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La creazione tra Fede e scienza (parte IV)
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Il «macroantropos» nella biologia olista

Il Regno che secondo Sermonti la scienza, voltate le spalle alla Sapienza, ha perduto è appunto lì, nel Verbo/Logos. Del quale noi siamo immagine che Egli non ha disdegnato di assumere su di Sé proprio perché questa immagine di Lui, che noi siamo, ha la sua radice, la sua essenza, in Lui, che pure è altro da noi pur contenendoci in Sé, come contiene tutte le cose, tutto il cosmo.
«La scienza - scrive giustamente Sermonti - dovrà occuparsi non solo di modelli astratti per i quali la realtà non è che materiale da esperimento, ma anche di trovare un Regno, un Regno saldo, grandioso, luminoso, che resti al di là dei modelli e delle ipotesi, poiché queste passano, si contraddicono e non sono mai vere, mentre il Regno è, benché mai pienamente conoscibile, generatore di pensieri, di idee, di significati, non derivato, non figlio di qualche fragile teoria. E allora a noi non resta che proporre, se la scienza vuol essere una via verso la realtà, che essa cessi questo atteggiamento da Stato totalitario, rinunzi a disporsi di fronte alla natura come chi stia completando una conquista militare, e si presenti con tutto un altro abito, come qualcosa di simile a una poesia,a una canzone, a un affresco, …, che narrino della natura e alla natura si rivolgano perché presti loro ascolto» (27).

Sermonti, dati scientifici alla mano, ci riconduce verso verità tradizionali anche per quanto riguarda l’uomo e la sua comparsa nell’immanente. E’ davvero stupefacente come oggi la scienza confermi quanto la Tradizione ha tramandato circa il mistero dell’uomo, la sua specificità di creatura con un destino particolare rispetto ad ogni altro essere.

Tuttavia, Sermonti, come vedremo, si riporta ad un concetto antico, quello del «macroantropos», che può essere inteso in due sensi.

In senso trascendente riferendo il «macroantropos», l’Adam Kadmon del cabalismo ebraico puro, al Verbo/Logos, che è altro dal cosmo pur contenendolo in Sé.

In senso immanente riferendo panteisticamente il «macroantropos», l’Adam Kadmon come lo intende il cabalismo ebraico spurio e gnostico, all’«anima mundi» immanente al cosmo materiale.
Una espressione figurata di questo secondo modo di intendere il «macroantropos» l’abbiamo, non a caso in età umanistico-rinascimentale, nell’Uomo leonardesco, iscritto in forma di croce ma ad otto arti in un cerchio-quadrato simboleggiante il tutto cosmico. Una figura, non a caso scelta dall’Italia liberal-massonica di oggi per il retro dell’euro italiano, che nell’esprimere l’antropocentrismo umanistico è la sostituzione/imitazione di un’altra figura ossia quella, medioevale, del Cristo Pantocratore, assiso sul trono celeste, con in mano il globo del cosmo, ed iscritto nell’amigdala di Luce Metafisica oppure, in altre versione, iscritto in posizione centrale e trascendente nel cerchio del cosmo o, ancora, esterno al cerchio del cosmo, in atto di definirne con uno strumento simile al compasso la circonferenza (non ci si meravigli del fatto che nel medioevo Cristo fosse raffigurato con il compasso come architetto/artefice dell’universo: la massoneria ha, poi, tratto molti suoi simboli dal patrimonio simbolico cristiano ma distorcendoli in senso, appunto, antropocentrico e non più cristocentrico, sostituendo al Dio biblico un impersonale «Grande Architetto dell’Universo» che è però non è più il Cristo/Architetto, come raffigurato nelle immagini medioevali, ma è divinità intesa in senso o deista o panteista ma non più cristiana).

I rosoni delle nostre cattedrali medioevali, lungi dall’essere simbologia del presunto emanazionismo cosmico panteista, intendono, al contrario, esprimere esattamente il senso trascendente del «macroantropos», ossia del Verbo/Logos, laddove per il Centro della «rosa cosmica» passa l’Asse Verticale della Trascendenza Divina che è Origine Informatrice/Reggente del mondo. Nel Centro del rosone della cattedrale di Orvieto, quella che custodisce il noto miracolo eucaristico, compare il Volto di Cristo a simboleggiare, per l’appunto, l’Asse Verticale del Verbo/Logos che trascende e sorregge il cosmo, distinto eppure partecipato da Lui, rappresentato dal rosone medesimo. Ecco perché il pur neoplatonico Sermonti può scrivere: «Ho ritrovato un senso più profondo di scienza vissuta tra le navate di una piccola chiesa romanica. Sulla facciata un rosone dichiarava la gloria del sole e dei cieli; le proporzioni armoniche, le sezioni auree degli spazi, la linearità delle colonne esprimevano tutta la ricorrente costanza del reale. Come una regale monodia che elevasse lo spirito verso il triangolo che racchiude in sé il mistero inesprimibile di ciò che è» (28).

Eppure Sermonti, neo-platonicamente, ricade, di continuo, nell’equivoco panteista sotteso ad un certo modo di intendere l’olismo. In queste continue ricadute, duole dirlo, perché abbiamo per lui sincera devozione, ma bisogna pur dirlo, si misura la sua distanza dalla fede cristiana. Egli scrive, ad esempio: «E’ Iddio che è sopra le cose e in tutte le cose». Affermazione del tutto cristianamente corretta: Dio partecipa di Sé tutte le cose senza però degradarsi in esse. In questa partecipazione ontologica, che fonda al tempo stesso la distanza analogica e, da parte dell’uomo, incolmabile tra Dio ed il mondo, consiste tutto il mistero di ciò che noi, teologicamente, chiamiamo «creazione». Ma subito dopo Sermonti aggiunge, erroneamente: «(Dio) che è tutte le cose» (29). Qui è palese il panteismo cui può portare un mal inteso concetto di «olismo». Dio non è tutte le cose ma tutte le contiene in Lui. Le creature non sono Lui ma altre da Lui benché ontologicamente partecipate, gratuitamente per Amore, da Lui.

