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La creazione tra Fede e scienza (parte III)
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La biologia olista ed i suoi limiti neoplatonici

Discorrendo tra scienza e fede, come abbiamo fatto finora, ci è già capitato di fare cenno ai limiti «neoplatonici» del paradigma olista, che la scienza post-moderna ha ormai fatto proprio, o di un certo modo di intendere questo paradigma. Diciamo «un certo modo» perché, ed è quel che vogliamo dimostrare, l’olismo può essere anche concepito secondo una versione aperta alla Trascendenza.

Il fatto che la scienza abbia abbandonato il vecchio e deleterio meccanicismo positivista è cosa sicuramente buona e da salutare con viva soddisfazione da parte di tutti.

Tuttavia, occorre fare diverse precisazioni, in sede epistemologica, nei confronti di un approccio olistico che voglia, a sua volta, porsi come un sistema dogmaticamente chiuso alla Trascendenza, anche quando sembra accoglierla, accogliendo in realtà, di ritorno, soltanto antiche visioni panteistiche o gnostiche, pertanto precristiane e a loro modo «neopagane». Non a caso abbiamo accennato a «limiti neoplatonici».

In biologia, genetica per la precisione, dobbiamo ad grande scienziato, Giuseppe Sermonti, un’opera di attenta esegesi in senso olista dei risultati delle ricerche scientifiche più recenti.

Riconosciamo certamente verso il Sermonti un grande debito culturale e gli tributiamo una profonda e pubblica stima.

Tuttavia non possiamo non rilevare, anche nel pensiero del Sermonti, quel limite neoplatonico che, a nostro giudizio (un giudizio cattolico), inficia, se non si compie un ulteriore passo verso l’Alto, l’intero edificio del paradigma olista applicato in biologia.

Il neoplatonismo della scienza olista riapre, senza dubbio, alla fede cristiana possibilità immense per riarmonizzare la fede stessa con la ragione, come fu fatto, proprio attraverso il confronto con il neoplatonismo antico, dai Padri della Chiesa i quali, nei primi secoli cristiani, portarono a compimento l’incontro tra fede biblica ed ellenismo che era già in atto sin dai tempi di Mosé.

L’incontro tra fede biblica e pensiero greco nonché la purificazione cristiana del platonismo e del neoplatonismo furono le basi della, successiva, grande costruzione teologico-filosofico-scientifica del miglior medioevo cristiano. Un’armonica costruzione spirituale e culturale andata, poi, in frantumi per colpa, soprattutto, di Lutero che inaugurò l’epoca moderna del conflitto tra i due errori del fideismo e del razionalismo.

fede_scienza_3.jpgCome, appunto, ricorda proprio il Sermonti, quando scrive: «… nel particolare momento della storia che ha condotto al tempo presente è successo qualcosa che non era ancora successo. E cioè che le conoscenze della scienza e gli strumenti della tecnica e i farmaci non furono trasferiti da una cosmologia e da una concezione metafisica della natura a un’altra, ma furono calati in un mondo privo di certezze, che professava solo dubbio e scetticismo, se non puro cinismo. Questo accadde alla fine del Medioevo e lo smarrimento metafisico è andato di secolo in secolo accentuandosi. Distaccati da una trama che dava loro senso e valore, i prodotti dell’abilità umana hanno cominciato ad espandersi senza misura, regolati solo dalle leggi del mercato e della guerra. La polvere da sparo ha sconvolto il mondo e tappezzato di giovani morti i campi di battaglia (…). E tutto quello che è nato dopo dall’ingegno dell’uomo si è allineato alle catene di montaggio e si è riversato impietosamente sulla terra senza altro principio che la palma del successo. La potenza si è impadronita del mondo, solo superata dalla prepotenza, e il potere non ha avuto altro crisma che se stesso. All’uomo è stato insegnato che questo era ‘progresso’, che era il segno della sua grandezza e persino, per chi aveva di queste preoccupazioni, il segno della benevolenza divina. Detto in poche parole, tutto l’impegno contenuto nella fondazione della tecnica e della scienza contemporanea è consistito nel privare le opere umane di ogni ‘significato’, cioè di deritualizzarle. Il significato è una esigenza che limita l’efficienza, obbligando l’operatore a una quantità di adempimenti formali che lo distraggono dal perseguire direttamente e alla spiccia il punto di arrivo. I grandi progressi realizzati dalla tecnica sono stati semplicemente il risultato dell’abolizione dalle operazioni umane di ogni sacralità: ciò ha reso, come per incanto, le pratiche umane meravigliosamente efficienti, ha consentito di porre ogni cosa in commercio, di sviluppare da ogni operazione un’industria. A un solo prezzo, appunto: che tutto rinunciasse al suo significato» (17).

Sermonti avrebbe potuto persino citare l’attuale Pontefice, Benedetto XVI, che nel discorso che avrebbe dovuto tenere all’Università La Sapienza di Roma, nel 2007, e che non gli fu possibile pronunciare per l’imbecillità di alcuni professori di sinistra sostenuti dai loro studenti anarchici, ancora più imbecilli dei loro docenti, discorso poi reso pubblico a mezzo stampa, così valutava i rapporti tra scienza moderna e tirannia del primato del mercato:

«Il pericolo del mondo occidentale ... è oggi che l’uomo, proprio nella considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo». E subito dopo, infatti, il Papa chiamava questa prostituzione della ragione con il suo nome: positivismo.

Tutto il problema attuale della scienza post-moderna nel suo rapporto con il Mistero sta proprio in questa necessità di sfuggire alla schiavitù ad essa imposta dall’utilitarismo, come dicono per l’appunto Sermonti e Benedetto XVI.

Solo così potrà ricostruirsi quell’armonia di fede e ragione, scienza e metafisica, della quale l’umanità post-moderna ha assolutamente e urgentemente bisogno.

