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Weimar: una tragedia da deflazione (IV)
11 Maggio 2012
Quarta ed ultima parteCome fu realizzato il miracolo di Schacht? La politica economica di Schacht fu simile, benché non identica, a quella di Franklin Delano Roosevelt, il promotore del cosiddetto New Deal. Come il programma messo in opera da Roosevelt, anche quello di Schacht si fondò sulla spesa pubblica di investimento, in lavori pubblici, ad iniziare dalla costruzione della rete autostradale tedesca. In tal modo Schacht creò milioni di posti di lavoro e risolse i problemi di disoccupazione ereditati dai governi liberisti e deflazionisti della sventurata Repubblica di Weimar. Oltre che con la spesa pubblica di investimento, Schacht risanò l’economia tedesca mediante l’azzeramento del debito estero (quel che oggi diremmo ripudio del debito), la nazionalizzazione delle grandi imprese decotte, il sostegno creditizio a quelle medie e piccole. In tema di commercio estero, ideò una nuova e moderna forma di baratto delle materie prime in modo da far perdere peso specifico alla intermediazione finanziaria in tale settore. Il meccanismo di stimolo al settore manifatturiero funzionava, per l’appunto, come un baratto: le materie prime importate erano pagate con prodotti finiti dell’industria nazionale, evitando così il peso dell’intermediazione finanziaria e fuoriuscite di capitali. Nel sistema di commercio estero ideato da Schacht, i fornitori di materie prime erano retribuiti o in prodotti nazionali tedeschi oppure in una moneta che poteva essere spesa soltanto per comprare merci prodotte in Germania, assicurando così a quest’ultima dei mercati sicuri. Questo sistema se, da un lato, assicurava reciproci vantaggi, dall’altro, però, va pur detto, corrispondeva alla strategia di consolidare uno spazio geopolitico ed economico ad egemonia tedesca. In questo senso, la politica di Schacht finiva per tendere alla subordinazione coloniale dei mercati degli alleati e dei satelliti della Germania. La Germania della Merkel, oggi, ha riprodotto qualcosa di simile, ossia, tramite l’euro/marco (l’euro è in sostanza il vecchio e pesante marco tedesco innalzato a valuta continentale) non più autonomamente svalutabile dai suoi concorrenti, ossia, in particolare, dai Paesi dell’Europa meridionale, è riuscita a rendere i mercati degli Stati aderenti all’UE mercati coloniali di spaccio della propria produzione. Senza, però, il depotenziamento del peso della finanza negli scambi, come invece fece Schacht. Ecco perché la Merkel non vuole sentir parlare di eurobond ed impone il rigore di bilancio a tutti i Paesi europei, nell’illusione di poter perpetuare una prosperità tedesca neocoloniale (senza comprendere che, però, la recessione dei mercati europei dipendenti da Berlino porterà alla medio/lunga anche alla recessione della Germania). Il terrore tedesco per l’inflazione, fondato sulla memoria di quanto avvenne nel 1920-23, sembra però aver offuscato il ricordo di quanto invece accadde nel 1929-1933, a seguito della deflazione. Questa memoria a senso unico – a fronte dell’ipotesi di trasformare la BCE in prestatore di ultima istanza per gli Stati europei (si tenga presente che, in realtà, basterebbe, a calmierare i mercati finanziari, soltanto l’annuncio da parte della BCE di essere pronta a fare da garante ultimo dei debiti pubblici, anche se non stampasse un solo euro in più) – rende non oggettiva la preoccupazione della UE, a guida germanica, per l’eccesso di debito pubblico quale fattore inflazionistico di destabilizzazione monetaria. A causa della sua intransigenza sul pareggio di bilancio, la sua contrarietà all’emissione di Eurobond ed all’acquisto sul mercato primario di titoli del debito pubblico da parte della BCE, la Germania della Merkel sta letteralmente gettando l’intera Europa nella più grave depressione