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Se vince Hollande, ecco il piano della finanza
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È un report in inglese di nove pagine redatto da Cheuvreux, filiale d’affari del Crédit Agricole che opera sui mercati europei per conto di 1.200 investitori istituzionali (fondi pensione e banche) per lo più anglo-americani. A questi clienti è diretto il rapporto riservato, che non era destinato al grande pubblico, scritto dal suo «chief economist» Nicolas Doisy. Ma un sito francese (www.reporterre.net) ne riporta vari passaggi.

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Il succo della nota avverte gli speculatori: niente paura, se il prossimo presidente della repubblica francese non liberalizza il mercato del lavoro in Francia, i mercati lo attaccheranno sul piano finanziario.

Dunque la flessibilizzazione estrema del lavoro, operata dal governo tecnico in Italia, sembra obbedire ad una strategia transnazionale. La finanza mondiale dubita però che un socialista all’Eliseo possa disobbedire al piano. Il testo integrale è qui.

Ecco, in sunto, quel che scrive ai suoi clienti il capo economista di Cheuvreux:

«Se è eletto il 6 maggio, come è probabile, il socialista Francois Hollande, dovra chiarire la sue posizione su due problemi pressanti: l’austerità di bilancio e la riforma del mercato del lavoro. Fino ad oggi è stato evasivo sui due argomenti, per pure e comprensibili ragioni elettorali: il chiarimento spingerebbe gli elettori popolari verso le estreme, complicando così l’equazione politica».

«Nicolas Sarkozy è più coraggioso e più trasperente su questi due punti – ma è ritenuto il perdente dello scrutinio. Come Mitterrand nel 1981-83, Francois Hollande dovrà dispiacere sia ai mercati finanziari, sia ai suoi elettori, perchè è certo che non potrà arrivare a conciliare entrambi. Ma da europeista qual è, dovrebbe essere sensibile all’attacco dei mercati contro il debito francese, specie in ragione dell’ostilità dei partner della zona euro di fronte all’inattività francese (sulle liberalizzazioni del lavoro)».

(...) «L’obbiettivo primario della Francia sarà di restare nell’Eurozona ma egualmente, ed altrettanto importante, di continuare a recitare la parte di co-leader con la Germania, anche al prezzo di una alta disoccupazione...».

«Purtroppo per Hollande, la necessità di una liberalizzazione del mercato del lavoro è il risultato diretto dellappartenenza della Francia alla zona euro: non si può avere l’una senza avere l’altra».

«La sola questione è di sapere se Francois Hollande cercherà di rispettare le sue promesse (agli elettori) o se le rimangerà lui stesso appena eletto. Il buon senso gli consiglierebbe di attuare questa liberalizzazione del mercato del lavoro immediatamente. Ma la prudenza innata di Hollande e l’orientamento del suo partito imporranno dei freni: del resto, solo una costrizione esterna metterà la politica francese nella buona direzione» (la buona direzione per i finanzieri: tagliare i salari, libertà di licenziamento, eccetera, ndr).

«Con la Germania che ha liberalizzato il suo mercato del lavoro da tempo (e la Spagna e l’Italia che lo stanno facendo), Francois Hollande non avrà scelta. Altrimenti la Francia dovrà affrontare la collera dei suoi partner dell’eurozona (e la collera dei mercati) rifiutando di mettere in opera le stesse riforme che stanno attuando loro.

Ingannare il popolo

Non fosse che per il fallimento del referendum del 2005 sulla costituzione della UE (quando i francesi votarono No a Maastricht), Hollande dovrà navigare attraverso forze contrarie nella sinistra. Il trattato era stato rigettato perchè doveva consacrare il mercato libero come principio fondatore dell’Unione Europea, attraverso l’inserimento nella costituzione della direttiva sui Servizi (si allude al timore francese per «lidraulico polacco», ndr). Questo rifiuto è stato una manifestazione tipica del pregiudizio francese (a sinistra come a destra) contro il mercato.

In questa prospettiva, sarebbe politicamente intelligente che i partner dell’eurozona permettessero a Hollande di poter esibire che ha strappato loro qualche concessione, anche se falso in realtà. La richiesta di ri-negoziazione del trattato sarebbe allora utilizzata per ingannare il pubblico francese facendogli accettare riforme opportune, fra cui quella del mercato del lavoro».