Ma, e qui fanno capolino i limiti del neoplatonismo post-moderno ai quali abbiamo fatto riferimento, e che poi sono gli stessi del neoplatonismo antico e che i Padri della Chiesa seppero superare salvando proprio l’elemento di verità colto dalla filosofia greco-romana antica, se l’olismo di oggi, che si caratterizza per l’appunto neoplatonicamente, con rischio di deriva gnostica o «induista», non riesce ad oltrepassare il suo stesso limite, che è quello di una «sfericità» chiusa in sé, senza aperture alla Trascendenza, rischia di sprofondare nell’assurdo ed infine in una affermazione, nichilista, del «nulla globale» proprio partendo da «tutto globale» (il «nulla/tutto» delle antiche gnosi). Perché l’essere, e quindi il senso ed il significato, della perdita del quale Sermonti si lamentava, non è affatto dato dalla «sfera del tutto», né dalle corrispondenze dialettiche o analogiche tra le parti del tutto, benché anche da tutto questo si ricava significato, ma dall’Altro che nel tutto si riflette dall’Alto in un’analogia verticale.

Abbiamo di recente letto il libro di Sermonti «Una scienza senz’anima» (18), nel quale affronta anche la questione dell’evoluzionismo ribadendo alcuni concetti già riportati nei commenti del lettore Celibano al nostro articolo sulle sorprese della scienza post-moderna (19). Sermonti è un grande scienziato, un genetista raffinato, ma, a dimostrazione che la scienza vive non (perlomeno non solo) di osservazioni e verifiche bensì anche e soprattutto di inferenze meta-scientifiche (e questo vale per i darwinisti come per gli altri) e che l’inferenza fondamentale è quella antichissima sulla creaturalità o eternità del mondo (inferenza che è la più o meno inconfessata premessa di ogni ipotesi sia in fisica che in biologia), bisogna rilevare che anche Sermonti ragiona partendo da una ben precisa inferenza. Che è quella tipicamente monista, o panteista, del neoplatonismo.

Ne è riprova il suo aderire alla versione forte del «principio antropico» come quando, con poeticità panteista, egli scrive:

«Queste misteriose costanti, organizzatrici del mondo, che sono dovunque e sempre le stesse, dall’origine dello spazio e del tempo, sono come l’‘anima’ dell’universo, che compone le cose e gli esseri, quasi avesse un’intenzione, che pervade il mondo intero e si risolve nel tuo orto, in te e nella tua eternità. L’‘anima mundi’ trascende l’anima personale; la percepisci come quella beatitudine che ti pervade quando, di fronte alla bellezza e alla pace di un tramonto, ti dimentichi di te stesso e ti disperdi nelle cose, non sei più in un al di qua opposto all’aldilà, non hai più un tempo e un posto, sei nel sempre e il tuo spazio spazia sin dove arriva il tuo pensiero» (20).

Senza dubbio, la bellezza di un tramonto rinvia a «Qualcos’altro». Ma tutto sta nel chiedersi se il rinvio è ad una oscurità inconscia, impersonale, che «pervade» il cosmo e che contraddittoriamente si pretende poi auto-capace di «intelligenza progettuale», oppure se il rinvio al quale ci dispone la bellezza del tramonto è non a «Qualcosa» ma a «Qualcuno». Ad un Persona Infinita e di Infinita Intelligenza. Perché la differenza tra i due modi, quello «pagano» e quello «cristiano», o se volete «abramitico», di intendere l’olismo è tutta qui: la Ragione più alta che spiega anche la bellezza del tramonto non è immanente ma è trascendente l’intero cosmo. Essa è il Verbo.

Nel Verbo, dell’incipit giovanneo, che è poi la definitiva rivelazione del «Bereschit» del Genesi, è l’origine di tutte le forme archetipiche che si imprimono sul cosmo ad informarne le forme viventi e non viventi.

Gli archetipi, ai quali, sulla scorta del citologo portoghese Lima-de-Faria, piace al Sermonti riferirsi come a forme fondamentali e primigenie che si presentano prima nell’inorganico e che poi vengono prese a prestito anche dall’organico, non sono immanenti al cosmo olisticamente concepito (21).

Essi sono in Dio, nel Verbo creatore, nello Spirito Trascendente. Anzi, come afferma San Paolo nell’inno cristologico della Lettera ai Colossesi, è il Verbo stesso il primo e vero «Archetipo» per mezzo del quale tutte le cose sono fatte, per Lui ed in vista di Lui. Qui serve più Platone che Aristotele. Anzi, servono sia Platone che Aristotele riletti alla Luce della Rivelazione cristiana, la quale l’«Io sono Colui che è» del roveto ardente sul Sinai ha definitivamente svelato, incarnato, nel Cristo dell’«Io sono» in Giovanni 8,58.

I fautori del darwinismo, nell’impossibilità di sostenerlo su solide prove e basi scientifiche, che mancano del tutto, hanno pensato di utilizzare la propaganda ed in questo sono stati così bravi da convincere persino i più recenti Pontefici, in materia nella quale le loro dichiarazioni di compromesso con il darwinismo non sono certo né esercizio di magistero infallibile né certamente assistite dallo Spirito Santo. Sermonti, giustamente, in questo siamo con lui, critica il darwinismo, non solo perché scientificamente infondato, ma anche perché esso altro non è che inferenza nella scienza dell’ideologia utilitarista, funzionalista, che vede il mondo selvaggio, cattivo, brutto, cinico, tutt’al più da organizzare e sfruttare prometeicamente come una azienda volta al maggior profitto.

«Nella sua elusiva, evanescente spiegazione della realtà, - scrive Sermonti - l’evoluzionista coltiva tuttavia un’ambizione faustiana. Una volta che io so come la realtà ha preso forma, allora io potrò con le mie mani ripetere il processo, ricostruire il mondo. Il mondo mi apparterrà e non avrò più bisogno di rivolgermi al primo Artefice» (22).

Verissimo! Qui Sermonti coglie il lato luciferino, prometeico, violento del darwinismo. Quello che richiama l’«eritis sicut Dei» di Genesi 3,5.

Ma è la risposta che dà Sermonti, pur in parte condivisibile, che non può soddisfarci oltre quel tanto di parziale verità che essa esprime.