Sermonti, ci sembra, prediliga la seconda versione, quella panteistica, leonardesca, del «macroantropos», nella quale l’Uomo Universale sarebbe, ad un tempo, causa e fine di un cosmo autogenerantesi ed auto-dinamico. E’ esattamente il paradigma del «principio antropico forte» al quale Sermonti si richiama più volte, senza nemmeno citare la versione «debole» del medesimo principio che non pone l’uomo come necessità intrinseca del cosmo ma solo come possibilità per accogliere la quale il cosmo è stato «progettato» e, dunque, non si è affatto «auto-progettato». Sermonti, nonostante tutto il suo notevole e stimabile «lirismo scientifico», dimentica, in altri termini, la gratuità dell’essere come atto d’Amore divino.

Il dato scientifico più certo che abbiamo circa l’uomo è quello che egli, il Sapiens, appare all’improvviso, senza ascendenti diretti, e compare esattamente come è ancora attualmente, ossia esattamente come siamo noi. Il Sapiens non ha relazione di discendenza con quelle che, si è scoperto dallo studio del DNA, non sono altre razze umane ma, si badi bene, altre specie, l’Erectus, l’Heidelbergensis, il Neanderthal.

Scrive Sermonti: «Nei versetti del Genesi si afferma che Iddio creò Adamo ed Eva dal fango (o Eva dopo, dalla costola di Adamo) e che soffiò in loro la vita. Secondo gli accertamenti della scienza l’uomo è fatto della stessa sostanza di tutti gli animali, ed è più vicino per struttura e composizione ai mammiferi e tra essi ai primati. Questo non significa che l’uomo derivi dalle scimmie, come pensò Darwin e tanti prima e dopo di lui, ma significa un qualche rapporto di parentela (…). La vera essenza del testo biblico non è tuttavia nella negazione della parentela (tutti gli esseri sono fatti dello stesso fango), quanto nell’asserzione della creazione delle specie nella loro compiutezza. Oggi si può dire con buona approssimazione che in natura non esistono forme intermedie, tentativi di forme, variazioni continue. Non c’è stata graduale trasformazione, non c’è stata ‘evoluzione’. Anche l’uomo pare comparso come uomo, e il dettato biblico sembra imporsi come più vero di ciò cui erano giunte la nostra immaginazione e le nostre illazioni scientifiche. Il fedele può quindi rasserenarsi e può piangere invece chi aveva riposto la sua fiducia nell’evoluzione di Darwin» (30).

Una precisazione, però, si impone. Nel Genesi il «ruach» che Dio soffia nell’Adamo non è soltanto la «vita» in senso biologico. Il termine «ruach», traducibile con «soffio», si riferisce sia alla vita psichica che, ancor di più, a quella spirituale (psiche e spirito non sono, nell’antropologia tradizionale la stessa cosa pur costituendo, insieme al corpo, un tutto, un sinolo, informato ad aperto alla Trascendenza, allo Spirito Divino).

Soffiando lo spirito in Adamo, Dio lo rende «persona» ad immagine della Seconda Persona della Santissima Trinità, ossia ad immagine del Verbo/Logos, che infatti, nel disegno d’Amore e di salvezza di Dio, è chiamato ad assumere non la «persona» umana, perché il Verbo è già Persona, ma la natura umana, ossia la sostanza spirituale-psichico-corporea dell’uomo che è immagine di Dio nell’immanenza.

Sermonti, dunque, concede da scienziato, non da fedele, maggior attendibilità, come traspare dall’ultima citazione, alla Rivelazione biblica. Tuttavia, altrove, tende ad assumere la ormai certa originarietà dell’uomo come l’espressione di un «archetipo» olisticamente già insito nella sfera del cosmo, nel senso appunto del simbolismo dell’Uomo leonardesco, e che si esprimerebbe «necessariamente» ad un dato momento della storia dell’universo, in quanto programmato «ad intra» per esprimersi in quell’esatto momento. Non a caso, come si è detto, Sermonti preferisce la versione cosiddetta «forte» del principio antropico senza neanche prendere in considerazione quella cosiddetta «debole» che, invece, lascia spazio ad interventi «ad extra» del sistema fisico-biologico del cosmo.

Ma in tal modo, senza che lo si voglia, si ricade nello stesso determinismo che fu dello scientismo positivista, benché certamente declinato in modo diverso, dal quale ci si vorrebbe polemicamente allontanare.

Infatti, se il cosmo e  l’uomo non sono frutto di un atto di assoluta e libera gratuità, dove sarebbero l’Amore, la Grazia, la Libertà, il Dono dell’Essere?

Sermonti non dice chiaramente se Qualcuno abbia programmato la comparsa «improvvisa» dell’uomo o se essa sia soltanto lèemergenza finalistica di una presunta intelligenza endogena al cosmo olisticamente inteso e pertanto di una intelligenza impersonale (sul piano metafisico presumere una intelligenza non personale è un assurdo, mentre non lo è affatto presumere una intelligenza infinita). Sermonti sulla questione rimane «esoterico», non si espone più di tanto, anche se poi ad una attenta lettura di quanto egli afferma si capisce chiaramente come propenda per l’ipotesi dell’intelligenza endogena e dunque impersonale.

Plotino non diceva cose diverse da quelle di Sermonti. E neanche Platone. Ma Plotino e Platone non conoscevano la Rivelazione ebraico-cristiana. E’ stato il grande merito della patristica quello di aver portato a compimento il provvidenziale incontro tra Bibbia e pensiero greco, tra Gerusalemme ed Atene, tra Fede e Logos, che, come ha in più occasioni ricordato l’attuale Pontefice, iniziato sin dai tempi mosaici, ha trovato il suo finale adempimento in Cristo. Javhé sul Sinai si rivela come «Colui che è» in parallelo, anche temporale, con l’inizio della filosofia ellenistica che muoveva proprio dalla fondamentale domanda sull’essere, sul perché esiste il mondo anziché il nulla. In tal modo il Cristianesimo ha salvato e preservato quanto di vero il pensiero degli antichi aveva saputo scoprire, quasi come una preparazione al Vangelo riservata ai pagani, aggiungendovi, però, quel che tale pensiero, chiuso nell’immanentismo, lo stesso che un certo tipo di olismo post-moderno tende a riproporre, non poteva autonomamente nemmeno supporre ossia lo statuto creaturale e non panteisticamente divino del cosmo. In altri termini la sua non-eternità in dipendenza dall’Unico Eterno.

