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Weimar: una tragedia da deflazione (parte I)
01 Maggio 2012
Parte 1/4Premessa necessaria Questo articolo non è affatto né vuol esserlo, ed i lettori lo capiranno chiaramente, una apologia del nazismo, ideologia neopagana (il paganesimo è un carattere essenziale di quell’ideologia) alla quale il suo autore per la sua fede cattolica è radicalmente ostile, senza alcuna possibilità di compromesso neanche pratico. Questo articolo è soltanto un contribuito storico e divulgativo che ha per scopo una maggiore conoscenza di quanto avvenne negli anni Trenta, del XX secolo, nella Germania falcidiata, come l’Europa di oggi, dal rigore deflazionario del liberismo. I lettori potranno scoprire – con meraviglia – chi è stato il vero artefice della rinascita dell’economia tedesca a partire dal 1933 (e lo diciamo subito: non è stato Adolf Hitler) e con quali metodi riuscì in quel miracolo. L’intenzione dell’autore di questo contributo è quella di dimostrare che la responsabilità storica della conquista del potere da parte della setta nazista ricade tutta sul liberismo e, soprattutto, anche se la storia non si ripete mai identica a se stessa ma tutt’al più per analogie, quella di lanciare l’allarme sui possibili esiti disastrosi, in termini di guerre o rivolgimenti sociali violenti, della globalizzazione finanziaria, del capitalismo terminale. I popoli europei erano riusciti, a partire proprio dagli anni Trenta del secolo scorso, a costruire, nella cornice dello Stato nazionale, una realistica ed equa convivenza, il meno conflittuale possibile, tra capitale e lavoro e ad elevare quest’ultimo sia nei suoi diritti sia sotto il profilo economico. La globalizzazione ha rimesso il coltello completamente nelle mani del capitale – è stato, infatti, il capitale a realizzare, rovesciandolo, il sogno di unità mondiale di Marx – mentre il lavoro appare ancora diviso per nazioni e come tale indifeso rispetto al potere planetario esercitato dai capitalisti. Questi oggi possono, come detto, far propria la prospettiva del filosofo di Treviri, semplicemente adattandola a loro stessi: Banchieri e capitalisti di tutto il mondo, unitevi!. La globalizzazione ha riaperto, tragicamente, la lotta di classe, esattamente come già due secoli fa fece la prima industrializzazione. Perché la lotta di classe è sempre stata iniziata e condotta dai ricchi e dai vincenti contro i poveri ed i perdenti. Dal crollo del fronte alla proclamazione della repubblica C’è stato un tempo nel quale la Grecia non era bagnata dall’Egeo ma si estendeva tra le Alpi, il mar Baltico ed il mar Nero. In quel tempo le scene che abbiamo visto di recente ad Atene – scioperi di massa, gente che si dava fuoco per strada, fila di disoccupati davanti alle mense per i poveri – si verificarono a Berlino. Perché in quel tempo la Grecia era la Germania, anche se i tedeschi di oggi hanno dimenticato, di fronte alle sofferenze dei loro fratelli greci, le sofferenze dei loro padri. Anzi i «tempi» furono due: tra il 1920 ed il 1923 e tra il 1930 ed il 1934. Date queste che chi conosce anche soltanto un poco la storia immediatamente identifica con eventi che ebbero conseguenze tragiche per tutta l’Europa, anzi per tutto il mondo. Il Reich guglielmino era uscito sconfitto dal primo conflitto mondiale e la Germania dovette accettare senza condizioni, umiliata nel suo sentimento nazionale, il diktat dei vincitori, Francia ed Inghilterra. Mentre il fronte crollava, nel 1918 il Kaiser, Guglielmo II, fu costretto ad abdicare e ad andare in esilio in Olanda. Negli anni seguenti egli evitò un processo internazionale che i giuristi umanitari, sognando la kantiana pace perpetua, avrebbero voluto inscenare ai suoi danni per – era la prima volta che nella storia si avanzava tale pretesa – crimini contro l’umanità. Una fattispecie filosofico-giuridica inedita, questa, che avrebbe trovato di lì a poco un arguto contestatore in Carl Schmitt, il grande vecchio delle filosofia politica e giuridica del XX secolo, il quale ebbe il merito di mettere in evidenza il carattere di copertura giuridica delle pretese e degli interessi dei vincitori che contrassegna l’odierno diritto umanitario globale. succeduto all’antico Jus publicum europaeum inter-statuale. La politica interna tedesca, a seguito della sconfitta, si fece incandescente. Il 3 ottobre 1918 il cancelliere del Reich, il principe Maximillian von Baden, offrì il cessate il fuoco agli alleati. Il 