dal 1929 in poi. Se i tedeschi facessero memoria della strategia messa in atto dal loro connazionale Hjamal Schacht, senza farsi intrappolare dal pregiudizio per via del fatto che egli operò a servizio di una dittatura totalitaria, forse si convincerebbero che non può essere il rigore deflazionistico a risanare l’economia. Fu lo Stato, attraverso l’emissione di moneta alternativa – e non il mercato! – che realizzò le condizioni finanziarie che permisero alla Germania del 1933 di riavviare la disastrata economia. L’idea di Schacht è ancora attuale: a fronte di titoli pubblici non spendibili, disoccupazione, imprese ferme, sarebbe saggio trasformare questi fattori di crisi in un’enorme disponibilità potenziale di mezzi monetari alternativi. Schacht infatti non fece altro che trasformare titoli di Stato in moneta complementare. Egli tra il 1933 e il 1936 realizzò uno dei più grandi miracoli economici della storia moderna, in linea con le analoghe politiche, keynesiane ed interventiste, del New Deal di Roosevelt. Oltretutto, secondo alcuni storici dell’economia, come il ricercatore dell’Enea Stefano Sylos Labini (1), più che le industrie dell’armamento i settori trainanti della ripresa germanica, sotto la cura Schacht, furono l’edilizia, l’automobile, la metallurgia. Un’affermazione, questa, che, se non assolutizzata, è in parte vera ma al tempo stesso bisogna tenere conto che settori come la metallurgia sono essenziali a politiche aggressive di riarmo e che nella prospettiva di fondo dell’ideologia nazista la ripresa economica, anche in settori innocui come l’edilizia e l’automobile, era comunque finalizzata soltanto alla guerra d’egemonia europea. Creando una moneta alternativa, Schacht riuscì ad immettere nel sistema privo di liquidità il circolante necessario senza innescare l’inflazione e quindi mantenendo i prezzi stabili. Ma, oltre ai mezzi tecnici, non si deve dimenticare che l’operazione riuscì perché i tedeschi, affamati quanto mai altri, ritrovarono fiducia in se stessi galvanizzati, nei più profondi reconditi del loro sentire atavico, da un regime – la storia è disincanto e quindi la cosa non deve scandalizzare alla luce di quanto sappiamo invece a posteriori sulla dottrina neopagana sul quale esso si fondava – che, senza dubbio, riuscì a conquistarsi la fiducia del suo popolo. Il fatto, poi, che quella fiducia sia stata ingannata da un disegno ideologico, che portò la Germania alla catastrofe bellica, non deve impedire una giusta valutazione dell’opera economica messa in atto allo scopo di rimediare ai disastri sociali ed economici del cosiddetto libero mercato. In un articolo apparso negli anni ‘80, Franco Cardini ricordava che alla vicenda di Hitler si potrebbe applicare la favola del pifferaio di Hamelin, al quale i cittadini disperati per l’invasione di ratti si affidarono e che li ricambiò portandosi via la loro migliore gioventù. Che la strategia economica di Schacht fosse eterodossa rispetto all’economia classica difesa dai liberali conservatori lo comprese anche l’economista, all’epoca, più impegnato nella critica all’ortodossia liberista. «Il dottor Schacht – rilevò John Maynard Keynes – è inciampato per disperazione in qualcosa di nuovo che aveva in sé i germi di un buon accorgimento tecnico. L’accorgimento consisteva nel risolvere il problema eliminando l’uso di una moneta con valore internazionale e sostituendola con qualcosa che risultava un baratto, non però fra individui, bensì fra diverse unità economiche. In tal modo riuscì a tornare al carattere essenziale e allo scopo originario del commercio, sopprimendo l’apparato che avrebbe dovuto facilitarlo, ma che di fatto lo stava strangolando. Tale innovazione funzionò bene, straordinariamente bene, per coloro che l’avevano introdotta, e permise a una Germania impoverita di accumulare le riserve senza le quali non avrebbe potuto