Perché Sermonti invoca la necessità di cercare non il meccanismo delle cose ma l’ordine che regna sulle cose, di intenderne il lessico familiare distinguendo nella natura classi e tipi al fine di percepirne, goethianamente, il ritmo, il canto, la danza gioconda che essa tesse intorno a noi e nella quale siamo invitati ad entrare per perderci, per farne parte, umile parte.

Qui è evidente che il sentire di Sermonti è pienamente panteistico. La grande tentazione che l’Israele biblico dovette costantemente fuggire, per rimanere fedele al Dio di Abramo, al Dio trascendente che si era rivelato al patriarca, fu quella del suadente, erotico, richiamo dei culti pagani della fertilità, praticati dai popoli circumvicini. Culti suadenti che, però, nascondevano, insieme all’orgia sessuale, anche il sacrificio umano rituale, in particolare dei bambini. I Fenici, i Cananei ed i Filistei, con il loro culto di Baal, ne erano un esempio. Nella Cartagine di Annibale, colonia fondata proprio dai fenici, il sacrificio dei bambini a Baal era ancora praticato all’epoca delle guerre puniche.

Questo per dire che il lirismo naturalistico del Sermonti non trova pieno fondamento storico e dietro l’incanto di «un mondo per simboli o per archetipi» spesso si cela il ritorno al più crudo paganesimo.

Ciò, ovviamente, non significa affatto che non vi sia una parte di verità nell’olismo propugnato dal Sermonti. Ed infatti quella parte di verità, ossia l’essere il creato «un mondo per simboli o per archetipi» è stata non tanto recuperata, dal mondo pagano, quanto piuttosto resa di nuovo evidente, dopo il peccato e l’esilio dall’Eden, proprio dalla Rivelazione cristiana, che pur tuttavia ha dovuto combattere contro il panteismo, ossia contro la spiritualità umana decaduta nell’idolatria per il peccato dei progenitori.

L’esito di questo ri-svelamento è la «teologia della creazione», fondamentale capitolo, sin dai tempi apostolici e patristici, della fede cristiana, tuttora presente anche nel recente catechismo del 1992, che nei grandi mistici, il cui rapporto con la creazione è esemplare del tributo di lode al Creatore mediante le creature, ha sempre assunto toni di lirismo ben più sapiente di quello pur poetico del Sermonti sulla scia del Goethe.

L’uomo non è soltanto una parte della danza dell’essere. L’uomo né è il centro spirituale. Ma non un centro spirituale orizzontale, immanente, mero centro della ruota che gira. L’uomo è il centro spirituale aperto verso l’Alto, verso l’Asse della Trascendenza. Egli è, nella ruota, l’immagine stessa dell’Asse della Trascendenza ed è per questo che l’uomo ha una specificità spirituale che lo differenzia, in un certo senso «lo isola», da ogni altra creatura e dal cosmo nel suo complesso.

La spiritualità francescana, così spesso fraintesa, lo fa anche il Sermonti, in senso panteista, esprime invece proprio questa centralità trascendente dell’uomo che, come nel «Cantico delle creature» parafrasato da Zeffirelli nel suo noto film sul Santo d’Assisi, è sì «parte di una immensa vita», che generosa gli si estende intorno, ma nella consapevolezza che questa vita cosmica, così meravigliosa, «è dono di Lui e del Suo grande Amore». Il canto di lode di Francesco parte dal «cuore» dell’uomo, ossia dal «centro» del creato, ma è rivolto verso l’Alto.

Invece, ci sembra che in Sermonti permanga l’equivoco del «tutto spinoziano», nel quale perdersi e dissolversi, che impedisce di comprendere che la creazione è, per l’appunto, un dono d’Amore di Dio all’uomo e perciò stesso una responsabilità per l’uomo, «custode del giardino dell’Eden», che dovrà renderne conto al vero Padrone.

Ma c’è un altro motivo dietro il tendenziale panteismo sermontiano: la necessità di sfuggire alla domanda sull’origine che egli crede imposta dal darwinismo, che in questo, secondo il suo giudizio, seguirebbe il modello biblico.

«Comprendere il mondo per simboli o per archetipi - scrive Sermonti - lascia in sospeso il problema delle origini. Il mondo ci si presenta come una musica meravigliosa che non sappiamo da dove venga. Dalla sua armonia possiamo lasciarci cullare, ma quando saremo nel pieno dell’incanto, il cuore ci si stringerà e saremo presi dall’inquietudine: da dove? Dobbiamo davvero chiedercelo? (…) La spiegazione evolutiva è la risposta alla domanda ‘da dove?’. Ma una ricerca strana, che non è l’esplorazione di un paese delle meraviglie, perché l’origine dovrà valere di meno delle cose originate, dovrà essere elementare, ovvia, un retroscena di delusione e di disincanto. Solo quella sarà un’origine che si rispetti, solo una tale origine umilierà il mistero del mondo, scoprirà il trucco, in un certo senso il falso, sotto la magia del prestigiatore. L’evoluzionista cerca l’origine per scoprire che, in fondo, un’origine non c’è, non c’è nessun mito di fondazione, ma proprio al principio di tutto c’è l’insignificante e il peregrino. Scrive Manlio Sgalambro: ‘L’ignobiltà dell’origine è il senso odierno della riflessione sull’origine’ (…). Ogni nascita è un’irruzione dell’informe nella forma e contiene in sé qualcosa di mostruoso e di violento (…). Una scienza che riceve la natura per simboli, cioè al di fuori dell’evoluzione, la accoglie bella e armoniosa, e respinge il mostruoso ai suoi confini. La visione evolutiva ha invece una speciale predilezione per il brutto, poiché il brutto sta a dimostrare che la natura non è stata a perdere tempo in estetismi e cerimonie, ma si è occupata del concreto, dell’utile, della darwiniana sopravvivenza del più adatto. La visione evolutiva ha questo di manchevole: non sa della vita, sa solo della sopravvivenza. Non sa del mondo, ma di quel che resta del mondo. E quel che è restato è il meno peggio, cioè il meglio. Se vi basta» (23)

A noi certamente non basta. Come non basta a Sermonti. Tuttavia non è questo il motivo per non dare una risposta alla domanda sull’origine, lasciando intatta la possibilità dell’eternità del mondo ossia propendendo per il panteismo pagano in versione olista post-moderna.