28 ottobre successivo la costituzione vigente dal 1871 fu emendata in senso liberal-democratico: il cancelliere ora non rispondeva più al Kaiser ma al parlamento, il Reichstag. La classe dirigente guglielmina sperava di trasformare la Germania in una monarchia costituzionale, per preservare comunque il suo potere sociale ed economico, ma la cosa si palesò ben presto impossibile. La Germania cadde ben presto nel caos: torme di soldati frustrati rientravano dal fronte, squadre di freikorps si organizzavano per la difesa del Reich dai nemici interni ed esterni candidandosi a diventare la manovalanza armata della destra nazionalista, insurrezioni operaie si registravano ovunque e, sull’esempio di quanto contemporaneamente stava accadendo in Russia, si costituivano soviet, consigli di soldati ed operai, in Baviera dove fu proclamata una repubblica socialista. La violenza dilagava endemica in tutto il Paese e vedeva contrapporsi la destra nazionalista e la sinistra socialdemocratica e comunista in continui bagni di sangue. La Germania era sull’orlo della guerra civile. In questa situazione i partiti costituzionali, liberali, cattolici del Zentrum e socialdemocratici moderati, strappando al Kaiser l’abdicazione e l’esilio, riuscirono ad evitare il peggio ed il 9 novembre 1918 veniva proclamata a Berlino la repubblica senza che, però, questo placasse il clima da guerra civile tanto è vero che, contestualmente alla proclamazione ufficiale della repubblica liberal-democratica, sempre a Berlino Karl Liebknecht, socialista rivoluzionario, proclamava una repubblica socialista. Il primo governo repubblicano fu affidato al socialdemocratico moderato Friedrich Ebert. Il nuovo governo onde evitare la rivoluzione o la guerra civile accettò la tutela dell’esercito e dello Stato Maggiore ancora guglielmino. Questo spiega perché quando, più tardi, i nazisti ascesero al potere, presidente della repubblica era il vecchio maresciallo, eroe di guerra, von Hindenburg. La repubblica nasceva osteggiata dalla destra militarista e conservatrice e dalla sinistra comunista organizzata, nel movimento spartachista, da Rosa Luxemburg e dal citato Karl Liebknecht. Onde sbloccare la situazione, marginalizzando le estreme di destra e di sinistra, Ebert impose immediate elezioni per una Assemblea Nazionale costituente. Le elezioni si svolsero il 19 gennaio 1919. Da esse nacque una maggioranza moderata. Dato il perdurare dello stato endemico di violenza civile, l’Assemblea Nazionale si riunì nella cittadina di Weimar dalla quale, poi, la nuova Repubblica prese nome. La Costituzione promulgata, l’11 agosto 1919, a Weimar diede vita ad una debole repubblica semi-presidenziale, con un parlamento eletto con sistema proporzionale. Versailles: non pace ma stupida vendetta La tragica situazione nella quale si dibatteva la Germania avrebbe dovuto spingere Francia ed Inghilterra ad aiutarla. Invece il cieco revanscismo francese e l’ottusità vendicatrice inglese costrinse la giovane repubblica nel vicolo cieco delle sanzioni, contribuendo al suo indebolimento. Il Trattato di Versailles, più una vendetta franco-inglese che un vero trattato di pace, imponeva alla Germania di riconoscersi «unica responsabile dello scoppio della guerra» una clausola, questa, imposta, contro il parere del presidente americano Wilson, dalla Francia. Inutile dire quanto l’atteggiamento franco-inglese suscitasse il sentimento di rivincita in Germania, sul quale poi Hitler fece leva. Lo stesso trattato prevedeva pesanti riduzioni degli effettivi militari tedeschi e gravissime riparazioni di guerra, sulle quali diremo tra breve. Ma la norma più umiliante del trattato era l’articolo 227, quello che chiedeva per Guglielmo II, che però l’Olanda si rifiutò di consegnare, il Tribunale Internazionale «per offesa suprema alla morale internazionale». A questa norma seguiva l’articolo 231 con il quale la Germania era costretta a riconoscere «che essa e i suoi alleati sono responsabili per aver causato tutti i danni subìti dai governi alleati e associati e dai loro cittadini a seguito della guerra, che a loro è stata imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati». La giovane repubblica tedesca fu costretta ad accettare esosi pagamenti di guerra, dell’ammontare di 132 miliardi di marchi oro, che costrinsero la Reichbank, la Banca Centrale tedesca dell’epoca, a stampare fiumi di marchi ingenerando una megainflazione. John Maynard Keynes – il grande economista che