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The Israeli government denied a media report on Tuesday that it had authorised 300 new homes for the Jewish settlement in the occupied West Bank despite U.S. calls for a halt to settlement growth.
Esempi di disinformazione
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Nei giorni scorsi i «grandi»  media hanno dato tre cosiddette notizie, di cui due false, e una smentita. Sotto cui si cela un gioco più grosso e più sporco.

La prima. Il vice-presidente Joe Biden, intervistato, dice che il presidente Obama s’è trovato d’accordo con il premier israeliano Netanyahu «per dare tempo all’Iran fino alla fine dell’anno perchè il processo di discussione possa avanzare», dopodichè Israele «farà per conto suo», ossia bombarderà.

Ma come, chiede l’intervistatore, anche se noi americani non siamo d’accordo?

Biden: «Che siamo o no d’accordo, hanno il diritto di farlo. Ogni Stato sovrano ha diritto di farlo (...). Non possiamo dettare ad un altro Stato sovrano ciò che può fare o non fare (1); se prende la decisione è perche è minacciato nella sua stessa esistenza, è perchè la sua sopravvivenza è minacciata da un altro Paese».

Sorvoliamo sulla strana e nuova dottrina per cui «ogni Stato sovrano» ha il diritto di bombardarne un altro, e sul fatto che gli USA «non dettano quel che uno Stato sovrano può fare e non fare», visto che non fanno altro che ingerirsi, fare la morale e dettare legge a qualunque Stato (che non sia Yehud). E che per attaccare l’Iran i yehud dovrebbero sorvolare l’Iraq, dunque avere l’assenso positivo all’operazione da parte di Washington.

Il fatto è che questa frase del vice-presidente è stata smentita dal presidente Obama.

Durante la visita in Russia, un giornalista della CNN chiede a Obama se Washington aveva dato l’assenso a Israele per bombardare le installazioni nucleari iraniane; Obama risponde: «Assolutamente no».

La cosa viene variamente interpretata. O come ulteriore indizio che Obama è assediato dalla nota lobby che ne distorce la politica, o che si tratta di una recita «bad cop-good cop» (poliziotto buono - poliziotto cattivo», o che la politica estera USA è su questo punto incerta e vacillante, o che comunque si tratta di un ballon d’essai, una minaccia implicita a Teheran: se non ti sbrighi a negoziare, ti scateniamo contro il nostro doberman (2).

Ma le altre notizie false diffuse dai media, unite a questa, cominciano a configurare un’altra storia.

Il 3 luglio, la Reuters e poi tutti i soliti giornali e TV rivelano: un sottomarino israeliano con missili atomici (uno dei «Dolphin» regalati dal popolo tedesco) ha raggiunto il Mar Rosso usando per la prima volta il Canale di Suez. E’ un chiaro segnale a Teheran, dicono i soliti media, e un segno che l’Egitto dà una mano. Perchè di solito le navi da guerra israeliane non hanno accesso al Canale, e un sottomarino di Sion è costretto a circumnavigare l’Africa, il che richiede una o più settimane e diversi rifornimenti in mare, riducendo parecchio l’effetto-sorpresa.

Ma l’Egitto smentisce: non esiste alcuna cooperazione militare tra Tel Aviv e il Cairo, e «l’Egitto non collaborerà mai ad un attacco contro l’Iran da parte di Israele». Lo dice, fra l’altro, la TV Al-Manar (http://www.almanar.com.lb/newssite/NewsDetails.aspx?id=93212). La smentita non viene raccolta dai soliti media: per cui i lettori dei nostri giornali sanno solo che l’Egitto sta effettivamente aiutando Yehud ad attaccare Teheran.

La terza cosiddetta notizia è dello stesso genere: «L’Arabia Saudita volgerà la testa dall’altra parte nel caso che i jet israeliani dovessero sorvolare il suo territorio per andare a colpire l’Iran». La fonte è delle più credibili (per i nostri media): il capo del Mossad, Meir Dagan. E’ dal 2002, aggiunge, che il Mossad lavora discretamente con i sauditi per un’operazione anti-iraniana che «è nel comune interesse di Israele e dell’Arabia Saudita».