La risposta alla domanda sull’origine, da parte nostra, la cerchiamo nella Rivelazione non impauriti affatto del fatto che il darwinismo scimmiotti tale risposta, esattamente rovesciandola. Perché sappiamo benissimo che Lucifero è la «scimmia di Dio».

Per la Rivelazione ebraico-cristiana all'origine del mondo vi sono Bontà, Bellezza, Verità perché vi è Dio e la ferita, nell’anima umana, dalla quale scaturisce il male ed il brutto, viene solo successivamente per la disobbedienza, per la prometeica disaffezione del cuore umano a quella Bontà/Bellezza che ha dato origine al mondo.

Per il darwinismo, lo sappiamo, è l’esatto contrario e la selezione naturale può essere anche intesa come una secolarizzazione dell’inquietante predestinazionismo del «terribile», «rigorista», gnostico, «dio» calvinista. Ma è qui che si rivela l’Anticristo, l’Impostore, il Dajjal, la «scimmia».

Sermonti vuole risolvere la realtà nel pensiero, nella percezione soggettiva della realtà, o viceversa. Ed anche in questo si svela lo sfondo gnostico, idealista, neoplatonico, che muove il suo argomentare:

«Dobbiamo - egli ci dice -, seppure questa operazione possa essere pericolosa, fare cedere le recinzioni dell’io, la siepe che ci separa e ci difende dalla realtà. Convincerci che dove arriva il nostro pensiero, là arriva il nostro io e la realtà. Ma non perché sia l’io a costruire la realtà, bensì perché la realtà lo aspetta e lo invita a raggiungerla. Dimenticarsi di se stessi e ritrovarsi tra le cose (o tra gli altri) è la più dolce liberazione e la più ristoratrice apertura e sublimazione che possa occorrere al nostro spirito» (24).

Anche noi siamo d’accordo che l’uomo deve uscire da se stesso, deve trascendersi. Ma la direzione di questo esodo deve essere verso l’Alto e non verso il dissolvimento di sé nell’uno cosmico. Ancora una volta torna la tentazione che fu già dell’Israele biblico e che oggi ritroviamo nella spiritualità new age alla quale, se non sta attento, finirà per accodarsi anche Sermonti, che non a caso è molto letto e citato proprio negli ambienti neospiritualisti. Un destino, questo, che rappresenta una tragica trappola per molti che vengono dalla «destra magica» coltivata, un tempo, dalla destra politica radicale.

Solo se l’uomo, per Grazia, trascende se stesso nell’Unione mistica (le «nozze spirituali» di Santa Teresa d’Avila) con il Verbo, e per Suo tramite, con la Santissima Trinità, riuscirà anche, dimenticandosi di sé, a ritrovarsi, ed a ritrovare l’intero creato cui volgendosi verso l’Alto non ha anteposto il Creatore, in seno a Dio in una gloria sublime che è «deificazione gratuita» e co-padronanza in Dio di sé medesimo e del cosmo. Laddove a tanto l’uomo vuole arrivare da sé, con le proprie sole forze naturali, ripete il peccato originale e brucia la possibilità stessa di «deificarsi», ossia brucia l’Albero della Vita.

Ed è esattamente questo il rischio di una posizione olista malintesa che volendo risolvere l’oggetto nel soggetto, o viceversa, pretende di fare del soggetto il creatore dell’oggetto o, oggettivizzando il soggetto, pretende di fare del soggetto un mero frammento dell’oggetto da dissolvere nell’unità indifferenziata.

Ecco perché cade in contraddizione Sermonti quando, nel passo poc’anzi citato, scrive che la dissoluzione dell’io nel cosmo non dovrebbe intendersi nel senso che «sia l’io a costruire la realtà». In realtà, l’olismo panteistico intende proprio questo.

Vorremmo sinceramente, di tutto cuore, per la stima che gli tributiamo e per il debito scientifico e culturale che gli si deve riconoscere, che Sermonti riuscisse a comprendere quanto purtroppo sia grande la sua distanza attuale da un’autentica fede cristiana e quanto invece egli sia piuttosto un neoplatonico che deve ancora fare un passo per arrivare alla piena Verità.

Forse Sermonti non avrà di queste preoccupazioni «confessionali» e probabilmente le riterrà un impiccio. Ma, da parte nostra, siamo convinti che non sarà attraverso un olismo chiuso, neoplatonicamente, alla Trascendenza che egli riuscirà a trovare quella «scienza per archetipi» che sta cercando da una vita.

Scrive ancora Sermonti, con sincero afflato mistico:

«Stormi di rondini attraversano il cielo stasera. La scienza moderna ci illustra la meccanica del volo o la funzione alimentare della caccia agli insetti, ma non ci dice il senso di una rondine: qualcosa che ci convinca che la rondine è tale perché quella è ‘una forma dell’essere’, che pienamente ci rassicuri che la rondine non potrebbe essere che quella che è, poiché né una meccanica del volo né una tecnica di deglutizione fanno una rondine. Anzi esse ‘disfanno’ una rondine, riducendola a elementi da cui non sapremmo ricomporla (…). Il dovere dello scienziato è di aggiungere mistero e meraviglia alla natura, e non di sottrarveli per la sua e la nostra tranquillità. Deve rendere l’oggetto dei suoi studi irrinunciabile, perché esso non cesserà mai di esprimere qualcosa di nuovo, d’essere, come la rondine, segno, messaggio, simbolo (…). Quel grande e veritiero scienziato che fu Julien Fabre sapeva colmare di meraviglia e di grazia il più miserello degli insetti e nella tela dell’umile ragno, splendente di gocce di rugiada alla luce dell’alba, leggeva l’illustrazione gioiosa della spirale logaritmica. Lo stesso segno della spirale D’Arcy Thompson ritrovava nelle forme delle conchiglie, nelle corna dei montoni, nell’ordine dei semi nel fiore del girasole. Una scienza che cerca modalità e ricorrenze si può chiamare ‘una scienza dei tipi’ o, se si vuol sottolineare il valore primario dei tipi, una scienza ‘d’archetipi’ (…). Una scienza che rinuncia a quel sesto senso, che è la percezione del tipico, è una scienza che rinuncia alla bellezza (…). Immagino che ciò di cui scrivo non abbia l’aria di scienza, perché non vi ho parlato ancora della funzione, ma solo delle forme. Sì, io non ho tanta simpatia per le funzioni. Una pratolina e una quercia svolgono esattamente le stesse funzioni, e così un verme e una giraffa. La funzione degli organismi è certo anch’essa un segno mirabile, il segno senza spazio e senza tempo dell’universalità della vita, della sua unicità. Ma la funzione non distingue i viventi, e i non viventi non ne hanno bisogno. Questa esagerata importanza che si è data alla funzione è stata il riflesso di una visione economicista, aziendale, meccanicista dell’esistenza, che ha risolto tutta la realtà in piccole fabbriche, in meccanismi all’opera» (25).