Platone, ad esempio, ha avuto il merito di scoprire il sovrasensibile, il mondo «Iperuranio» delle «idee» ossia dei modelli archetipici di tutto ciò che esiste nell’immanenza. In tal modo egli spiega il sensibile come riflesso del sovrasensibile, il relativo come riflesso dell’assoluto, il mobile come riflesso dell’immobile, il corruttibile come riflesso dell’incorruttibile. L’Iperuranio platonico è un mondo perfetto di Luce, verso il quale l’anima deve tendere, che trascende il mondo sensibile e funge da modello per la generazione del mondo sensibile. Una scoperta, questa di Platone, decisiva ma mancante, deficitaria, perché rimane chiusa nel suo monismo panteistico né, del resto, poteva un pagano andare oltre tale prospettiva. Manca infatti in Platone il concetto cristiano di «creazione» che rivela la Trascendenza di Dio. L’Iperuranio platonico, pur posto in una «regione» sovrasensibile, non è al di fuori del cosmo inteso olisticamente chiuso su se stesso. In tal senso Platone ripropone filosoficamente il medesimo concetto mitico della «luminosità olimpica», ovvero della sede degli déi, che già apparteneva alla religiosità pagana arcaica, nella quale gli déi sono prodotti della frammentazione emanazionista dell’originario «tutto cosmico» indifferenziato. Frammentazione che, nel mito, inizia con una prima rottura dualistica tra «Cielo e Terra», «Urano e Gea», alla quale segue una serie di altre frammentazioni/emanazioni, simboleggiate dalla lotta tra déi e titani o dalla pedofagia divina cui, ribellandosi, si contrappone il parricida Giove, fino all’emanazione della materia, dimensione cui appartiene l’uomo, a differenza degli déi, mortale, che in quanto è la più lontana dall’indifferenziato originario ha caratteri di negatività.

Certamente nel concetto di un mondo archetipico posto «al di sopra» dell’«uranicità» stessa (Iperuranio) si coglie lo sforzo platonico di pervenire ad un concetto perfetto di trascendenza. Ma il grande ateniese rimane tuttavia costretto nell’emanazionismo pagano come dimostra il fatto che gli diventa inevitabile da un lato svalutare il mondo sensibile fino a ritenerlo «ombra» e dunque «prigione», qui è il lato gnostico di Platone ben espresso dal cosiddetto «mito della caverna», e dall’altro ricorrere, riprendendone l’idea dagli stessi antichi miti pagani, all’ipotesi del demiurgo divino, una deità a metà tra mondo Iperuranio e mondo materiale, come responsabile della caduta nel sensibile del sovrasensibile e della plasmazione del sensibile sul modello sovrasensibile. Manca, in altri termini, in Platone il concetto stesso, biblico, di «creatio ex nihilo». Il demiurgo platonico, pur nello sforzo di aprirsi al Trascendente, non è il Dio trascendente della Rivelazione biblica, e rimane invece piuttosto nel rango di uno degli esseri «divini» prodotti dal processo di frammentazione della monade indifferenziata originaria, ovvero, in termini platonici, dal processo di allontanamento/caduta dall’Iperuranio.

La stessa anima umana infatti è in Platone, come nella antiche gnosi pagane, pre-esistente nel mondo iperuranico, non dunque creata dalla Divinità al momento del concepimento naturale del corpo, e da lì, dall’Iperuranio, con la procreazione, che pertanto è, in ultimo, un disvalore, cade nell’oscurità della materia, nella «prigione» del corpo. Manca qui anche la prospettiva, tutta ebraico-cristiana, della salvezza integrale, spirito-anima-corpo, dell’uomo in quanto manca, appunto, l’idea biblica del mondo come atto creativo per Amore posto gratuitamente da un Dio che è essenzialmente Amore intra-trinitario.

Aristotile non si distacca da questa prospettiva ancora pagana. Egli si limita ad integrare la filosofia platonica con l’idea di una maggior immanenza o vicinanza del sovrasensibile al mondo sensibile, introducendo, appunto, l’idea dell’entelechia endogena, ossia interna, alla materia e spiegando l’essere come passaggio dalla potenza all’atto che avviene per una spinta, appunto interna, del «tipo» già insito, immanente, nella materia. Benché in Aristotile il mondo sensibile sembra meno svalutato che in Platone, rimane il monismo di fondo, quello che, quando il pensiero dello Stagirita tornò in Europa grazie al mondo islamico (Avicenna, Averroé) che a sua volta lo aveva conosciuto per merito di quello bizantino, lo fece inizialmente, prima che l’Aquinate ne riformulasse in senso cristiano la filosofia, guardare con sospetto e diffidenza, e condannare, dalla Chiesa.

La grande opera di rilettura, e purificazione, della filosofia platonico-aristotelica alla Luce della Rilevazione, che fu possibile proprio perché quella filosofia aveva già intuito, ma non compiutamente definito, alcune verità cristiane come la partecipazione del sensibile al sovrasensibile e la essenziale spiritualità dell’uomo, fu compiuta dai Padri della Chiesa, in particolare da Dionigi pseudo-aeropagita e da Sant’Agostino, preparando così la grande stagione medioevale dell’equilibrio tra fede e ragione, rotto poi da Lutero. La stagione di San Bernardo di Chiaravalle, di San Tommaso d’Aquino, di San Bonaventura. E’ stata questa rilettura e purificazione della filosofia antica, conseguente al compimento in Cristo della Rivelazione nella continuità e nel passaggio dell’Antica Alleanza nella Nuova Alleanza, che ha permesso all’uomo post-adamitico, sviato dalla gnosi spuria, impostasi con il peccato originale, di scoprire di nuovo quel che già Adamo sapeva: al Centro del cerchio del cosmo vi è come suo Asse Trascendente, come suo Axis mundi, il Verbo/Logos, l’Adam Kadmon della cabala pura, per mezzo del quale ed in vista del quale tutto è stato fatto.