imbarcarsi nella guerra. Tuttavia, come osserva Henderson, il fatto che tale metodo sia stato usato a servizio della guerra non deve impedirci di vedere il vantaggio tecnico che offrirebbe al servizio di una buona causa» (2). Keynes si rendeva perfettamente conto che, purtroppo, il genio finanziario di Schacht fu al servizio delle idee razziste di Hitler e tuttavia non poteva, e noi con lui, non apprezzare il metodo sotto il profilo puramente tecnico. Apprezzamento che è ancora più condivisibile alla luce della ricerca storica, da noi sopra ampiamente citata, dalla quale risulta chiaramente che le intenzioni, finalizzate alla ripresa economica della nazione, di Schacht e quelle, al contrario finalizzate all’egemonia razziale ed alla guerra, di Hitler solo in apparenza coincidevano, laddove invece, come poi dimostrò l’allontanamento del banchiere, esse divergevano profondamente. Il meccanismo, con il quale Schacht stimolò il manifatturiero, era, come si è detto, in sostanza una forma moderna di baratto attraverso il quale, pagando le materie prime importate con moneta spendibile solo nell’acquisto di prodotti finiti dell’industria nazionale tedesca, si evitava il peso dell’intermediazione finanziaria e la fuoriuscita di capitali. In tal modo lo Stato tedesco riuscì a creare moneta, senza indebitarsi con i mercati finanziari, proprio nel momento in cui manodopera e materie prime erano disponibili per sviluppare nuove attività economiche. Non solo: ma non comportando questa politica monetaria l’emissione di nuovi quantitativi di marchi, la Germania di Schacht sfuggì alla reazione punitiva dei mercati mondiali dei cambi che avrebbe costretto il marco alla svalutazione. L’idea della moneta alternativa fu attuata, con ancor maggior successo, sul mercato interno. Con l’emissione dei Mefo, inventati da Schacht, non si stampava moneta ufficiale ma una moneta parallela in forma di cambiale garantita dallo Stato. Infatti pur essendo obbligazioni, emesse sul mercato interno, i Mefo funzionavano in pratica come moneta alternativa e finanziavano la ripresa e lo sviluppo. La Reichsbank, la Banca Centrale di Stato, attraverso l’emissione dei Mefo fornì agli industriali i capitali di cui avevano bisogno e che il sistema bancario non poteva loro garantire in tempi di recessione, per mancanza di liquidità, né la stessa Banca Centrale poteva stampare senza incorrere nel pericolo dell’inflazione. Con i Mefo, invece, si garantiva al mercato la necessaria liquidità senza costringere la Banca Centrale ad emettere moneta né lo Stato a chiedere prestiti ai mercati, indebitandosi. Gli imprenditori furono autorizzati ad usare come moneta queste cambiali garantite dallo Stato. Con tali promesse di pagamento, gli industriali pagavano i loro fornitori. La fiducia riposava sul fatto che i Mefo erano sempre in ogni momento scontabili all’incasso. Se ciò fosse avvenuto simultaneamente la Reichsbank avrebbe dovuto convertirli in marchi emettendo moneta e alimentando l’inflazione. Ma in realtà la fiducia nel sistema, sorretta dal consenso verso il regime, era tale che mai gli industriali portarono i Mefo all’incasso, continuando a farli circolare come mezzo di pagamento alternativo. I Mefo diventarono da titoli cambiari «una vera moneta, esclusivamente per uso delle imprese, a circolazione fiduciaria». La fiducia alla base del sistema, come detto, era la stessa che i tedeschi riservarono al regime. E se ne possono capire, storicamente, le ragioni tutte connesse al progressivo miglioramento delle loro condizioni di vita, laddove essi in precedenza erano stati ridotti alla fame dalla disoccupazione deflazionista. Il tasso di disoccupazione diminuì immediatamente e costantemente a partire dal 1934 mentre i salari crescevano senza cenni di inflazione. Se nel gennaio 1933, quando i nazisti conquistarono il potere, la disoccupazione era arrivata