La creazione tra Fede e scienza (parte V)
29 Settembre 2009
Un’equivoca esegesi del genesi
Sermonti in un tentativo, alquanto però maldestro, di supportare teologicamente le concezioni neo-platoniche della scienza olista post-moderna azzarda un’esegesi «esoterica» del testo biblico, senza però coglierne l’autentica sapienzialità rivelata
(39).
Come è noto il Genesi, nel testo attuale, nasce dalla fusione di due antichissime tradizioni orali, la tradizione jahvista e quella sacerdotale. La tradizione jahvista (dall’uso del Nome «Jahvé» con cui Dio si rivela a Mosé) fu codificata intorno al IX secolo avanti Crristo. La tradizione sacerdotale, detta anche «Elohista» dal Nome Elohim, a sua volta derivato da un più antico termine semitico «El» (dal quale anche «Allah») designante la «Forza del Cielo», con cui si indicava la Divinità, è stata codificata successivamente intorno al V secolo avanti Cristo.
Questo fenomeno della codificazione in tempi successivi della tradizione orale non deve né meravigliare né porre dubbi sul carattere ispirato e rivelatorio del testo biblico come lo possediamo. E’, infatti, noto a storici ed antropologi che presso tutte le culture antiche la memoria tradizionale è stata sempre tramandata inizialmente in forma orale, attraverso particolari metodi rituali di apprendimento mnemonico tali da garantirne la perfetta continuità nell’avvicendarsi delle generazioni, e solo successivamente, quando è introdotta la scrittura e quando la tecnica della conservazione mnemonica orale viene gradualmente perduta o abbandonata, la memoria tradizionale orale inizia ad essere tramandata in forma scritta mediante la codificazione del tramandamento orale.
Scrive Sermonti: «L’Evoluzionismo neo-darwiniano… che segue di 25 secoli il Genesi 1 (quello sacerdotale, nda), è sostanzialmente il testo biblico, da cui è stato cancellato Elohim (Dio). Evidentemente tra le due cosmogonie ci sono differenze di linguaggio, di completezza e di cronologia, ma il percorso è sostanzialmente lo stesso. In ambedue, dopo l’origine dell’universo dal nulla (Fiat Lux o Big Bang) si ha un periodo di separazione degli elementi, poi un assestamento siderale e geologico, poi la comparsa successiva di diverse forme di vita e infine la nascita dell’Uomo. L’Evoluzionismo non è la negazione del Genesi, ma il suo ritorno in forma rinnovata 2.500 anni dopo. Esso conserva in sé la concezione ascensionale del Genesi 1. Ha scritto Jérôme Lejeune: «Non bisogna credere che la Bibbia si opponga necessariamente al concetto di Evoluzione. La Bibbia è anzi il primo libro evolutivo, poiché evidenzia le tappe della creazione. Cosa stupefacente è che nella Bibbia appaiono prima gli animali marini, poi gli animali volanti, poi gli animali terrestri e da ultimo l’uomo»
(40).
L’osservazione è giusta e pertinente, perché in effetti il testo del Genesi si distingue per il suo carattere «non mitico», ma storico, da tutti i testi sacri di ogni altra cultura, comprese le coeve culture semitiche mesopotamiche. Nel Genesi la creazione non è deificata ma è lodata nella sua creaturalità a significazione dell’amorevole provvidenza di un Dio che trascende il mondo e non è invece con esso impersonalmente e panteisticamente fuso. Il clima che ci fa respirare il testo biblico non è quello della «magia» dominante in tutta l’area circostante all’epoca della sua codificazione. Nulla a che spartire, nonostante la somiglianza di linguaggio, con i miti sumerici, come quello dell’epopea di Gilgamesh, o con i miti babilonesi pullulanti di forze malvagie dalle quali il mondo stesso è generato e contro il ritorno delle quali bisogna sacrificare (anche gli esseri umani). Nel Genesi, il sole e la luna non sono deità ma sono solo «due luminari», uno per il giorno e l’altra per la notte, creature al pari di ogni altra che Dio pone nel firmamento a servizio della vita umana (e qui risuona il principio antropico nella sua versione debole).
Dice dunque bene Sermonti quando afferma: «… nel Genesi i viventi sono quelli attuali, non appaiono draghi o mostri, non cataclismi o catastrofi. Persino sole e luna non hanno nomi, che sarebbero stati quelli di divinità assiro-babilonesi»
(41).
Quindi, evoluzionismo e Fede biblica non sono in contrasto, laddove semmai - aggiungiamo noi - il contrasto è con il darwinismo. L’idea di evoluzione, infatti, non è riconducibile alla sola teoria darwiniana o neo-darwiniana.