[Nota del redattore: si delinea qui una finta strategia che sarà adottata non solo da Hollande, ma dalle cosiddette «sinistre» alla Bersani: fingere di chiedere la rinegoziazione del trattato senza metterlo realmente in discussione (ormai il fiscal compact è stato ratificato, ed è quello che conta), ottenere delle concessioni che i poteri eurocratici e bancari sono già pronti a dare su temi secondari, per poi puntare a quello che i capitalisti speculativi vogliono davvero: la riduzione e flessibilizzazione dei salari, per retribuire ancor di più il capitale a spese del lavoro].

Più oltre, lo chief economist spiega ai suoi clienti multinazionali che Hollande è stato consigliere economico di Mitterrand quando costui, nel 1981-83, dovette abbandonare il suo programma molto socialista (con pretese di co-gestione) e svoltare di 180 gradi, decidendo «che la Francia sarebbe rimasta nella Comunità Economica Europea», e perciò nel sistema liberista (una enorme fuga di capitali obbligò a questo voltafaccia).

«La Francia sarà senza dubbio messa di fronte alla stessa necessità di una politica economica razionale a partire dal luglio 2012 – come nel 1981 e nel 1983; ma è assai improbabile che Hollande abbia dimenticato le lezioni dei suoi anni di formazione. Specialmente la lezione che esitare troppo a lungo fra due scelte ha un costo altissimo quando si subisce la pressione dei mercati; e dunque, in tali circostanze, la migliore politica è di essere chiari, e fare una scelta pro-europea».

«Scelta europea» e taglio dei salari sono dunque la stessa identica cosa... Ricordiamocelo, quando un politico ci ricorda che lui è «europeista».

«... Francois Hollande ha il cuore di un convinto europeista. Tra il ‘93 e il ’97 ha presieduto il think tank di Jacques Delors (1), il ‘Club Témoin’. Questo dovrebbe indurlo a optare per una politica di riforma favorevole alla crescita come tagliare la spesa pubblica e liberalizzare il mercato del lavoro (e i servizi) in un modo o nell’altro. La vera sfida per lui sarà di trovare la formula politica per vendere queste riforme alla popolazione francese».

... Qui, il nostro governate Monti potrebbe dargli qualche suggerimento: «Salva-Francia, Cresci-Francia», e giù tasse.

Il programma già scritto

«Francois Hollande ha già segnalato agli elettori centristi che non abolirà certe misure, le più simboliche e le più utili, prese dal suo avversario Sarkozy. In particolare ha fatto sapere che non tornerà sull’infame sistema delle 35 ore che Nicolas Sarkozy ha già cancellato. Ha anche pubblicamente controfirmato il programma di riduzione dei deficit accettato da Nicolas Sarkozy con i suoi partners della zona euro.

Fino ad oggi, ha evitato di promettere qualunque cosa di concreto per soddisfare l’appetito del suo elettorato popolare per lo statalismo. Ha solo proposto qualche modifica minore alla riforma delle pensioni del suo oppositore, o anche alla sua politica d’impiego pubblico senza tuttavia aumentare il numero dei dipendenti statali.

Tutto sommato, la sola ambiguità di Francois Hollande, finora, è stata di non aver fatto una sola proposta di riforma favorevole alle imprese, in particolare dal punto di vista della rigidità del mercato del lavoro» (lo chief economist ribatte sullo stesso chiodo).

«La minaccia di un attacco dei mercati contro il debito sovrano della Francia, dovuta alla collera dei suoi partner della zona euro provocata dall’inazione, dovrebbe bastare a costringere l’europeista pragmatico che è in lui.

Nel peggiore dei casi (che però è il più probabile) la pressione dei suoi partner dell’eurozona e dei mercati lo forzerà a fare la svolta ad U.

Il peggior scenario è che la Francia debba rassegnarsi alla liberalizzazione del mercato del lavoro, solo dopo che l’inefficacia delle politiche di rilancio sia constatata. Si può sperare che il processo non duri che qualche mese (e non qualche anno come negli anni ‘80) senza troppi disordini sociali.