ad oltre sei milioni, un anno dopo, nel gennaio 1934, essa si era dimezzata e nel giugno successivo i disoccupati non superavano i due milioni e mezzo; nel 1936 la disoccupazione scese a 1,6 milioni e nel 1938 i disoccupati erano ormai meno di 400 mila. Può, dunque, sorprendere se i tedeschi accrebbero il loro consenso al regime? Solo con il, comodo, senno del dopo si può rimanere stupefatti di tale consenso. Ma questo è moralismo e nella ricerca storica il moralismo non ha cittadinanza. Queste considerazioni, naturalmente, non tolgono nulla al fatto che, dopo questi successi economici, il cui merito tecnico va ascritto all’ebreo Schacht e non all’ariano Hitler, il regime nazista mostrò il suo volto neopagano e portò, come nella favola del pifferaio, i figli della Germania alla catastrofe bellica. Come si è visto, pur consapevole dell’antisemitismo del regime, Keynes, che non era un peloso moralista, non ha potuto, più tardi, non esprimere ammirazione per la «ripresa senza inflazione» attuata dal genio economico di Hjalmar Schacht, attraverso l’emissione di valuta parallela non visibile, e quindi senza conseguenze psicologiche, di tipo inflattivo, sul mercato. A Norimberga, Schacht spiegò che l’idea dei Mefo gli venne riflettendo sul fatto che se c’erano lavoro e materie prime inutilizzate doveva per forza esserci nelle imprese anche del capitale parimenti inutilizzato. Le sue cambiali di Stato non dovevano far altro che mettere in movimento quel capitale, rimasto nascosto, allo scopo di riavviare la produzione e riassorbire la disoccupazione. Schacht, forse, era fin troppo ottimista, perché in realtà, nella Germania travolta dalla Grande Depressione, presso le imprese i capitali erano del tutto svaniti, sicché, anche senza esserne pienamente cosciente, egli, più che riattivare capitali dormienti, immise liquidità in un sistema nazionale sconvolto dalla deflazione e dalle politiche di austerità e rigore praticate dai governi liberisti di Weimar. Schacht certamente sapeva che la finanza internazionale prospera, parassitariamente, mediante i prestiti, ad elevato tasso di interesse, che essa concede alle nazioni in difficoltà economica. Come accade, oggi, ai Paesi dell’Europa del Sud, schiacciati da un debito pubblico in gran parte causato dagli stessi prestiti dei mercati finanziari e privi di una loro Banca Centrale di Stato che, monetizzando gratuitamente il debito o perlomeno potendolo fare in qualsiasi momento, li renda indipendenti dal ricatto usuraico della finanza internazionale. «Nel Terzo Reich – ha scritto un economista inglese, Claude William Guillebaud –, all’origine, gli ordinativi dello Stato forniscono la domanda di lavoro, nel momento in cui la domanda effettiva è quasi paralizzata e il risparmio è inesistente; la Reichsbank fornisce i fondi necessari agli investimenti (con gli effetti ‘Mefo’, che sono pseudo-capitale); l’investimento rimette al lavoro i disoccupati; il lavoro crea dei redditi, e poi dei risparmi, grazie ai quali il debito a breve termine precedentemente creato può essere finanziato (ossia è pagabile negli interessi) e in qualche misura rimborsato» (3). Ripetiamo: se, da un lato, non è possibile, soprattutto cristianamente, approvare la politica razziale e bellicista del regime nazista, è invece interessante ed attualissimo, sotto il profilo della ricerca storica, l’approfondimento della politica economica messa in opera dalla Germania all’epoca di Schacht. Perché una tale politica economica potrebbe essere riproposta anche nell’Europa di oggi devastata – nonostante da decenni i proclami ufficiali dell’eurocrazia promettano crescita, occupazione e sviluppo – dalla deflazione, dalla speculazione finanziaria, da insensate politiche liberiste di rigore e da una disoccupazione che si aggira intorno ai 25 milioni di persone. La Germania rigorista della cancelliera Merkel, scrive