rivoluzionò la scienza economica del XX secolo dimostrando l’inconsistenza e l’antisocialità dell’economia classica, ossia liberista, che purtroppo oggi è tornata a dominare globalmente le coscienze – comprese che la politica di francesi ed inglesi nei confronti della sconfitta Germania avrebbe causato soltanto fame e disperazione tra i tedeschi e preparato il terreno per nuovi conflitti. Per questo nel 1919, mentre era in corso la conferenza di Versailles alla quale egli partecipava come delegato del Tesoro britannico, scrisse un libro-denuncia che ebbe immediato successo, Le conseguenze economiche della pace. In questo testo Keynes perorava da parte degli Alleati maggiore generosità verso i tedeschi e definiva quella che stava scaturendo da Versailles una «pace cartaginese», con riferimento al duro trattamento che l’antica Roma aveva riservato alla rivale africana. Keynes si pronunciava anche contro l’idea, più o meno velatamente cullata dai vincitori, che la nascente Società delle Nazioni diventasse il luogo di ratifica del privilegio delle potenze occidentali e del mantenimento dello status quo, nell’ordine mondiale, a favore di Francia ed Inghilterra. Proprio per questo il libro di Keynes trovò ampio consenso negli Stati Uniti che all’epoca, chiusi nel loro splendido isolazionismo, erano diffidenti verso la Società della Nazioni. Gli americani si ricordarono del libro di Keynes nel secondo dopoguerra quando, contrariamente a quanto avrebbero voluto ancora una volta francesi ed inglesi, si opposero ad un nuovo trattamento diseguale per la Germania. Il Piano Marshall, che certo fu approvato anche per consentire all’industria americana di smaltire senza danni l’eccesso di produzione causato dalle necessità belliche, fu in sostanza una ripresa delle idee che Keynes aveva esposte in quel suo libro. Infatti, secondo Keynes le riparazioni di guerra imposte alla Germania, dai vincitori del primo conflitto mondiale, non avrebbero dovuto superare i due milioni di sterline, mentre tutti gli altri debiti di guerra avrebbero dovuto essere generosamente annullati, creando in tal modo un circolo internazionale virtuoso che avrebbe portato benefici anche agli Alleati. In tal contesto, inoltre, Keynes sollecitava dagli Alleati, in particolare dagli Stati Uniti, il varo di un programma di credito agevolato per sostenere l’economia tedesca e quella dell’intera Europa, affinché essa superasse quanto prima il crollo dovuto alla guerra. Idea, questa, come detto, ripresa successivamente dal Piano Marshall. Invece, la conferenza di Versailles, seguì, come si accennava, il basso istinto vendicatore dei vincitori. Quando, durante i lavori delle delegazioni diplomatiche riunite in Francia, anche il presidente americano Woodrow Wilson si oppose alle sue idee, Keynes abbandonò la conferenza ritirandosi a Cambridge per scrivere il suo libro denuncia. Una setta ai suoi esordi: La Germania di Stresemann Molti pensano che sia stata la megainflazione, dovuta alle sanzioni di guerra, a portare consenso ad Hitler. Se certamente il sentimento di umiliazione nazionale tedesco ha origini nell’iniquo Trattato di Versailles e se, pertanto, il desiderio di rivalsa contribuì, più tardi, al successo di Hitler, non fu l’inflazione la causa economica del successo nazista. L’iperinflazione tedesca va datata tra il 1920 ed il 1923 in un momento nel quale il DAP, il Partito dei Lavoratori Tedeschi, fondato nel 1919 da Anton Drexler, un operaio nazionalista – dal quale sarebbe nato il NSDAP, il Partito NazionalSocialista dei Lavoratori Tedeschi che sotto l’influsso dei fratelli Otto e Gregor Strasser sarà inizialmente molto caratterizzato a sinistra – altro non era che un piccolo gruppo del sottobosco teosofico ed occultista che vivacchiava all’ombra di organizzazioni esoteriche del vivaio massonico ed ariosofico tedesco, quali il Germanen Orden, l’Ordo Templi Orientis (in stretto collegamento con l’omonima società segreta inglese riorganizzata dal mago Aleister Crowley) e la Thulegesellschaft. Il DAP era un piccolo gruppo neopagano, dedito al wothanismo ossia all’antico culto dei germani inteso quale ancestrale elemento identitario della comunità nazionale e come base di assetti sociali più egualitari nell’imitazione dell’arcaico tribalismo germanico da reinverare, secondo questa ideologia, nella moderna società industriale di massa. A questa setta, che contava agli inizi non più di 60 membri, si affiliò un giovane caporale austriaco, Adolf