Dopo poche ore, il ministero degli Esteri saudita smentisce. Non solo: Jamal Kashoggi, il direttore di Al-Watan (con ovvii agganci nella corte) scrive che la menzogna è una delle tante provocazioni israeliane per testare la reazione dell’Arabia Saudita in caso di un attacco all’Iran, e per obbligare i sauditi a prendere una aperta posizione anti-iraniana. Saud Kabi, un analista di politica internazionale scrive, sempre su El-Watan, che questa storia mira a seminare zizzania nel mondo arabo-musulmano, facendo credere che ci sia un complotto arabo contro l’Iran.
Questo è ovvio. Una delle cose che Yehud vuol far credere è che l’Iran «è una minaccia per il mondo intero, non solo per noi», e che se lo bombarderà, lo farà soprattutto per i bene dei Paesi arabi detti moderati (ossia filo-americani), per un atto d’altruismo verso il mondo sunnita. Ma c’è da chiedersi come mai Israele emette tanta disinformazione nel giro di tre giorni, dal 3 al 6 luglio.

La cosa va inquadrata nella molto verbale apertura di Obama all’Islam al Cairo, da tutti accolta con commozione ed entusiasmo, e nel suo cosiddetto impegno per risolvere la questione palestinese. In questo quadro, Obama ha chiesto a Israele di smettere di espandere gli insediamenti illegali sulle terre del futuro Stato palestinese, per ottenere in cambio una regolarizzazione dei rapporti con i Paesi arabi. Una posizione dura, anzi «durissima», che il governo israeliano ha subito detto non aver alcuna intenzione di accettare. Grandi lamentele sui giornali, diffusi articoli su Obama «antisemita», potenti pressioni della lobby.

E il piano di Obama, silenziosamente, in vari colloqui con gli israeliani, viene cambiato a tutto favore di Israele. In che modo?

Ricordiamo anzitutto che quel che Obama offre - la normalizzazione dei rapporti coi vicini musulmani - non è una sua idea. E’ l’offerta che l’Arabia Saudita ha fatto già nel 2002, durante la riunione della Lega Araba a Beirut, insieme ai capi di Stato di Egitto e di Giordania. Questo piano, «iniziativa di pace araba», offriva a Israele una pace complessiva in cambio del ritiro israeliano dai territori occupati nel 1967 - Cisgiordania, Gaza e il Golan preso alla Siria - della creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemmme capitale «condivisa», e una soluzione «equa e accordata» al ritorno dei profughi palestinesi. Era un piano che persino il presidente di turno della UE, Josè Maria Aznar (sfegatato filo-sionista), accolse con entusiasmo: «Consideriamo l’iniziativa saudita come un’occasione unica per uscire dalla situazione attuale», disse, e fu la posizione dell’intera Unione Europea.

Cosa fecero gli israeliani? C’era allora Sharon che ci sputò sopra. E cambiato il governo in Sion, la posizione è sempre la stessa: rifiuto assoluto della proposta araba. Come ha spiegato mellifluo Shimon Peres, il presidente, «è impossibile dirci: dovete prendere quel che vi si propone così com’è. Se Israele accettasse questa iniziativa, dei negoziati non avrebbero più ragion d’essere. Con un diktat nè i palestinesi, nè gli arabi, nè noi giungeremo a un risultato».

Insomma Israele, benchè perennemente minacciata nella sua stessa esistenza, non ha nessuna fretta di fare la pace con i vicini. Voleva che la proposte araba costituisse la base per un «negoziato», senza accettarne nulla in anticipo. Detto in altro modo, volevano cambiare il contenuto del piano di pace arabo, riscriverlo loro e modificarselo come gli pareva.

