 marzo: «Le sanzioni stanno avendo effetto – ma non quello che dovevano avere», così dice Dina Esfandiari, analista e specialista dell’Iran al London International Institure for Strategic Studies. D’accordo «sicuramente l’Iran continuerà a soffrire di più, ma ci sono seri dubbi che rinunci per questo al suo programma nucleare».

Un effetto collaterale imprevisto che ha riconosciuto lo stesso presidente Obama, per il quale il rincaro della benzina in USA significa il rischio concreto di perdere le elezioni presidenziali, ormai vicine. (Obama Blames Iran for High Gas Prices)

Faccenda imbarazzante e quasi comica, come rivela DEBKA File. Secondo cui Obama, mentre impone sanzioni «schiaccianti» ed obbliga i suoi servitorelli europei ad eseguirle, ha un canale diretto con l’ayatollah Kamenei, il capo supremo della repubblica islamica, con cui tratta sottobanco, sperando che la nota lobby non se ne accorga. Ma, dice Debka «A rivelare il gioco è stato l’ex senatore Chuck Hagel, uno stretto collaboratore di Obama, dichiarando in un’intervista che ‘ci sono colloqui dietro la scena (back-channel talks), e non vedo altra via…’».

Insomma, conclude DEBKA, «l’Amministrazione Obama sembra ripensare le sanzioni come arma da taglio per dissuadere Teheran dalle sue aspirazioni all’arma nucleare». La decisione dell’embargo potrebbe essere «riconfigurata» (sic).

La rivelazione dev’essere stata una amara sorpresa non solo per Netanyahu, ma anche per Erdogan, che si proponeva – e credeva d’essere – il mediatore prescelto e il necessario trait-d’union fra Teheran e Washington. La situazione sembra avere un altro sconfitto predestinato: Ahmadinejad, di cui l’ayatollah Kamenei è il primo a volersi liberare, e che può diventare la vittima sacrificale di una distensione tra USA e Iran. La testa portata in omaggio al nemico rappacifcato. (Obama’s back-channel to Tehran bypasses allies Erdogan and Netanyahu)

Che dire? Certo, la Casa Bianca sta probabilmente cedendo. Ma tuttavia, è da notare l’abilità e perfino il coraggio che il presidente Obama ha finalmente manifestato, forse per la prima volta nel suo mandato, per lo scopo supremo di… farsi rieleggere. Nella gestione della propria campagna interna, che chiaramente monopolizza tutte le sue energie, trova persino l’audacia di fare una politica estera originale e per così dire autentica: le iniziative anti-iraniane degli USA non hanno una vera e seria ragion d’essere, se non la paranoia israeliana: ma di nascosto, e in forma di sotterfugio.

Triste, triste «democrazia» d’Occidente.



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