Hitler, ex pittore senza successo ed ex caporale dell’esercito guglielmino. Hitler fu accettato nel gruppo per le sue straordinarie capacità oratorie e di organizzatore. Ma pare che egli vi fosse stato inviato, per trasformare quel gruppetto in un movimento di massa, da misteriosi superiori incogniti, da identificare, molto probabilmente, nei vertici della Thulegesellschaft tra i quali militavano diversi alti ufficiali dello Stato Maggiore della Wermacht. Furono, infatti, i suoi ufficiali ad ordinare ad Hitler di partecipare, come osservatore, ad una riunione del DAP, onde verificarne obiettivi, ideologia ed intenzioni politiche. Il giovane caporale rimase conquistato dalle idee socialiste nazionaliste di Drexler che riconosceva come quelle da lui stesso elaborate, sia pur confusamente, sin dagli anni bohémienne della sua gioventù a Vienna, dove aveva avuto modo di apprezzare i grandi partiti di massa da quello cristiano-sociale di Karl Lueger al partito socialdemocratico austriaco.
Erich Ludendorff e Adolf Hitler
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Lo stesso anno nel quale tra l’8 ed il 9 novembre quel piccolo gruppo di socialisti nazionalisti tentò, guidati da quel giovane caporale e dal vecchio generale Ludendorff, un fallimentare putch a Monaco di Baviera; nel 1923, la situazione finanziaria della repubblica era giunta allo stremo. Il governo divenne insolvente non essendo più in grado di far fronte alle riparazioni imposte a Versailles. A fronte delle difficoltà finanziarie del governo tedesco, l’ottusità anglo-francese non trovò di meglio che punire la Germania con l’occupazione della zona mineraria ed industriale più ricca del Paese ossia la Ruhr, ai confini con la Francia. Scoppiarono scioperi operai e nazionalisti mentre la popolazione tedesca assumeva atteggiamenti di resistenza passiva contro l’occupante francese. L’iperinflazione si aggravò ancora di più. La moneta tedesca giunse a valere un milione di marchi per un dollaro statunitense nell’agosto del 1923 ed oltre quattro milioni nel novembre dello stesso anno. Il marco ormai valeva meno della carta che serviva a stamparlo. La megainflazione determinò una drastica polarizzazione del reddito nazionale tedesco, da un lato favorendo gli speculatori, che ammassarono enormi ricchezze ai danni della popolazione meno abbiente, e dall’altro lato impoverendo fino alla miseria più nera tutti coloro che vivevano di un reddito fisso, in sostanza il ceto medio e le classi popolari. La maggior parte della popolazione tedesca vide in pochi mesi bruciare i propri risparmi e svanire il proprio reddito. Ne conseguì una forte disoccupazione nonché un tentativo di rovesciamento, da destra, del governo, il cosiddetto putsch di Kapp. La situazione costrinse la Germania ad emettere una nuova moneta il cui tasso di cambio era valutato in un miliardo di vecchi marchi per ciascun nuovo marco. In tal modo fu possibile riprendere a pagare le sanzioni di guerra e la Ruhr fu liberata dalle truppe di occupazione alleate. L’invenzione della nuova moneta fu opera di Gustav Stresemann, capo del Partito Popolare Tedesco di orientamento liberal-democratico, che tra il 1923 ed il 1929 fu ministro degli Esteri in un governo di coalizione con il Zentrum ed i socialdemocratici. Durante la gestione Stresemann si registrò un lieve miglioramento della situazione economica della Germania ed una prudente riapertura del dialogo con le potenze vincitrici della guerra. Il governo Stresemann, tuttavia, come tutti i governi liberali, operò una politica di rigore di bilancio, con tagli e tasse, che se certamente era necessaria in una situazione di iperinflazione come quella tedesca dell’epoca preparò la strada alle disastrose soluzioni del suo successore Brüning, quelle che per davvero spianarono la via alla marea nazista. Il piano Dawes e il piano Young: fine provvisoria del Gold Standard Durante la gestione Stresemann la Germania accettò l’aiuto che, finalmente, essendosi resi conto che Keynes aveva ragione, gli Stati Uniti le offrirono mediante il cosiddetto Piano Dawes. Si trattava di un programma di aiuti che consentiva alla Germania, impegnata fino all’inverosimile a ripagare i debiti di guerra, l’accesso ad un credito facile messo a sua disposizione dagli americani, i quali comunque ne traevano, a loro volta, vantaggio per collocare le proprie eccedenze industriali. L’aiuto americano riuscì, tuttavia, a far ripartire la produzione industriale tedesca.