Il piano Obama è il piano arabo, ma con una piccola, insignificante attenuazione: offre la pace degli arabi, non già in cambio del ritiro israeliano dalle terre occupate nel ‘67, ma molto meno: in cambio del «congelamento» dell’espansione delle colonie fanatiche in Cisgiordania, definite mille volte illegali dall’ONU. La pace con tutti gli arabi per quasi nulla.

Ed anche questo è apparso «duro», intollerabile a Yehud. Dapprima, Netanyahu ha detto: non possiamo impegnarci, se prima l’Iran, la nostra minaccia esistenziale, non viene ridotto all’impotenza. Sapendo che Washington non è in grado oggi di bombardare l’Iran per la quiete di Israele, era un buon metodo per mandare le cose alle calende greche. La mezza rivoluzione in Iran ha complicato le cose (per Obama, non per Yehud). Ci sono state molte visite e colloqui, a vario livello, fra i due compari, per addolcire le «durissime» condizioni poste da Obama a Israele.

In uno di questi colloqui sotto-coperta, il regime israeliano ha offerto all’inviato USA in Medio Oriente, George Mitchell, questo generoso compromesso: sono disposti a congelare gli insediamenti «per tre mesi», e  anche questo solo a condizione che da parte araba si facciano «passi sostanziali» per normalizzare le relazioni.

Insomma, gli arabi aprano «prima» piene e normali relazioni con Israele, e «poi» Israele congela gli insediamenti. Ma solo per tre mesi: è fin troppo, di più non può fare. Fin che l’Iran non sarà cancellato dalla carta georgrafica, Yehud è minacciato nella sua stessa esistenza, e dunque deve continuare a rubare terre palestinesi. Una logica indefettibile

E come ha risposto Obama? Ha inviato una lettera al re del Marocco, Mohammed VI, il più moderato fra i moderati islamici, dicendogli che si aspetta che i Paesi arabi prendano misure concrete per mettere fine a quel che chiama «l’isolamento di Israele» nell’area. Senza nemmeno alludere al fatto che quando uno Stato bombarda i vicini ogni due anni, una certa freddezza o «isolamento» da parte dei vicini è inevitabile, Obama esprime la speranza che «il Marocco dirigerà l’iniziativa per colmare il fossato tra Israele e il mondo arabo», e specifica i contenuti della sua speranza: che il Marocco «incoraggi» i Paesi del Golfo a lasciare che Israele (ossia il Mossad) apra ambasciate nelle loro capitali, e insedino le loro sedi diplomatiche in Israele.

Insomma, concedano tutto, senza condizioni. E’ esattamente quel che hanno detto gli israeliani a Mitchell: «La durata e l’estensione del congelamento delle costruzioni nelle colonie saranno proporzionali alla qualità della ripresa dei negoziati di pace, e ai segnali ricevuti dai Paesi arabi». 

Da notare: nemmeno si parla per ipotesi di una rinuncia definitiva agli insediamenti, ma solo di un «congelamento». Che durerà di più se gli arabi apriranno relazioni diplomatiche con Sion, ma non sarà definitivo.

L’America ha accettato. Il «duro», ad ogni incontro, è diventato più moscio. Tant’è vero che Ehud Barak, che ha incontrato di nuovo Mitchell a Washington la settimana scorsa, ha «incoraggiato» il povero americano (ossia gli ha ordinato) a cominciare la spola diplomatica tra il regime israeliano e i Paesi «moderati» arabi (Egitto, Arabia, Giordania, Marocco) per stabilire un piano di pace regionale.

Pregasi notare: il piano di pace arabo del 2002, che era offerto senza condizioni, dovrà essere «negoziato», proprio come voleva Shimon Peres. E Washington è perfettamente d’accordo con Tel Aviv in questo: che il negoziato israelo-palestinese esca dall’orizzonte, e venga sostituito da un negoziato arabo-israeliano, che rimpiazzi il piano di pace saudita. E lo rimpiazza in modo tale che gli arabi lasciano i palestinesi al loro destino, e aprono relazioni diplomatiche con Yehud in cambio di tre mesi di congelamento degli insediamenti. Una volta aperte le relazioni, le colonie riprenderanno l’espansione.