Questa riscoperta dell’originaria Sapienza, perduta a causa del peccato adamitico, è stata quella che ha consentito all’arte medioevale di raffigurare il Cristo Pantocratore come Sovrano del mondo. Dalla successiva, umanistica e rinascimentale, dimenticanza di questa riscoperta, dimenticanza coincidente con il ritorno dilagante della mai sopita gnosi spuria, deriva l’immagine imitativa e sostitutiva dell’Uomo leonardesco come annuncio di un antropocentrismo che avrebbe portato al regno dell’umanità liberata dal Dio trascendente, ovvero alla follia delle ideologie totalitarie ed a quella del mercato assoluto e della tecno-scienza manipolatoria. Si compì in tal modo il passaggio dal cristocentrismo teoantropocentrico al mero antropocentrismo che dopo la «morte di Dio» avrebbe dichiarato la «morte dell’uomo».

Abbiamo inserito questa digressione sulla antica filosofia pagana e sulla purificazione cristiana di tale filosofia perché, come già detto, oggi la fede, nel suo rapporto con la scienza olista post-moderna, si trova in una situazione simile a quella nella quale operarono i Padri della Chiesa nel confronto con il neoplatonismo egemone nella loro epoca. Anche oggi la scienza, e la cultura in genere, è impregnata, dopo la fine del vecchio razionalismo, di una nuova forma di immanentismo molto simile a quello neoplatonico e che abbiamo imparato a conoscere come «olismo», o meglio come un certo modo «sferico», dunque chiuso su se stesso e refrattario alla Trascendenza, di concepire l’olismo.

Il pensiero scientifico del Sermonti è un tipico esempio di questo mondo di intendere l’olismo, benché egli cerchi, qua e là, di non chiudere del tutto con il Cristianesimo ed anzi tenti di recuperare del Cristianesimo quel che gli sembra più ricomprensibile nella concezione olista della scienza post-moderna, ad esempio il francescanesimo, senza però avvedersi sia del fatto che il Cristianesimo, che egli evidentemente non conosce a fondo, non è quel nemico della vita intesa come danza dell’essere, se per tale si intende un cosmo aperto all’Amore che viene dall’Alto, sia del fatto che del Cristianesimo non si può prendere qualcosa come al supermercato tralasciando il resto: o si prende tutto o nulla.

Ecco perché è necessario, cristianamente, «correggere» di continuo, sul piano epistemologico, filosofico e teologico, l’argomentare del nostro noto scienziato. Salvandone quanto, ed è molto, di vero in esso sussiste, che è poi quanto di metafisicamente vero ha intuito la scienza post-moderna neoplatonica, ma apportandovi quel che solo alla Luce della Rivelazione è possibile apportare, ossia la Trascendenza che è oltre la ragione, anche quella che ha compreso «olismicità» del cosmo, e lo stesso cosmo olisticamente concepito.

Il simbolismo morfologico della figura umana

C’è un’affermazione di Sermonti che appare decisiva: «Io non ritengo che la differenza tra l’uomo e l’animale sia solo una questione di quantità. E’ una questione di qualità (…). Resterà sempre il problema della qualità particolare dell’uomo …» (31). Affermazione che se fosse stata adeguatamente sviluppata avrebbe evitato a Sermonti i suoi errori nei riguardi del Cristianesimo. Infatti è proprio la Rivelazione cristiana ad aver esaltato, nel concetto spirituale di «persona», impossibile ad affermarsi laddove Dio non è Persona, questa differenza qualitativa tra l’uomo e gli animali, anzi tra l’uomo e il creato. Il che non significa affatto, come tenta di accreditare una certa «diffamazione» neo-pagana alla quale Sermonti sembra dare eccessivo credito, che l’uomo, nel Cristianesimo, sia «opposto» o «contrapposto» al creato. Secondo il Genesi, l’uomo è posto da Dio al Centro del creato, come Sua immagine nell’immanenza, affinché egli «coltivi» e «custodisca» l’Eden, che rimane in ultima istanza «proprietà» del Signore Dio e non dell’uomo. L’uomo nel Genesi appare più come un amministratore che deve sempre rendere conto del giardino, ossia della terra, affidatogli in custodia.

Sermonti, al contrario, sviluppa la sua affermazione in un altro senso, neo-platonicamente lontano dalla Rivelazione. Egli scrive: «Se non deriva dall’ambiente o dai cromosomi, da dove dunque deriva la figura umana? (…) la nostra figura ha un’altra determinazione che mi sforzerò di definire e poi cercherò di illustrare. Essa è determinata da una ‘necessità strutturale’, da un’inevitabile combinazione di relazioni formali e di modalità di sviluppo da cui essa emerge come figura tipica. La composizione genetica e l’ambiente sono condizionali a questa costruzione ma non sono in grado di disegnarla. Possono evocarla e alimentarla e allevarla, ma essa ha un’essenziale autonomia costitutiva. Se volete una collocazione per questa necessità strutturale essa era già presente nella ‘fire-ball’ all’atto del ‘big bang’ e non ha fatto che attendere qualche miliardo di anni per manifestarsi» (32).

Ancora una volta Sermonti richiama il «principio antropico» nella sua versione «forte», che impone l’uomo come «necessità strutturale» già insita nel cosmo sin dal suo momento iniziale. Ma così si deve supporre che il cosmo medesimo, impersonale o magari impersonalmente animato al modo pagano dell’anima mundi, sia capace di auto-finalismo, di darsi da sé, intrinsecamente, una direzione verso la comparsa finale, come approdo definitivo e da sempre programmato, dell’uomo.