Charles Dawes
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Il piano prendeva nome dal suo ideatore, il finanziere e politico americano Charles Dawes, e si basava sulla riorganizzazione della Reichbank, l’introduzione di una ulteriore nuova moneta, il Reichmark, e la ripresa dei pagamenti ma senza fretta delle sanzioni di guerra. Per raggiungere lo scopo, il piano prevedeva da parte della Germania l’emissione di un prestito obbligazionario, per 800 milioni di marchi oro equivalenti a 200 milioni di dollari che furono piazzati alla Borsa di New York. Il prestito era garantito dal capitale della Società Ferroviaria Tedesca nonché da una ipoteca sugli introiti fiscali della repubblica. In tal modo si crearono le condizioni affinché affluissero in Germania capitali di investimento statunitensi, risollevando l’economia tedesca e per conseguenza quella europea. Non si trattava, evidentemente, di carità o di gratuità, perché gli americani, con il Piano Dawes, mentre mettevano la Germania nelle condizioni di ripagare i debiti di guerra anche verso gli stessi States, esportarono in Europa le eccedenze della loro produzione industriale ritardando di qualche anno quella crisi che di lì a poco sarebbe esplosa nel 1929. Il generoso aiuto alla Germania serviva anche per evitare l’estendersi, dalla Russia verso Occidente, dell’influenza ideologica del comunismo. Al Piano Dawes subentrò più tardi, nel 1928-29, il Piano Young che ridusse ancor di più i risarcimenti di guerra imposti alla Germania diluendoli in rate sessantennali (l’ultima era prevista a scadenza nel 1988). Sul fronte interno, però, questi aiuti furono percepiti come pelosi ossia tendenti a legare l’economia tedesca al carro delle potenze occidentali, facendo della Germania una colonia americana. Questa percezione, che indubbiamente si fondava su un punto di verità, alimentò il malcontento sia a sinistra sia a destra. Comunisti e socialdemocratici più radicali, da un lato, nazional-conservatori e nazisti, dall’altro lato, convergevano nelle loro critiche, avanzate in nome del socialismo, del nazionalismo o dell’autarchia, contro i governi costituzionali di Weimar. I nazisti in particolare soffiavano sul fuoco dell’umiliazione nazionale e del riscatto della Germania, ricomprendendo in tale sentimento di riscatto anche la promessa di redenzione sociale per i ceti operai, più o meno strumentale a seconda del prevalere, di volta in volta, dell’anima socialista o di quella soltanto nazionalista in seno al loro movimento: «Tutto il laborioso popolo tedesco – scriveva Joseph Goebbels, il futuro ministro della propaganda del III Reich, in un articolo Per la liberazione del popolo tedesco sul giornale nazista Angriff del 31 agosto 1930 – langue sotto una insopportabile oppressione. L’economia crolla, gli scioperi coinvolgono tutta la vita sociale. Le tasse sono aumentate di parecchi miliardi con imposizioni dittatoriali (…). È Young che detta legge. Invece di essere una comunità popolare al lavoro, siamo una massa di iloti… Lo Stato è stato venduto all’incanto con i trattati di Versailles, di Londra e dell’Aia e sul popolo regna, cinico tiranno, una lamentevole accozzaglia di partito… che si f … beffe del bene della Germania, che difende i (suoi) interessi e i (suoi) profitti. Ma adesso, contro tutto questo, qualche cosa si è mosso. Contro la democrazia, che equivale all’abbrutimento delle masse all’interno e all’oppressione delle riparazioni di guerra verso l’estero (…) contro la tirannia dei partiti che ha sviluppato il moderno sistema della corruzione… si solleva… insieme al nazionalsocialismo anche tutto il laborioso popolo tedesco» (1). Certamente, come abbiamo detto, la storia non si ripete mai in modo eguale ma solo per analogie. Eppure, leggendo questo proclama di Goebbels, è impossibile non pensare, con preoccupazione, che anche oggi molti, soprattutto tra i disoccupati ed i ceti impoveriti dalla crisi di cui la finanza globale e le fallimentari dottrine del liberismo sono responsabili, sarebbero disposti a seguire certe sirene. Nell’immediato, comunque, il Piano Dawes sembrò funzionare ed a partire dal 1925 l’economia tedesca si presentava come avviata a miglior sorte. Questo consentì anche la riapertura di canali diplomatici, con gli accordi Stresemann-Briand, detti di Locarno, con la Francia e poi con Inghilterra, Italia, Polonia e Belgio. In base a tali accordi la Germania rinunciava definitivamente all’Alsazia ed alla Lorena, riconosceva i confini orientali come tracciati a Versailles ed acconsentiva alla smilitarizzazione della Renania. La Germania tornò ad essere un interlocutore nel consesso internazionale e fu persino ammessa alla Società delle Nazioni. Nel 1929, essa, insieme a Francia, Italia, Russia, Stati Uniti e Giappone, stipulò il Patto Briand-Kellog con il quale si stabiliva la rinuncia alla guerra per la risoluzione dei conflitti internazionali.