Come non essere d’accordo con Sermonti, proprio partendo da una spiritualità cristiana. Sì, è vero, la funzione del volo e della deglutizione non sono una rondine ed ogni riduzionismo è pernicioso, in qualsiasi campo e quindi anche nella scienza.

Tuttavia, la rondine non è «una forma dell’essere», di un essere inteso panteisticamente. La rondine è un «ente» perché, non avendo in sé l’essere, lo ha, lo riceve, per partecipazione analogica, dall’Essere Infinito. La rondine «partecipa all’Essere» e quindi essa è in realtà «una forma partecipe dell’Essere».

E, si badi, non è questa una capziosa questione terminologica per addetti ai lavori di filosofia o teologia. E’ lo spartiacque tra un olismo panteista ed un olismo aperto alla Trascendenza.

La rondine, avrebbe cantato Francesco, come il sole «porta significatione» dell’Altissimo, dell’Essere, né è, a suo modo, in misura ontologicamente inferiore all’uomo, immagine.

Come alla fine riconosce anche Sermonti: «Restituite agli astri del giorno e della notte la loro singolarità e il loro ‘significato’. Salvate il Sole, la Luna e i pianeti e il firmamento o morirete perduti nel nulla» (26).

«Cieli enarrant gloriam Dei», canta, appunto, il salmista.

In una visione mistica, Gesù Cristo, così si rivolse a Santa Caterina da Siena: «Io sono Colui che è; tu sei colei che non è».

La vita ed i suoi archetipi, che la scienza tipologica delineata da Sermonti va cercando, non hanno radice nel tutto olistico ma nel Verbo/Logos, l’Archetipo per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte.

Luigi Copertino

(fine terza parte)

• La creazione tra Fede e scienza (parte I)

• La creazione tra Fede e scienza (parte II)
• La creazione tra Fede e scienza (parte IV)
• La creazione tra Fede e scienza (parte V)
• La creazione tra Fede e scienza (parte VI)