Israele ottiene tutto, gli arabi nulla, e soprattutto i palestinesi non avranno nemmeno la tutela debole e ipocrita degli Stati musulmani.

Barak ha proposto a Mitchel un vertice internazionale (un altro) nei mesi prossimi per un «accordo regionale» e una road-map per gli accordi con gli arabi. Non si tratta più di un rilancio dei negoziati coi palestinesi. Essi escono di scena per sempre.

In questa porcheria, è da notare la sceneggiata a cui partecipano gli europei. Sarkozy, si fa sapere, è stato molto «duro» con Netanyahu, fino a consigliargli di liberarsi del ministro razzista Lieberman e sostituirlo con Tzipi Livni (la ex capostazione del Mossad a Parigi, una vera «moderata»). La Merkel, appena tornata da Washington per prendere istruzioni, senza mancare di battersi il petto per via dell’olocausto, ha chiesto ad Israele di «congelare gli insediamenti».

Sono «duri» fanno la faccia feroce. Però - fateci caso - ripetono la parola «congelamento». Non si tratta di chiedere la rinuncia definitiva di Yehud alle colonie illegali, ma sempre e solo di «congelarle». Con la finta faccia feroce, i compari europei preparano il gioco dei futuri negoziati: totale apertura degli arabi in cambio del «congelamento». Per tre mesi.

«Congelamento» è la parola chiave della nuova diplomazia europea e americana: ormai i palestinesi sono stati venduti. Sono non-persone.

Solo nelle capitali musulmane, Il Cairo e Ryad, deve esserci qualche comprensibile esitazione ad aderire ad un così generoso «piano di  pace». Per quanto siano «Stati sovrani» come ha detto Biden (di Israele, non di loro) a cui gli Stati Uniti «non possono dire cosa fare o non fare», vedono bene cosa è capitato all’Iraq, cosa capita al Libano e alla gente di Gaza, se non vogliono fare quel che Israele (e dunque Washington) vogliono che gli Stati sovrani facciano. Però esitano, perchè dopo avranno perso il solo mezzo diplomatico per trattare con Israele, e passeranno pure come traditori e collaborazionisti quali sono (quali sono costretti ad essere), che hanno venduto i palestinesi per nulla.

La disinformazione israeliana serve a «incoraggiarli» a cedere. Vedete, l’Egitto lascia passare le nostre navi da guerra nel canale; vedete, i sauditi sono d’accordo con noi se bombardiamo l’Iran.

Vedete, sono già dalla nostra parte in segreto; non resta che dichiarare la loro amicizia a Yehud in modo aperto, aprendo sedi diplomatiche in Sion. La guerra all’Iran? E’ soprattutto nel loro interesse. Israele la farà, perchè si preoccupa soprattutto di loro.

Hanno un bello smentire, gli Stati arabi. Nulla arriva ai nostri media.



1) L’asserzione è valida per chi abbia la memoria così corta da aver dimenticato che gli USA, anzi l’Occidente intero, hanno condannato Teheran per la repressione delle protesta cosiddetta «democratica» delle settimane scorse. Vero è che la condanna della Cina per il massacro a sfondo razzista di centinaia di uiguri non è stata altrettanto veemente e intimidatoria. Quando si ha un grosso giro d’affari  con gli USA, si è al sicuro dalle più aspre lezioni di morale. La differenza di sdegno confermerà i dirigenti di Teheran che, per non farsi dettare condizioni, bisogna proprio avere un’atomica.
2) Scartiamo per il momento un’altra ipotesi estrema: che Biden si candidi per una «promozione», nel caso che Obama cadesse sotto il fuoco di un attentato (Al Qaeda, naturalmente). Il vice diverrebbe presidente.

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