Gustav Stresemann
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Stresemann morì nel 1929 ponendo fine al periodo meno travagliato della Repubblica di Weimar. La politica liberale della Germania di Weimar, tuttavia, cozzava frontalmente con la realtà vissuta e percepita dai tedeschi che si vedevano ridotti a dipendere dai generosi, è vero, ma interessati aiuti esteri mentre la ripresa economica stentava a ripartire per davvero. L’orgoglio nazionale ferito dal ricordo delle umiliazioni subite dai vincitori ed il perdurare, nonostante tutto, delle difficoltà economiche costituivano terreno fertile, di propaganda e di reclutamento politico, per le estreme comuniste e nazionalsocialiste. La botta finale arrivò, però, solo nel 1929-33 e questa volta l’avvitamento economico non fu causato dalla megainflazione, come nel 1920-23, ma, al contrario, dalla deflazione. Uno scenario che ci riguarda molto da vicino alle prese con una analoga crisi che, dopo aver avuto i suoi inizi con l’esplodere della bolla speculativa dei subprime americani nel 2008, ha aggredito i debiti pubblici ed alla quale si sta rispondendo, stupidamente, con la solita ricetta deflazionista dei dottrinari liberisti. Il Piano Young – come si è detto, sostituì il precedente Piano Dawes – fu accettato dalla Germania il 7 giugno 1929, a ridosso del grande crack di Wall Strett del successivo ottobre che inaugurò la Grande Depressione. Fu adottato nonostante, in un referendum indetto nel successivo 22 dicembre, le forze contrarie al piano, che contavano tutte le organizzazioni nazionaliste ad iniziare dallo NSDAP ma anche il SPD ossia il Partito socialdemocratico rivoluzionario comunista, conseguirono un ragguardevole 14% di voti. Come non pensare ai piani di salvataggio capestro imposti, in questi mesi, alla povera Grecia, senza neanche far votare la sua popolazione?!