17) Confronta G. Sermonti «Una scienza senz’anima», Lindau, Torino, 2008, pagine 46-48.
18) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata. Si tratta di un bel libro nel quale l’autore porta avanti una giustissima critica all’utilitarismo cui, abbandonando il proprio originario statuto «sapienziale», ha finito per prostituirsi la scienza moderna, rendendo non solo incomprensibile all’uomo il reale, distruggendolo in un voluto nichilismo volto al profitto economico, ma anche rendendogli insopportabile, per insignificanza, quella gabbia dorata cui essa ha ridotto la sua vita. Scrive Sermonti a pagine 6-7: «Ho incontrato per lo meno tre scienze: una scienza di fatto, una scienza mitica e quella che mi pare risponda al senso migliore, originale della scienza, una sapienza contemplativa di cui la scienza positiva e quella mitica sono piuttosto il tradimento che la continuazione. Alla fine propongo un recupero (…). La scienza è un territorio così vasto che va dai missili a testata nucleare al numero dei petali di un fiore. Io amo i petali, sono dalla loro parte, e sono convinto che contengono più forza e ricchezza che non le testate nucleari, misero strumento della tristezza e dell’impotenza». Ora, se tali argomenti non sono portati all’eccesso, fino cioè alla denigrazione stessa della ragione, non possiamo che cristianamente aderirvi. Certamente non è invece condivisibile quanto Sermonti afferma, nell’intento di diminuire i meriti della medicina moderna, circa la tendenza delle malattie infettive a scemare nella loro endemicità dopo la prima grande pandemia con la quale esse compaiono. Perché se è vero che tale tendenza è un fatto e che oggi l’utilitarismo economico inventa malattie inesistenti pur di vendere vaccini e farmaci, è altrettanto vero che le vittime delle ricorrenti epidemie della peste bubbonica non sarebbero state dell’avviso del Sermonti circa i vaccini. L’argomentazione del Sermonti, comprensibile nel suo intento di disincanto dell’aura di «sacralità» della scienza utilitarista, è però pericolosa perché può facilmente tralignare nell’anti-umano, esattamente come ha tralignato il principe di Edimburgo, regnante consorte di Inghilterra, che da presidente del WWF ha affermato che avrebbe voluto essere un virus letale per eliminare la specie umana responsabile per la sua sola presenza, secondo la vulgata ecologista, delle catastrofi ambientali. Qui si svela tutta la luciferinità «omicida» ed anti-umana che soggiace a certe idee di matrice gnostica, come quelle che, guardando all’uomo come ad una semplice parte del «tutto», e non come al suo «centro spirituale» volto alla Trascendenza, e dunque per questo differente dal tutto, finiscono per risolvere lo specifico umano nella natura e quindi per auspicarne la dissoluzione in nome del ritorno di «Gea», antica deità pagana, altresì nota come «madre terra», intesa non francescanamente come creatura dell’Altissimo ma come «matrice» dei viventi, il cui culto è stato oggi ripristinato dall’ecologismo neopagano di sinistra che ebbe il suo antecedente nell’ambientalismo romantico del nazismo di Walter Darré, il ministro dell’Agricoltura del III Reich. Non è inoltre affatto accettabile tout court, senza una profonda revisione del limite gnostico e neoplatonico che vi si rivela, neanche la tesi biologica olista del Sermonti proprio perché, nonostante tutta la «poesia sapienziale» del suo argomentare, essa, così come è impostata, sfocia nel panteismo. Non a caso il Sermonti, esibendosi in improbabili esegesi del mito di Prometeo e del racconto sull’Adamo biblico, cade in obsoleti equivoci come quello che imputa alla Rivelazione ebraico-cristiana la responsabilità della desacralizzazione della natura. Così facendo, il Sermonti da un lato rivela la pulsione panteista e «pagana» che inferisce nel suo argomentare scientifico e dall’altro sembra del tutto dimentico, se non come mera eccezione, della spiritualità di un Francesco o di una Ildegarda di Bingen. Ed è proprio questa spiritualità, che non è da confondere con il panteismo pagano, che dimostra, come ad un certo momento ricorda pure il Sermonti («L’amore per la natura, per una natura animata e simbolica, fu proprio il cuore della religiosità di San Francesco d’Assisi che arricchì di sacralità tutte le creature della natura, anche le più feroci, ed ebbe per sorella persino la morte (…) noi dobbiamo guardare alle cose, all’albero, alla nuvola, alla rondine, con un senso gioioso di partecipazione, con la sensazione di un’intesa stabilita da sempre tra noi, di una sorta di colloquio in corso. Dare del tu alla natura e parlare, come il santo poverello, al lupo e agli uccelli», pagina 43 e pagina 88), che il Cristianesimo non desacralizza affatto la creazione ma, spanteizzando il mondo, gli toglie il suo ancestrale carattere «magico» solo, però, per conferirgli quello statuto creaturale che è legge ontologica e morale che l’uomo deve rispettare per comando divino e naturale. Francesco affermando che le creature «portano signicatione dell’Altissimo» esprimeva esattamente questa visione della spiritualità cristiana, fondando una vera e propria teologia della creazione. Così, Ildegarda, badessa e, oltre che mistica, grande «scienziata» del suo tempo, cercava nella natura i segni della Sapienza divina di cui parla la Bibbia (non c’è sapiente migliore di Ildegarda al quale può applicarsi la seguente citazione di Sermonti, pagina 45,: «C’è veramente da domandarsi, ma non tenterò una risposta, se nell’antichissimo stato di comunione con la natura l’uomo non possedesse una capacità di lettura delle proprietà delle piante, degli animali e delle pietre, che gli consentisse di individuare tra essi i velenosi, i neutrali e i benefici, di distinguerne, traverso una semeiotica perduta, la temperie e il significato, che si tenta oggi di recuperare nei libri degli alchimisti e degli erboristi, in testi che la scienza moderna considera con diffidenza e distacco»). E potremmo aggiungere anche San Bonaventura e molti altri, dal momento che il rapporto dei Santi e dei Mistici con le creature del Signore è sempre contrassegnato da una intensa comunione non-panteista ma di lode creaturale. Se Francesco «parlava» con gli uccelli, Antonio da Padova «predicava» ai pesci.