Come già osservato in precedenza, nonostante ogni critica al determinismo della scienza razionalista, si ricade qui nello stesso identico determinismo, venendo meno ogni possibilità di gratuità, di libertà, di Amore. Perché se l’uomo, lungi dall’essere il frutto di un gratuito atto creativo di un Dio che crea per amore, altro non è che una «necessità strutturale» intrinseca all’universo, come l’Uomo leonardesco, allora non potremmo assolutamente parlare di libertà, e dunque di specificità ossia di differenza qualitativa, dell’essere umano rispetto all’ambiente naturale, agli altri animali ed al suo stesso patrimonio genetico. L’uomo sarebbe un essere determinato e privo di ogni libertà spirituale, privo della stessa possibilità di scegliere tra il bene e il male. Che è esattamente la libertà originaria che Dio aveva dato, affinché la loro scelta di amore fosse una scelta libera e non coatta, sia agli angeli viatori sia all’uomo adamitico messo di fronte alla prova dell’Eden. E questa libertà fu da Dio donata perché Dio stesso è somma libertà non necessitata da alcunché.

Sicché, correggendo in sede scientifica, epistemologica e filosofica il «principio antropico» da «forte» in «debole», deve essere chiaro che l’uomo non è affatto una «necessità strutturale», insita da sempre nell’immanente, ma è una libera «possibilità ontologica» attuata nel e per Amore di Dio, non appena le condizioni ambientali e genetiche lo hanno consentito secondo il Progetto della Creazione ab aeterno concepito da Dio stesso. Dio ha «pensato all’uomo fin dagli albori dei secoli» (sono parole di Maria Vergine in «Maria porta del Cielo, Ancora, Milano, pagina 32, rivelazione privata riconosciuta dalla Chiesa). Infatti, non stava scritto da nessuna parte, nell’immanenza, che il cosmo e l’uomo avrebbero dovuto esserci necessariamente, che doveva per forza esserci qualcosa anziché il nulla. Noi siamo stati voluti per Amore e non per necessità.

Il finalismo che si riscontra nel cosmo, e che governa il suo dinamismo, non è endogeno, non è autogeno, non è intrinseco al cosmo stesso, ma è in esso immesso «dal di fuori», dall’Alto. Affinché il cosmo stesso, sin dal momento del big bang, e poi tutte le creature, fino all’uomo, potessero esistere, in termini teologici potessero passare dalla potenza all’atto, dall’idea progettuale nell’Infinita Intelligenza Divina alla realizzazione immanente, è stato necessario apportare «maggiore informazione» e noi sappiamo che «informazione» è sinonimo scientifico del termine teologico «Verbo» perché, come ci ha spiegato Behe a proposito del DNA cellulare, l’informazione non si identifica ma trascende le componenti chimico-fisiche che la veicolano.

Senza dubbio la figura umana era già presente al momento iniziale del big bang ma non perché essa fosse intrinseca alla «fire-ball», piuttosto perché essa era già nel Progetto intelligente di Dio, che da quel momento iniziale è andato sviluppandosi, sotto costante cura (con termine più freddo potrebbe dirsi sotto costante «controllo») del Progettista Creatore.

Se è vero che, come scrive Sermonti, «Il progetto-uomo esiste da sempre …» e che «I cromosomi non sanno nulla dell’uomo. Essi elaborano materia vivente, sono la tavolozza e non l’affresco» (33) non può cristianamente ritenersi che tale eterno progetto dell’uomo sia intrinseco al cosmo. Il «Progetto-Uomo» che esiste dall’eternità altro non è che il Verbo/Logos, l’Adam Kadmon della cabala pura, la Seconda Persona della Santissima Trinità, sicché noi, con il nostro «ruach», da Dio insufflatoci, ossia la nostra anima spirituale, qualitativamente ed ontologicamente differente dall’anima animale e da quella vegetale, frutto queste ultime, a differenza della prima, della copula dei genitori, siamo l’immagine di tale Progetto ma, al tempo stesso, in ciascuno di noi l’«io», il «soffio spirituale», è altro dall’Eterno «Progetto-Uomo».

Dice pertanto bene Sermonti quando, continuando, scrive: «La presenza di tutti i colori è certo condizione per la buona raffigurazione, e la loro qualità può darle pregio e durata, ma la forma è altrove. E’ già data, e ciò che la madre trasmette al figlio sono alcuni ‘segni’ evocatori e promotori che avviano una morfogenesi programmata nel silenzioso regno delle possibilità, in attesa nel giardino degli archetipi» (34). E tuttavia bisogna, ancora una volta, fare chiarezza. Perché se è vero che la forma è altrove, già data, in quanto è nel Verbo/Logos, per mezzo del quale ed in vista del quale tutto è stato fatto, e che tale forma quando trova attuazione, ossia passaggio dalla potenza all’atto, costituisce una delle molteplici possibilità, non deve però dimenticarsi che ogni ente, prima del suo passaggio all’esistenza, è una pura «idea» di Dio e non ha alcuna pre-esistenza ontologica, come invece pretendono gli gnostici, e può trovare il suo passaggio dalla potenza all’atto solo per decisione di Dio che si serve ordinariamente, e salvo il caso del «miracolo», di cause seconde, come ad esempio dei genitori umani nella procreazione. Se si tiene conto di questo si scopre anche il senso della provvidenzialità divina che accompagna il creato e la sua storia nonché l’uomo e la storia della salvezza.