Owen D. Young
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Quel nuovo piano prendeva nome dal presidente, Owen D. Young, della Commissione americana che lo aveva elaborato. Esso fu introdotto perché, nonostante il piano Dawes, era diventato chiaro per tutti che la Germania non era comunque in grado di pagare le esose riparazioni di guerra a scadenza annuale e per un tempo troppo lungo. Il Piano Young suddivideva gli importi dovuti dalla Germania, calcolati in ancora 473 milioni di dollari, in una parte, circa un terzo, da pagarsi subito e la seconda tranche da rinviare a scadenza molto lontana nel tempo. Un effetto del Piano Young fu la creazione, nel 1930, della Banca dei Regolamenti Internazionali cui fu affidato il compito di coordinare i dare e gli avere tra nazioni creditrici e nazioni debitrici. Ma neanche questo nuovo Piano servì a porre rimedio al disastro finanziario causato dalla cecità anglo-francese a Versailles. A seguito del crollo di Wall Street del 1929, il sistema interbancario creato dal Piano Young andò in cortocircuito. Nel 1931 la banca viennese Creditstalt cessò i pagamenti innescando il panico in tutt’Europa e la corsa al ritiro dei fondi con conseguente fallimento di molte banche. Il presidente americano Herbert Hoover, repubblicano, di fronte all’impossibilità venutasi a creare per la Germania di pagare la scadenza della prima parte delle due rate del Piano Young, propose una moratoria di un anno di tutti i pagamenti intergovernativi relativi ai debiti ed alle riparazioni di guerra. Il panico nel frattempo era, però, già dilagato irresistibile su tutte le piazze d’affari americane ed europee. La crisi del 1929 ed il fallimento del Piano Young portarono al disfacimento del Gold Standard, del sistema di copertura aurea delle monete cartacee. La Banca d’Inghilterra fu autorizzata dal governo inglese a sospendere tutti i pagamenti in oro innescando l’abbandono, tra il 1931 ed il 1932, del sistema aureo da parte di altre ventiquattro nazioni, a partire da Argentina, Australia e Cile. Il Gold Standard sarà ripristinato con gli accordi di Bretton Woods nel 1944 per essere poi definitivamente abolito da Nixon nel 1971. Bruning: il disastroso rigore deflazionista In Germania, intanto, il consenso al movimento nazionalsocialista aumentava tra le masse operaie, i disoccupati ed il ceto medio impoverito. Adolf Hitler aveva innalzato la bandiera del ripudio del debito e della «schiavitù degli interessi».
Heinrich Brüning
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Il 29 marzo 1930, il presidente del Reich, il vecchio maresciallo von Hindenburg, nominava cancelliere Heinrich Brüning, esperto di finanza ma con idee di rigore assolutamente inadatte al momento perché il problema era ora, dopo la crisi iniziata nel 1929, la deflazione prodotta dal ritirarsi degli investimenti americani in Germania. Tra il 1930 ed il 1933 Brüning governò senza maggioranza parlamentare mediante decreti presidenziali di emergenza. In un certo senso oggi accade qualcosa di simile: i governi ormai legiferano direttamente, attraverso decreti legge o leggi delegate, senza più le lentezze delle normali procedure legislative parlamentari. Il governo Monti, poi, frutto di un colpo di Stato legale si regge, esattamente, come il suo antesignano tedesco, con l’appoggio del presidente della repubblica. La Grande Depressione aveva la sua causa in un mix di speculazione finanziaria e di eccesso di rigore nella spesa pubblica e nel contenimento salariale. La contrazione della spesa statale e dei salari aveva ridotto drasticamente gli investimenti pubblici e quindi l’effetto moltiplicatore della spesa stessa. Gli investimenti privati, invece, erano mortificati dalla mancanza di potere d’acquisto tra i lavoratori e consumatori. Questa situazione era la risultante dell’euforia finanziaria dei ruggenti anni ‘20, quando tutti, persino le cameriere d’albergo, giocavano in Borsa, inseguendo l’illusoria promessa di facile arricchimento. In altri termini le risorse finanziarie pubbliche venivano ridotte, in ossequio al rigore di bilancio imposto dal dogma liberista, proprio mentre le risorse finanziarie private, allettate anche dall’abbassamento della pressione fiscale, si dirigevano, per lo spontaneo ma irrazionale libero gioco della domanda e dell’offerta, verso il gran calderone della speculazione borsistica. Mentre gli effetti della Grande Depressione travolgevano anche la Germania, Brüning non seppe trovare di meglio che gli antichi ed inefficaci rimedi della teoria economica classica, ossia liberale: gli stessi riproposti oggi, nell’attuale analoga crisi, dal gotha finanziario globale che governa il mondo. Secondo le teorie economiche liberali la contrazione della spesa pubblica e dei salari avrebbe dovuto avviare la ripresa economica. Brüning pertanto tagliò drasticamente le spese statali, aspettandosi, secondo la predetta ricetta liberista, un