19) Riportiamo in nota i commenti che il già citato e gentile lettore Celibano di Ferrara ha posto in calce al nostro articolo «Le sorprese della scienza post-moderna» citato, avvertendo tuttavia che dal Celibano ci differenzia proprio la nostra «integrazione» cristiana del neoplatonismo di fondo che egli stesso sembra assumere, soprattutto in tema cosmologico. Riportiamo le sue considerazioni perché, citando ottimamente Sermonti e l’altro noto scienziato, paleontologo, Roberto Fondi, oltre a fornire diverse argomentazioni che demoliscono il darwinismo, rende molto bene la complessiva visione olista della biologia post-darwinista. Scrive dunque Celibano: «Sto rileggendo il libro di Giuseppe Sermonti e Roberto Fondi ‘Dopo Darwin -critica all’evoluzionismo’, pubblicato nel 1980. Già allora Roberto Fondi paleontologo affermava: ‘L’idea di uno sviluppo evolutivo graduale della nostra specie da creature come l’australopiteco, attraverso il pitecantropo, il sinantropo ed il neanderthaliano, deve considerarsi come totalmente priva di fondamento e va respinta con decisione. L’uomo non è l’anello più recente di una lunga catena evolutiva, ma al contrario, rappresenta un taxon che esiste sostanzialmente immutato almeno fin dagli albori dell’era Quaternaria’. Fondi cita a sua volta una paleontologa francese E. Genet-Vancin che afferma: ‘Sul piano strettamente morfologico ed anatomo-comparativo, il più primitivo - o meno evoluto - fra tutti gli ominidi risulta essere proprio l’uomo di tipo moderno’. Continua Fondi: ‘Si trovano quindi in una posizione molto precaria quanti credono che l’uomo Sapiens-Sapiens abbia avuto origine o dall’uomo Herectus, o addirittura dall’Australopithecus: tutte forme che, visibilmente, risultano più specializzate e differenziate della nostra. Per sostenere derivazioni di questo tipo, si dovrebbero invocare... delle inversioni evolutive e dei processi eccezionalmente rari nel mondo vivente, come la regressione dell’encefalo, la disintegrazione delle prominenze sopraorbitarie o la regressione del canino’. Giuseppe Sermonti, genetista, afferma nel suo libro ‘Il Tao della biologia’ (titolo emblematico che, riecheggiando l’opera di Fritjof Capra ‘Il Tao della fisica’, dichiara l’approccio gnostico-olista scelto dal Sermonti, nda): ‘Pochi anni dopo la scoperta del DNA e della sintesi proteica, gli stessi pionieri della biologia molecolare si erano resi conto che il differenziamento tra le specie non era una questione di accumulo o di sostituzioni di basi del DNA. E’ stato calcolato che l’uomo e lo scimpanzè hanno il 99% del DNA in comune ed il DNA del macaco è per il 97,5% umano’. Sermonti cita Francois Jacob il quale afferma: ‘Non sono le differenze chimiche nel DNA che hanno generato le differenze tra gli organismi’. Sermonti conclude magistralmente un capitolo affermando: ‘Consideriamoci allora sciolti dall’obbligo di dare all’uomo un’origine tarda e vedremo così come la sua fanciullezza, configurata dalla teoria neotenica, apra la strada maestra all’ipotesi che egli sia non l’ultimo prodotto della creazione, ma creatura aurorale e primigenia. Appare chiaro come ormai da decenni sia stata confutata dal punto di vista paleontologico e genetico la teoria evolutiva, eppure una delle più grosse menzogne scientifiche continua indisturbata a sopravvivere. Non riesco a nascondere una naturale insofferenza, ogni qualvolta sia necessario ribadire quanto sia falsa ed infondata la teoria darwiniana, e quanto al contrario la vita sia una palese conferma dell’esistenza di intelligenze creative, sarebbe come se fossimo costretti a ripetere all’infinito che respiriamo attraverso il naso e non attraverso l’alluce del piede sinistro’. La disinvoltura con cui i darwinisti spiegano l’evoluzionismo è veramente strabiliante, cito Francis Crick, lo scopritore con Jim Watson del DNA: ‘Darwin capì che la selezione naturale fornisce un meccanismo automatico, grazie al quale un organismo complesso può sopravvivere ed aumentare tanto in numero di esemplari quanto in complessità… Come funziona la selezione naturale? L’essenziale sta nell’avere la sicurezza che in circostanze favorevoli un organismo sia capace di moltiplicarsi in grandissimo numero. Questo avviene di solito con una crescita in progressione geometrica: un organismo ne genera molti altri, identici a se stesso, ciascuno dei quali a sua volta può produrre discendenze identiche. Gli inevitabili errori di copiatura, fanno si che alcuni di questi differiscano (di solito lievemente) dal progenitore originale e tra questi ce ne saranno alcuni capaci di produrre copie identiche di se stessi. Crescendo la popolazione, verrà un momento in cui l’ambiente non potrà più sostenerla tutta: si avrà allora inevitabilmente l’eliminazione di alcuni organismi in modo che soltanto i superstiti potranno produrre discendenti. Sarà così automaticamente selezionato il più adatto a produrre discendenti. Un bel meccanismo davvero: la sua scoperta è uno dei trionfi intellettuali della nostra civiltà’. Crick in questo caso non fa riferimento ad alcun fatto, non menziona né piante né animali, né viventi né fossili; la sua è una pura esercitazione matematica ed intellettuale del tutto astratta da ogni osservazione naturalistica. Giuseppe Sermonti commenta così Crick: ‘Che tutta la complessità e varietà della vita sia derivata da Errori Tipografici è cosi assurdo ed improbabile che lo si può sostenere solo barando con i numeri. E’ come aspettarsi che una moltitudine di scimmie, dotate di macchine da scrivere, scrivano, insieme ad un mare di insensatezze, un libro leggibile. E’ inutile moltiplicare le scimmie ed allungare i tempi. E’ veramente incredibile che rispettabili scienziati abbiano preso per un solo momento sul serio questa teoria’. Riassumo altre considerazioni di Giuseppe Sermonti ‘… per il Darwinismo l’evoluzione riguarda il cambiamento delle frequenze dei geni nelle popolazioni, in virtù di quella che si chiama pressione di selezione, che si misura mediante il vantaggio selettivo, ... l’evoluzione si può riassumere in poche parole: la mutazione produce modifiche nei caratteri in alcuni individui di una specie; la selezione naturale favorisce gli individui che portano i caratteri favorevoli finché questi caratteri non si diffondono all’intera specie. Che con questo processo di piccoli aggiustamenti successivi si possa spiegare la trasformazione dall’ameba all’elefante mi sembra inconcepibile’. Mi rimane dentro, un velo di malinconia e di malcelata rassegnazione ogni volta che ‘rispettabili scienziati’, come li definisce Sermonti, continuano indisturbati a seminare amene falsità . L’evoluzionismo è incontestabilmente morto, la paleontologia, la genetica, l’anatomia comparata ne hanno decretato la fine, ma contemporaneamente l’evoluzionismo è incontestabilmente vivo: la grandezza della falsità intrinseca ne permette la sopravvivenza. L’evoluzione smentisce se stessa!!! Quante volte ho pensato alle fantastiche forme intermedie, tanto care agli evoluzionisti, al pesce che per catturare la preda sulla riva, attraverso il trascorrere del tempo e la pressione selettiva, si fa spuntare le zampe, perde le pinne, la coda e le branchie, comincia a respirare con i polmoni, e si trasforma così in un piccolo sauro, che a sua volta diventa arboricolo e si lancia dall’alto delle sequoie, prima planando timidamente, comincia poi a volare diventando un uccello.