Si riscontra nel linguaggio usato da Sermonti una evidente indecisione tra l’olismo inteso in prospettiva panteistica e l’olismo inteso al contrario in una prospettiva aperta alla Trascendenza. Pur ammettendo che «Leggi collocate fuori dello spazio e del tempo formano queste figure (le figure riscontrabili nel cosmo come il cerchio, il triangolo, la sfera, la spirale, nda) e le disegnano, mai precise, nell’esistenza, allorché queste sono evocate (meglio sarebbe stato dire: ‘sono rese possibili’, nda) da alcune semplici condizioni» (35), poi Sermonti non s’avvede che nella sua descrizione della «figura umana» finisce per contraddire la trascendenza stessa delle «leggi collocate fuori dello spazio e del tempo» e della natura ontologica dell’uomo fino a confonderla, al modo dell’olismo antropico «forte», persino intriso di richiami «matriarcali», con una necessità immanente simbolicamente espressa dalla morfologia umana:

«In riferimento alla biologia - egli scrive - Thom dichiara che esistono un determinato numero di ‘strutture formali, cioè entità geometriche, che prescrivono le sole forme che un sistema può presentare in un dato ambiente’. L’uomo è una di tali strutture. Egli esiste al di fuori della realtà ed è assunto nell’esistenza quando sono raggiunte determinate condizioni (genetiche ed ambientali) che evocano (meglio sarebbe stato scrivere ‘che rendono possibile’) l’uomo ma certamente non lo prescrivono. Possiamo cercare di rappresentare la figura umana come una tale entità geometrica (…). Un riferimento centrale necessario alla figura dell’uomo e in particolare a quella femminile è la sua equiparazione alla terra madre generatrice e nutrice, nella forma di una sfera con un asse verticale o di una sfera allungata, l’uovo o l’amigdala. Vediamo questo schema nelle statuine delle cosiddette veneri aurignaciane del paleolitico, secondo l’interpretazione che ne dà Leroi-Gourhan. Tutta la parte generatrice e nutrice del corpo femminile è compresa in un globo, che si prolunga verso l’alto e basso in due fusi simmetrici in cui sono abbozzati il torso-corpo e le gambe riunite. L’asse verticale, ‘axis mundi’, è il parametro centrale dell’equazione dell’uomo, dell’essere eretto. Esso è simboleggiato dal palo, dall’albero, …, dall’asse polare, …, dal sesso maschile (…). La rotazione come generatrice geometrica si manifesta in tutti i vasi plasmati con la creta, sul tornio rotante come i cieli, che sono immagini umane, cave all’interno per contenere uno spirito, aperte verso l’alto e completate da due braccia-manici (…). Lungo l’asse si sviluppa la polarità alto-basso nord-sud, che inizia con il capo celeste, ospite dei pensieri e adorno di una chioma, le cui onde sono gli epicicli dei pianeti, con le due luci degli occhi sul volto, astri del giorno e della notte, e discende verso un torace che si colma d’aria e che racchiude i battiti del tempo, per poi scendere nell’addome, deputato alla nutrizione-generazione, e infine trova l’appoggio inquieto sul suolo degli arti inferiori. Quest’asse polarizzato si assesta nel cosmo con l’apertura di un asse orizzontale, ali distese, pennoni di velieri, braccia allargate che disegnano la croce, quale espressione più alta del teorema umano; da cui si sviluppano infinite equazioni. Nell’uomo di Leonardo la croce umana si iscrive nel circolo della generazione (…). Questo vago schizzo dei segni e delle formule generanti la figura umana pretende solo di fornire uno schema elementare che illustri l’uomo come un sistema necessario, prescritto da alcune strutture di riferimento e da alcune regole morfogenetiche, che quindi è dato al di là delle sue realizzazioni particolari, e attende, fuori dell’esistenza, di essere risolto ed espresso come un’equazione, come una formula, come un destino, come teorema da risolvere. Il progetto-uomo esiste da sempre …» (36).

Dispiace davvero che una così magnifica descrizione del simbolismo racchiuso nella figura umana finisca per scadere, in Sermonti, in un olismo del tipo panteistico quando invece essa, debitamente precisata, può condurre alla Verità cristiana.

Le condizioni genetico-ambientali non «prescrivono» l’uomo ma solo lo rendono possibile, aprono cioè la porta all’intervento informatore («maggiore informazione») dall’Alto. Sermonti lo dice, eppure poi si contraddice affermando che l’uomo è un sistema necessario ossia prescritto da alcune strutture di riferimento e da alcune regole morfogenetiche. Senza alcun dubbio l’uomo viene espresso sin dall’antichità con i simboli dell’Asse o della sfera allungata. La forma e la posizione eretta dell’uomo lo distinguono da ogni altro animale ed esprimono nella sua stessa morfologia la Verticalità della Trascendenza di cui egli è nell’immanenza l’immagine compiuta. Anche il sistema neurologico del corpo umano, con il suo andamento di innervature dall’alto, dall’encefalo, verso il basso, fino ai piedi, raffigura simbolicamente la Verticalità della Trascendenza che «in-forma» l’immanenza (ciò non significa però, come ritiene la neurologia scientista, riduzionista e cerebro-idolatrica, che sia solo l’encefalo il «centro» delle sensazioni e dei pensieri: recenti scoperte dimostrano che l’attività neuronale è, qui è proprio il caso di usare questo termine, «olisticamente» diffusa per tutto il corpo, ed in particolare nel cuore che dunque, a modo suo, «pensa»).

Ecco perché la morfologia umana non esprime, come sembra ritenere Sermonti, un simbolismo ontologico «in particolare al femminile». Essa, invece, esprime un simbolismo ontologico e morfologico puramente umano anche nel caso dell’amigdala o dell’uovo che, infatti, è nient’altro che una sfera allungata secondo il suo Asse Verticale. L’uovo, se non è inteso come «uovo cosmico» simboleggiante la sfera dell’essere panteisticamente chiusa in sé, e tale simbolo non può rappresentare perché l’uovo per assolvere alla sua funzione vitale deve aprirsi, e se invece è inteso come globo cosmico fessurato verso l’Alto, verso il suo Asse Trascendente, ossia, in altri termini, come globo del mondo sormontato dalla Croce e posto nella mani del Cristo Re Pantocratore, simboleggia per l’appunto la sovrana regalità di Dio sul cosmo e la vittoria sulla morte. E’ questa la ragion per la quale l’uovo, come simbolo della Regalità Divina trionfante sulla morte, è stato ripreso nell’ambito della Pasqua cristiana.