immediato peggioramento della crisi seguito però da un successivo miglioramento con la ripresa della crescita. Più o meno quello che Monti va sostenendo anche oggi. Lo Stato tedesco, inoltre, tagliò del tutto le concessioni pubbliche per l’assicurazione obbligatoria sulla disoccupazione, ponendo a carico dei soli lavoratori i maggiori contributi che derivavano dal taglio statale. I benefici per i disoccupati si ridussero a praticamente quasi nulla. Recentemente, a fronte della crisi da deflazione nella quale si dibatte oggi l’UE, Paul Krugman ha contestato le attuali misure di austerità imposte agli europei ricordando all’eurocrazia, sempre più sorda, che «non fu l’inflazione del 1920-23, ma la deflazione di Brüning del 1930-33 ad aprire la strada del potere ad Hitler». «Brüning – ha scritto Maurizio Blondet – cercò di obbligare la Germania a servire il debito del settore industriale, che s’era indebitato a credito (con dollari roventi americani, attratti dai più lucrosi tassi d’interesse vigenti in Germania che si stava ricostruendo dopo la Grande Guerra) comprando terreni sopravvalutati (la bolla), impianti per ‘razionalizzare’ la produzione, ossia aumentando la ‘produttività’ con meno lavoratori. Industrie ad alta intensità di capitale scoprirono presto il lato oscuro della loro forza: le merci che producono, sempre più abbondanti, trovano sempre meno compratori, perché i consumatori-lavoratori avevano perso potere d’acquisto. I prezzi industriali calarono: s’innescava il ciclo tragico della deflazione. Nel 1931, nel disperato tentativo di sostenere i prezzi, gli industriali tedeschi ridussero la loro produzione di merci (in America, si gettarono a mare migliaia di tonnellate di granaglie e di latte, per sostenere i prezzi, mentre i disoccupati morivano di fame: la legge del ‘mercato’ esigeva di ridurre l’offerta). Ma in Germania, siccome i costi fissi incomprimibili (interessi sul debito, tasse, ammortamenti, affitti) venivano così divisi tra un numero minore di beni, il costo di produzione crebbe in proporzione inversa ai profitti calanti, fino a divorarli. Il sistema era ultra-liberista. La ricetta dell’ultraliberismo, allora come oggi, prescriveva: risparmiare il ‘costo fisso’ del lavoro, il solo comprimibile. I lavoratori furono licenziati in massa. Ovviamente, non funzionò: per ogni lavoratore licenziato, era un consumatore che spariva. Nel corso del 1931, molti industriali tedeschi non furono più in grado di pagare i debiti. ‘I cosiddetti costi incomprimibili erano diventati insopportabili, e cessarono di essere pagati’Con l’insolvenza del debito, cominciarono i crack delle banche. Il cancelliere Brüning, andato al potere nel 1930, spese miliardi per salvarle: il libero mercato non si applica più, quando a soffrire è l’usuraio. Allora torna di moda ‘l’intervento pubblico nell’economia’ La mano invisibile del mercato viene sostituita dalla mano pesante dello Stato, ma solo a difesa dei creditori. Brüning lanciò la sua politica anti-inflazionista (in realtà tragicamente deflazionista, nda), secondo i dettami del liberismo: per legge, decretò un taglio generale dei salari del 15% (lo stesso che viene imposto ai greci, oggi). Il calcolo era che, ridotto al lumicino il potere d’acquisto dei lavoratori, anche i prezzi sarebbero calati. La fame della classe operaia parve un prezzo agevole da pagare, per questo ‘risanamento’deflazionista. I prezzi non calarono, perché erano determinati da fattori ben diversi che i salari: essenzialmente, il costo del debito contratto per modernizzare, razionalizzare, retribuire il capitale a spese del lavoro. Sette milioni di lavoratori – un terzo della forza produttiva – era disoccupato. La classe media spazzata via. L’economia tedesca era stata, solo un anno prima, un modello di prosperità capitalista in pieno boom, era ora devastata. Anche allora, la democrazia s’era screditata fino all’impresentabilità, perché s’era asservita al ‘mercato’» (2). Oggi il monetarismo di Milton Friedman, la dottrina praticata dalla BCE, che si preoccupa soltanto dell’inflazione e dei prezzi, e non anche di finanziare la spesa pubblica di investimento per lo sviluppo, il pieno impiego e la crescita, impone analoghe e tragiche ricette, che gli emissari del potere finanziario globale – i vari Monti e Papademos ed i loro camerieri politici come la Merkel e Sarkozy (per non parlare del livello di servilismo dei nostri parlamentari) – si sono incaricati di far applicare con zelo e meticoloso scrupolo. (continua)
Luigi Copertino • Weimar: una tragedia da deflazione (parte II) • Weimar: una trgedia da deflazione (parte III) • Weimar: una tragedia da deflazione (parte IV)
1) Citato in T. Buron - P. Gauchon I Fascismi, Akropolis, Napoli, 1984, pagine 83-84. 2) Confronta Maurizio Blondet Perché ripudiare il debito (l’abbiamo già pagato) in Effedieffe, 25 febbraio 2012.
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