Come fa un pesciolino con quattro miseri moncherini, a correre per catturare le prede, a respirare con delle branchie non ancora diventate polmoni, insomma come fa a sopravvivere dato che sopravvive solo il più adatto e dato che lui (in quella forma intermedia: né carne né pesce, è proprio il caso di dire, nda) non lo è?? (E’ questo il punto di verità colto dalla teoria del ‘Progetto Intelligente’ che si basa sulla cosiddetta ‘complessità irriducibile’: ogni organismo per poter esistere ha necessità, sin da subito, ossia originaria, a pena di non sopravvivenza, di tutte le sue componenti che risultano essere un tutto organico inscindibile, nda). Quale è il reale meccanismo, attraverso il quale la pressione selettiva, induce ‘errori di copiatura nelle sequenze proteiche del DNA’, nonché l’importanza di questi errori a livello di nuova conformazione morfologica della specie. Il meccanismo, voglio conoscere il meccanismo, che induce gli ‘inevitabili errori di copiatura’ e genera discendenze lievemente differenti dal progenitore, voglio conoscere il meccanismo che a sua volta seleziona tra le innumerevoli discendenze, già in odore di mutazione, quella più adatta. E poi come si può sostenere che ‘i figli - errori tipografici - di un genitore, saranno i più adatti ad essere selezionati per la mutazione, perché quelli in grado di produrre in gran numero discendenze identiche, ma se generano discendenze fotocopia, come faranno ad innescarsi i successivi processi di mutazione, se la condizione necessaria per l’evoluzione è che si generino discendenze con errori tipografici e non discendenze fotocopie??? Proprio come dicevo prima, l’evoluzione smentisce se stessa!!! La paleontologia ha provato che l’ormai considerevole mole di reperti fossili raccolti in tutto il mondo, smentisce clamorosamente l’ipotesi evoluzionistica, secondo la quale il semplice precede il complesso (complessificazione graduale), ha constatato al contrario una sistematica ‘discontinuità’, cioè la netta mancanza di forme di passaggio o anelli di congiunzione nella successione temporale e spaziale delle flore e faune fossili. Cito Roberto Fondi ‘... infatti, se fosse esistito un lungo processo di evoluzione graduale, dovrebbe essere molto difficile, per non dire impossibile, trovare delle soluzioni di continuità tra le forme animali e vegetali che si sono succedute nel corso del tempo, tali da permettere l’individuazione e la classificazione di categorie sistematiche ben definite e distinte’. Ricordo che l’evoluzionismo prevede ‘apparizioni successive nei grandi tipi di organizzazione’, cito Rostand (evoluzionista) ‘… le piante senza fiore, prima delle piante fiorite, gli invertebrati prima dei vertebrati, i pesci ed i rettili prima dei mammiferi ...’. A me appare molto chiaro: non è mai esistito un gradualismo di forme biologiche, se ci fosse stato sarebbe impossibile identificare le forme stesse, perché in continua evoluzione, e poi non dimentichiamoci che le forme viventi esistono tuttora, l’evoluzionismo parla sempre al passato, se un meccanismo regolasse veramente le mutazioni dovrebbe essere senz’altro individuabile anche oggi, soprattutto con la tecnologia a nostra disposizione, ma le cose non stanno proprio così. Non credo assolutamente che l’ipotesi della generazione spontanea (abiogenesi) della vita, possa avere senso. Cito Roberto Fondi ‘… negli esperimenti sull’abiogenesi finora effettuati, i composti organici ottenuti erano sempre in quantità minime, tanto che occorreva non solo schermarli subito dalle fonti energetiche che li producevano, ma anche concentrarli. In effetti le molecole organiche complesse si scompongono molto più facilmente di quanto non si formino... I diversi esperimenti sull’abiogenesi non avvengono a ‘caso’, ma sono il risultato di tutto un complesso di condizioni fisico-chimiche attentamente programmate e predisposte... dagli stessi sperimentatori’ .
Appare chiaro che siamo di fronte alla ‘solita tautologia scientifica’ dove si pretende di avvalorare un’ipotesi partendo da presupposti che porteranno inevitabilmente a confermare la stessa, in questo caso però la situazione appare più complicata del solito, perché non solo l’esperimento non è riuscito, ma si è dovuto millantare i risultati… La vita in tutta la sua varietà e complessità non può che essere il risultato di una cosciente azione di intelligenze creative, pensare alla vita, soprattutto a quella intelligente come il risultato di una casualità non ha nessun fondamento scientifico. Per quanto riguarda l’uomo, come giustamente afferma Giuseppe Sermonti, esso è l’archetipo dei primati, è il più primitivo (antico), l’uomo ed i primati attuali, non discendono l’uno dall’altro ma sono specie gemelle (solo dal punto di vista genetico morfologico). Alla fine del XIX secolo, venne coniato il termine di ‘neotenia’ (da Kollmann, nel 1885) riferendosi al processo di ‘fetalizzazione’, nel senso del mantenimento degli aspetti giovanili, è infatti impressionante la somiglianza del bambino umano con il neonato dello scimpanzé e dei primati in genere e come affermò nel 1836 Etienne Geoffroy Saint-Hilaire ‘… nella testa del giovane orango troviamo le infantili e graziose fattezze dell’uomo… al contrario se consideriamo il cranio dell’adulto troviamo forme veramente spaventevoli e d’una bestialità rivoltante’, quindi si può supporre, parafrasando l’evoluzionismo che sia la scimmia a discendere dall’uomo e non viceversa, ma siccome non accetto la teoria evolutiva dico che la scimmia è stata ‘copiata dall’uomo’ ».
20) Confronta G. Sermonti «Una scienza …» opera citata, pagina 12.
21) Scrive, con prosa jüngheriana, Sermonti: «… Lima-de-Faria, in ‘Evoluzione senza selezione’, sostiene, con una documentazione ineccepibile, che l’evoluzione della specie ha due momenti. Nella fase iniziale, si stabiliscono le forme fondamentali e immutabili, che si presentano nella fisica e nella chimica, prima che nella vita. I viventi le prendono a prestito da un mondo di cristalli e di vortici: sono il rettangolo, il cerchio, la lamina, la spirale, il cilindro, l’albero… Solo più tardi, accanto alle configurazioni pure, si esprimono le forme viventi particolari: la chiocciola, il merluzzo, la rondine, la gazzella, la bambina. Quelle che noi vorremmo chiamare ‘anima’, cioè qualcosa di permanente, di essenziale e di universale, le forme prime, anticipano la vita e la condizionano. Ma anche le forme particolari che appaiono nei viventi sbocciati non sono il risultato pratico di adattamenti locali e contingenti. Si guardi un fiore, un’orchidea: la sua delicata geometria, le graziose pennellate che ne adornano i petali, non sembrano davvero servire a qualcos’altro che alla vanità del fiore o a offrire al nostro stupore la libera scrittura di un Dio». Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagina 13.
22) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagine 62-63.
23) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagine 65-67.
24) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagina 73.
25) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagine 74-77.
26) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagina 81.




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