Un possibile (e desiderabile) catalizzatore della svolta ad U potrebbe essere un aumento della disoccupazione notevole ed inesorabile, specie tra i giovani. Un altro innesco efficace, in questo contesto, sarà la pressione dei mercati che accadrà se Hollande si mostrasse troppo esitante nelle riforme coraggiose. Questa prospettiva, spiacevole per un presidente di fresca elezione, dovrebbe incitarlo fortemente a non fare giochi stupidi coi mercati».

Che dire? Forse solo che il «fare finta» sta diventando una tattica politica molto vasta: i partiti «fanno finta» di rappresentare la popolazione, mentre le «vendono» le riforme sul lavoro che tanto interessano ai capitalisti; ossia mentre la popolazione europea viene portata ai livelli salariali e previdenziali dei cinesi.

In realtà, i governanti europei hanno già ratificato il Fiscal Compact e il Meccanismo Europeo di Stabilità (l’orwelliano ESM), che chiudono i popoli europei nelle politiche di super-austerità che li trascinano nella recessione, e li mettono definitivamente, disarmati, nelle mani dei poteri oligarchici e bancari transnazionali. Sono le due mascelle con cui il capitale speculativo ci maciullerà, e sono già in atto (2).

Nulla di sorprendente per noi italiani, che di questa finzione siamo già vittime. I nostri partiti politici fanno finta che esista ancora la democrazia, e sostengono un governo nato da un putsch presidenziale. Tutti d’accordo, fanno finta di tagliarsi i colossali finanziamenti, con una legge astutamente pasticciata in modo da guadagnar tempo fino alle prossime elezioni. Dove andranno con la legge elettorale attuale, detta Porcellum, che fanno finta di voler cambiare: la legge che garantisce loro di riempire il parlamento dei sempre soliti, scelti dalle segreterie di partito e non dall’elettorato. Per poi sostenere un governo Monti, fino alla cinesizzazione del lavoro.

Contro questa sciagura, circola sul web una proposta che mi sembra buona: votare in massa per i partiti che oggi sono sotto il 4%. Almeno per rinnovare in parte il parlamento. Che ne dite?





1) Jacques Delors (nato nel 1925) è stato presidente della Commissione Europea per tre mandati consecutivi, dal 1985 al 1995; di fatto è l’artefice dell’unione monetaria europea, del trattato di Maastricht e della moneta unica, spinta verso un federalismo burocratico, a-democratico, che organizzò insieme ad alcuni da lui cooptati (fra cui il nostro, o meglio il suo, Padoa Schioppa). Nel 1995 Delors fu candidato dal partito socialista per diventare presidente della repubblica francese. Dopo molte esitazioni decise invece a sorpresa di rifiutare: probabilmente perchè non venissero alla luce i suoi coinvolgimenti nella vicenda delle ragazzine belghe preda di un circolo di pedofili altolocati, in cui la voce popolare accusava fra l’altro Delors. Il Club Témoin è un think-tank riservato dei cosiddetti «socialisti» francesi, che agisce come lobby pro-eurocratica nel PS. Lo ha fondato lo stesso Delors.
2) La Grecia, in piena realtà, sta svendendo i suoi attivi pubblici per pagare i debiti ai capitalisti speculativi. Le privatizzazioni riguarderanno il 35% dellla Hellenic Petroleum (l’ENI greca), il 25% della OPAP (la Sisal ellenica, quarta compagnia quotata del Paese), 12 porti, 34 aeroporti, un progetto di autostrada a pedaggio da 600 chilometri con la Turchia, eccetera. Il ministro economico Costas Mitropoulos spera così di raggranellare 20 miliardi di euro entreo il 2015, e 50 nel 2020: tutti fondi che nemmeno entreranno in Grecia, ma andranno a servire il debito. E chi è interessato a comprare è Israele; che per mostrare interesse, ha preteso ed ottenuto un accordo di cooperazione militare con Atene, che permette ai suoi caccia-bombardieri di addestrarsi all’attacco alll’Iran nello spazio aereo greco (quello israeliano è insufficiente). Dopo, comprerà per un boccone di pane i pochi gioielli pubblici greci. Un buon affare che anche noialtri contribuenti europei gli pagheremo: si pensi che Italia, Francia, Germania e tutti gli altri europei hanno aumentato i loro debiti pubblici di decine di miliardi per «aiutare la Grecia», o meglio i suoi creditori. Israele non ha contribuito.



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