L’amigdala, dal canto suo, non è simbolo femminile, «vaginale», come sembra ritenere Sermonti. Essa esprime l’apertura luminosa del Cielo, lo squarcio, rivolto verso l’immanenza, del velo della Trascendenza. Ed infatti l’amigdala non è solo, in ambito cristiano, l’aureola nella quale è tradizionalmente inclusa la Vergine Maria ma è anche quella nella quale è incluso il Cristo Pantocratore nel Suo Sovrano manifestarsi come Re del Mondo.

La vulva del sesso femminile riproduce, è vero, un’amigdala. Però si tenga conto che nell’apparato riproduttivo femminile tale forma ha lo stesso significato, già citato, dell’apertura del velo della Trascendenza verso l’immanenza, ossia dello squarcio attraverso il quale l’Asse Verticale dello Spirito di Dio penetra nel cosmo che Lui ha creato dal nulla e che continua in ogni istante a sorreggere per non farlo di nuovo scomparire nel nulla.

Non è un caso che nelle loro apparizioni il Cristo e la Vergine Maria si mostrano in un «globo di Luce», ossia nell’amigdala del simbolismo pittorico, che è, appunto, l’apertura, verso l’immanenza, del velo della Trascendenza. Si tratta di quello squarcio del sovrasensibile che permette al mistico di vedere Dio faccia a faccia: naturalmente nella misura che è resa possibile per Grazia all’uomo, perché senza quella Grazia egli ne morrebbe (come la Voce di Dio dal roveto ardente dice a Mosé intimandogli di coprirsi il volto).

Qui si potrebbe aprire un intero capitolo sul significato trascendente della «Donna» che, però, non ci è possibile se non brevemente accennare.

Nel racconto biblico Eva è «estratta» da Adamo ad indicare non solo la parità ontologica, che fonda la parità di dignità, tra i due ma anche l’appartenenza di Eva, come di Adamo, all’Adam Kadmon, al Verbo/Logos, di cui Adamo, che in nessun altra creatura riesce a trovare un «aiuto simile a lui», è immagine.

Nel mito platonico dell’androginia originaria è racchiusa una traccia di verità rivelata, però deformata in senso gnostico (dualismo del «doppio contrario» come frammentazione di una indifferenziata monade originaria, asessuata) (37). Si tratta di quella del rapporto, anche erotico, tra uomo e donna come immagine, nell’immanenza, del rapporto mistico d’Amore tra Dio e uomo, essendo l’uomo, anche nella sua accezione maschile, di fronte a Dio in una posizione di dipendenza, di passività, come, per l’appunto, la donna, dal punto di vista psico-sessuale, nei confronti dell’uomo. Non è un caso che l’estasi mistica è spesso raccontata dai mistici e raffigurata dagli artisti con evidenti caratteri «erotici».

La Donna dunque simboleggia la materia primordiale ed informe, ma (attenzione!) creata ex nihilo (non emanata!), che viene «modellata» dall’Uomo, non però nel senso tantrico e gnostico già citato del «doppio contrario» ma in quello, appunto, dell’immagine agapica dell’amore sponsale, cantato nel Cantico dei Cantici e richiamato nella metafora paolina dell’amore di Cristo/Sposo per la Chiesa/Sposa, come immagine dell’Amore di Dio per il mondo. Lo stesso termine «vergine» ossia «virgo» ovvero «virago» come modalità «estratta» dal «vir», dall’«uomo», indica l’essenza umana, adamitica, di Eva e la natura, diciamo così, «cristologica» della Vergine Maria, la Seconda Eva che porta all’umanità Cristo, il Secondo Adamo. E’ in base a considerazioni come queste che il regnante Pontefice ha potuto citare, nella sua enciclica «Deus caritas est» (parte prima, paragrafo 11), il mito platonico dell’androginia originaria come portatore di una verità deformata e da purificare.

Ora, il fatto che persino nell’età paleolitica certi simbolismi, che poi si riscontrano nella concretezza dell’esperienza mistica, si ritrovano in raffigurazioni come quella delle veneri aurignaciane, sta a dimostrare, per l’appunto, che all’origine della storia dell’uomo vi era una Sapienza, poi perduta e/o deformata a causa di un evento spirituale che la Rivelazione biblica chiama peccato originale.

La rotazione del torchio e la forma del vaso sono un ulteriore riscontro a tale constatazione circa la perduta Sapienza originaria. Perché se la rotazione simboleggia la dinamica ciclica del tempo naturale (altra cosa dal tempo, come vedremo, è la storia, lineare e trans-temporalmente cristocentrica, come dimensione propria del solo uomo: gli animali non hanno storia né memoria) anch’essa, come ogni ciclicità, rimanda ad un Centro e per esso alla Verticalità, alla Trascendenza.

Analogicamente, la forma del vaso è concava a significare l’essenza ontologica dell’uomo sempre aperta verso l’Alto, verso la Trascendenza, dalla quale gli proviene la Grazia salvifica, l’infusione dello Spirito Santo. Non è un caso che nelle Litanie Lauretane, che si recitano dopo il santo rosario, tra i titoli con cui si magnifica e si loda la Vergine Maria vi è anche quello di «vaso spirituale». Ora, il vaso rimanda al Calice eucaristico, al «Graal» (38), che raccoglie il Sangue Preziosissimo di Cristo Redentore.