Stefano Sylos Labini, «dovrebbe tener presente che fu la scarsa lungimiranza delle nazioni che vinsero la Prima Guerra Mondiale a determinare l’esplosione del debito, la sua monetizzazione e l’iperinflazione» (4) schiacciando il popolo tedesco ed aprendo le porte all’ascesa di Hitler. La Merkel dovrebbe imparare dalla storia della sua nazione: negli anni Trenta fu una politica di tipo keynesiano, sebbene tutta tedesca, a consentire, mediante l’aiuto di Stato, a rilanciare l’economia germanica, riassorbendo la disoccupazione. «Esattamente – aggiunge ancora Sylos Labini – ciò che, con le dovute differenze, bisognerebbe fare oggi in Europa, ma che viene impedito dalla politica egoistica e suicida del governo di destra (liberal-conservatore, nda) guidato da Angela Merkel» (5). Se fosse consentito alla BCE di emettere gli eurobond, ossia le obbligazioni europee, esse potrebbero avere la stessa efficace funzione delle obbligazioni Mefo ideate da Schacht. Ma anche a livello nazionale l’idea di Schacht potrebbe essere ripresa trasformando i BOT ed i BTP in moneta alternativa: «I titoli del debito pubblico potrebbero costituire una massa monetaria gigantesca in grado di finanziare lo sviluppo dell’economia italiana» (6). Anzi, gli stessi i titoli pubblici potrebbero perfino essere utilizzati negli scambi e negli investimenti sostituendo la moneta, come fu fatto con i Mefo di Schacht. Ad esempio, le imprese che non possono essere pagate dalle Pubbliche Amministrazioni – perché queste ultime sono vincolate all’assurdo Patto di Stabilità imposto dall’UE, che, nell’intento di deflazionare il contante circolante, blocca ed impedisce i pagamenti se in un dato periodo essi superano una certa misura – potrebbero essere pagate in titoli di Stato. Ipotesi che di recente ha avanzato, anche se solo per un momento, il ministro Passera, con l’approvazione delle organizzazioni datoriali e sindacali e di categoria. Oltretutto, in questo modo, pagando soprattutto le piccole e medie imprese con titoli di Stato, si consentirebbe almeno un parziale rientro del debito pubblico in mani nazionali, togliendolo dalle mani dei ricattatori internazionali. La trasformazione del debito estero in debito interno è fondamentale, sia per stabilizzare il valore dei titoli del debito pubblico che per sfuggire alla dittatura dei mercati finanziari. Non dimentichiamoci che il Giappone, il quale a nostra differenza è ancora un Paese a moneta sovrana, pur avendo un debito pubblico doppio del suo PIL, non è sotto attacco della speculazione per due semplici ragioni. La prima ragione è che a monte lo Stato giapponese ha la garanzia della sua Banca Centrale che funge da prestatore di ultima istanza (senza che essa abbia poi l’effettiva necessità di stampare moneta, per onorare i bond piazzati sui mercati, bastando sapere che può farlo in qualsiasi momento: esattamente come la Reichsbank di Schacht che si diceva sempre pronta ad onorare all’incasso i Mefo stampando marchi, senza però aver poi l’effettiva necessità di farlo). La seconda ragione è quella per la quale il 95% del debito pubblico giapponese è in mani giapponesi e non estere. In Giappone, ad esempio, sono in circolazione particolari Certificati del Tesoro riservati al risparmio delle famiglie, con rendimenti sicuri ancorati all’inflazione, e sottratti a qualsiasi collocazione sui mercati finanziari. L’idea di fondo dei Mefo sta, a ben guardare, nella nazionalizzazione del debito pubblico. In effetti, fino a qualche decennio fa, prima che la globalizzazione dirottasse verso i mercati finanziari i risparmi delle famiglie, delle imprese ed i titoli di Stato, esponendoli al ricatto della speculazione finanziaria internazionale, il debito pubblico era nazionale ossia lo Stato era esposto per la maggior parte soltanto verso il proprio popolo. Laddove i titoli pubblici circolano in prevalenza