Il Calice eucaristico e l’Ostia consacrata sono realmente il Sacro Cuore di Cristo, come ben sa chi ha potuto vedere in Lanciano, presso Chieti, il miracolo eucaristico dell’VIII secolo: una particola trasformatasi durante una messa in Carne, che le analisi condotte nel 1971 hanno rivelato essere, per la tipologia dei tessuti biologici, un «cuore umano al completo» (anche il vino si trasformò in Sangue e le predette analisi hanno rilevato che si tratta si sostanza ematica di gruppo AB, il gruppo sanguigno più diffuso nell’area vicino-orientale nonché lo stesso del Sangue di tutti gli altri miracoli eucaristici sparsi per il mondo, oltre che del Sangue rinvenuto sulla Sacra Sindone). Il Sacro Cuore, verso cui la devozione si riscontra fin dai primi secoli per poi acquistare rilievo eccezionale con le apparizioni di Nostro Signore nel XVII secolo a Santa Margherita Alacoque, è il Centro della Divino-Umanità di Cristo, dal quale proviene tutto l’Amore di Dio nel Mistero dell’Unione Ipostatica della Seconda Persona della Santissima Trinità con l’Umanità Sacra di Gesù. Nel Sacro Cuore Immacolato e Verginale di Maria, «vaso spirituale», è avvenuta, per opera dello Spirito Santo, l’Incarnazione del Verbo/Logos all’atto del «sì» della Madonna.

L’uomo morfologicamente è, senza dubbio, non solo eretto ma anche cruciforme. Questo significa che la Croce è propria dell’uomo non solo perché la sofferenza appartiene comunque alla sua esperienza esistenziale ma soprattutto perché Essa rimanda ai quattro punti cardinali, ad indicare certamente la Totalità cosmica ma una Totalità non immanente bensì verticalmente eretta, con il braccio orizzontale posto più in alto del punto mediano e piantata al suolo a significare la Trascendenza che penetra e forgia l’immanenza da Essa medesima creata. La Croce, che poi a causa del peccato originale è diventata anche strumento salvifico di supplizio, rappresenta simbolicamente la stessa natura ontologicamente divina dell’Adam Kadmon della cabala pura, del Verbo/Logos, la cui Incarnazione nel Cristo Dio-Uomo, nel Cristo Figlio dell’Uomo, è il fine stesso, ultimo, per il quale il cosmo è stato creato (secondo un’antica tradizione cristiana il Verbo si sarebbe incarnato anche senza il peccato di Adamo, che ha solo reso necessaria anche la Sua Passione).

Dunque, la morfologia cruciforme dell’uomo rimanda al Verbo/Logos, all’Adam Kadmon, trascendente, di cui egli è appunto immagine, e nient’affatto ad una necessità insita nel «circolo cosmico della generazione» secondo la tipologia, gnostico-umanistica, dell’uomo leonardesco, alla quale si richiama Sermonti. Il quale inoltre, nella sua descrizione del significato simbolico della figura umana, dimentica di porre nel «Cuore», ossia nel «Centro», dell’uomo non solo la sede dei «battiti del tempo» o dei «sentimenti», ma anche e soprattutto la sede dell’«io», dello «spirito», che è altro sia dai pensieri della mente, sia dallo Spirito trascendente di Dio con il quale si incontra per l’appunto nel cuore, che non è dunque soltanto il muscolo più importante. Ed in tal senso che il «cuore» è anche la sede di Dio nell’uomo, il luogo dove Dio si manifesta nell’anima umana, nel Centro dell’essere umano.

Come attestano i mistici quando parlano delle locuzioni interiori o del Fuoco d’Amore che letteralmente arde nel loro cuore o della transverberazione ossia della trafittura del cuore con il dardo incendiato dell’Amore di Dio (esperienza quest’ultima testimoniata, ad esempio, da San Padre Pio da Pietrelcina o da Santa Teresa D’Avila: il cuore di quest’ultima, all’esame effettuato dopo la sua morte, rivelò una vera e propria ferita da «arma da taglio» che ne avrebbe dovuto comportare l’immediato decesso e che invece costituì per tutta la sua vita quella «piaga intima d’Amore» di cui ella parla nelle sue lettere).

Luigi Copertino

(fine quarta parte)

• La creazione tra Fede e scienza (parte I)

• La creazione tra Fede e scienza (parte II)
• La creazione tra Fede e scienza (parte III)
• La creazione tra Fede e scienza (parte V)
• La creazione tra Fede e scienza (parte VI)





27) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagina 81.
28) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagina 97.
29) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagina 92.
30) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagina 85.
31) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagina 108.
32) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagine 112-113.
33) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagina 116.
34) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagina 116.
35) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagina 113.
36) Confronta G. Sermonti «Una scienza …», opera citata, pagina 114-116.
37) Ci si ricordi sempre, a proposito delle parziali verità deformate contenute nelle culture extra-bibliche, che la gnosi spuria, più che una palese anti-Verità, è una subdola deformazione della Verità che, in tal modo, facendo balenare un equivoco richiamo al Vero, può sedurre l’uomo; esattamente quel che fa, secondo il racconto biblico, l’Antico Avversario quando nella prima domanda che pone alla Donna, «è vero che Dio vi ha vietato di mangiare di ogni albero dell’Eden», mischia una parte di verità, il divieto di mangiare del solo albero della conoscenza, alla menzogna, la generalizzazione del divieto.
38) A proposito dell’ortodossia perfettamente cattolica del ciclo letterario medioevale del Graal, si veda Michel Roquebert «I catari e il Graal - il mistero di una grande leggenda e l’eresia albigese», San Paolo, Milano, 2007. Si tratta di un testo storicamente molto ben documentato ed argomentato che smonta tutte le leggende gnostiche, cataro-esoteriche, massoniche e falso-templari sul ciclo letterario in questione. L’autore, uno degli storici maggiormente competenti in materia, parte dalla seguente domanda: «Ma perché un tale immaginario (l’immaginario leggendario del ciclo cavalleresco del santo Graal, nda) è potuto nascere, ha potuto avere lo sviluppo che conosciamo proprio nel tempo in cui la Chiesa romana mobilitava le coscienze contro la grande eresia dualista del catarismo?» e così si risponde: «Il romanzo cavalleresco iniziale lasciò spazio nel corso degli anni a una progressiva cristianizzazione in cui la ricerca del Graal era accompagnata dalla ricerca della grazia e dall’imitazione di Cristo. L’occhio attento dello studioso vede in questo passaggio un riequilibrio trinitario… dopo le tante rivolte condotte nel nome della libertà dello Spirito».



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