sul mercato interno essi possono essere usati come strumenti di pagamento. Se, al contrario, i titoli pubblici sono nelle mani dei fondi esteri di investimento e degli hedge fund, la speculazione ha mano libera, svendendoli in gran quantità, nello svalutarli ed impedendo, così, il loro uso come moneta alternativa interna. Affinché i nostri titoli di Stato possano essere usati come moneta alternativa, per le imprese, è assolutamente necessario farli rientrare sul mercato interno, anche perché, se detenuti all’estero, essi sono inevitabilmente sottratti alla circolazione interna. Secondo il Labini, per far rientrare in Italia una parte consistente dei BOT e dei BTP, occorre evitare operazioni speculative da parte delle banche d’affari detentrici dei nostri titoli di Stato ossia impedire ad esse di guadagnare sia sulle pressioni al rialzo sui tassi di interesse sia, soprattutto, sul valore dei titoli derivati, a copertura del rischio di insolvenza, stipulati sui nostri titoli di Stato, i cosiddetti Credit Default Swap. Allo scopo occorrerebbe un sistema di compensazione fra imprese facendo funzionare i BOT ed i BTP, rientrati, come una moneta complementare, come valuta virtuale capace di finanziare l’attività produttiva. Se, poi, un tale sistema fosse messo in opera congiuntamente dai Paesi dell’Europa mediterranea, essi potrebbero infischiarsene dei diktat rigoristi della BCE (7). Studiare storicamente le esperienze economiche eterodosse – che il dogma monetarista vigente vuole occultare perché i suoi gran sacerdoti sono perfettamente consci che una maggiore presa di coscienza da parte dei popoli sulle effettive possibilità di sistemi finanziari alternativi significherebbe l’inizio della fine del loro potere usuraico – è molto importante, a fronte della crisi in atto. Non solo il passato – come dimostra (senza indugiare in insostenibili simpatie per il nazismo neopagano e il pensiero hitleriano) il miracolo economico, statuale e non mercantile, della Germania di Hjalmar Schacht, economicamente agli antipodi di quella liberal-conservatrice della ex comunista Angela Merkel – ma anche l’attualità, a ben cercare, offre significativi esempi di esperienze economiche alternative come l’economia sovrana del Giappone o dell’Argentina neoperonista, la circolazione di monete complementari sul tipo dello Scec o del Simec di Giacinto Auriti o dell’Hour delle cittadine di Itaca (USA) e di Halifax (Canada) o del Sardex italiano. È l’ora di proporre strade diverse da quella monetarista e neoliberista che ci sta portando alla catastrofe globale. Anche – attenzione! – perché non si ripetano gli errori del passato tedesco, quando la deflazione ed il rigore hanno consentito ad una setta esoterica, composta da fanatici, di trasformarsi in un partito di massa. Alle radici della tragedia di Weimar vi è stato il liberismo, cieco, chiuso dogmaticamente nell’astrazione dei suoi algoritmi matematici ed incapace di misurarsi con la complessità della realtà umana, storica, sociale ed economica. Luigi Copertino • Weimar: una tragedia da deflazione (parte I) • Weimar: una tragedia da deflazione (parte II) • Weimar: una tragedia da deflazione (parte III)
1) Per quest’ultima parte del nostro articolo, ci siamo ispirati all’intervento di Stefano Sylos Labini La Germania problema dell’Europa, su www.sbilanciamoci.it. 2) Confronta J. M. Keynes, Il problema degli squilibri finanziari globali. La politica valutaria del dopoguerra (8 settembre 1941), in J. M. Keynes, Eutopia, a cura di Luca Fantacci, et altri, 2011, pagine 43-55. Ora anche in S. Sylos Labini, opera citata. 3) Citato in S. Sylos Labini, opera citata. 4) Confronta S. Sylos Labini, opera citata. 5) Confronta S. Sylos Labini, opera citata. 6) Confronta S. Sylos Labini, opera citata. 7) Confronta S. Sylos Labini, opera citata.
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