Nella sua visione olista di tipo neo-platonico, tuttavia, Sermonti non gradisce questa concordanza tra evoluzionismo e Fede biblica: da qui la sua interpretazione «esoterica» del Genesi che, vedremo, non è cattolica almeno nel modo dal nostro presentata ossia opponendo le due tradizioni orali confluite nel medesimo testo scritto.
«La differenza fondamentale - continua Sermonti - tra la serie biblica e quella evolutiva non è nell’ordine di comparsa (la sequenza biblica sembra essenzialmente una catena alimentare: piante, mandrie, bestie, uomo), ma nella circostanza che, negando un intervento esterno, lo scienziato può spiegare l’emergenza successiva dei viventi solo ricorrendo all’ipotesi dello Sviluppo dei viventi di un ‘giorno’ da quelli del ‘giorno’ precedente, e questa è appunto la soluzione prospettata dalla teoria dell’evoluzione (1859). Un secolo e mezzo prima Leibniz (1707) aveva asserito la continuità della scala dei viventi. ‘Le diverse classi - scrisse - sono così strettamente collegate le une alle altre che è impossibile (…) determinare esattamente il punto dove l’una finisca e comincia l’altra (…). L’argomento critico che distingue le due visioni rimane… lo ‘Sviluppo’, cioè la trasformazione di una forma dalla precedente: dell’anfibio dal pesce, del mammifero dal rettile, dell’uomo dalla scimmia. Esso sarebbe dovuto risultare soprattutto dalla paleontologia, attraverso il reperimento di forme intermedie o di passaggio tra classi successive secondo la pretesa di Leibniz. Ebbene, le supposte forme di transizione sono poche e molto discutibili. Lo stesso Darwin dovette ammetterlo, attribuendone la mancanza all’incompletezza della documentazione. Ma anche dove la documentazione è divenuta esauriente, le forme intermedie non sono apparse, anzi ‘molte delle discontinuità tendono a farsi più marcate man mano che le raccolte dei fossili aumentano’ (Norman Newell, 1959). Fu il fondatore della paleontologia (e della anatomia comparata), il francese Georges Curvier (1759-1832), a dimostrare che la Terra aveva ospitato in epoche passate forme animali non più esistenti (…). Ma con la stessa convinzione egli asserì anche che le specie esistenti non derivavano dallo sviluppo di quelle scomparse (…). Il grande malinteso di Darwin e dei suoi successori fu quello di ritenere che una forma specializzata potesse trasformarsi in un’altra forma specializzata, che l’orso polare potesse convertirsi in balena, il tapiro in cavallo o il lemure in pipistrello, come Darwin ingenuamente affermò. Oggi sappiamo, e ne fa fede un altro grande zoologo francese, Pierre-Paul Grassé (1973), che un ìphylum che ha già imboccato una strada non può più uscirneì. Lo stesso concetto era stato avanzato un secolo e mezzo prima da Karl Ernst von Baer»
(42).
Dunque, Sermonti nota che se non fosse per la questione del supposto, ma ormai scientificamente insostenibile «sviluppo», ossia del trasformismo interspecifico o macroevoluzione (ci permettiamo di aggiungere, alla sua, l’altra osservazione circa il carattere assolutamente «conservatore» del DNA e circa il carattere sempre o neutro o negativo, ai fini della sopravvivenza della specie, delle mutazioni genetiche), cosa del tutto diversa dal trasformismo intraspecifico o microevoluzione, che è invece provato, il Genesi e l’evoluzione sarebbero convergenti.
Ma è proprio questo, come si notava, che, in fondo, dispiace al Sermonti, perché, a nostro giudizio erroneamente, egli crede che questa convergenza sia la vera matrice culturale del darwinismo e finisce così per imputare alla Rivelazione cristiana tutta la responsabilità della disumanizzazione tecno-scientifica del mondo, facendosi in questo portavoce delle tesi a sfondo gnostico-pagane, come quelle dell’heideggeriano Emanuele Severino e del neopagano Alain De Benoist, che vogliono il Cristianesimo responsabile della desacralizzazione del cosmo (il Cristianesimo, invece, si limita a «spanteizzare» il mondo per metterne in evidenza lo statuto creaturale che impone il rispetto del creato perché cosa buona fatta da Dio) e della Volontà di Potenza, che si manifesta nella tecnologia, dell’Occidente (tesi che non considera minimamente non solo lo iato teologico e storico che distanzia l’Occidente post-cristiano ed americanocentrico da un mondo, come quello medioevale, impregnato di Cristianesimo ma anche lo iato teologico e filosofico che divide inesorabilmente fede cristiana e pensiero immanentista moderno).
L’equivoco nutrito da Sermonti diventa palese in queste sue parole: «In uno scritto del 1969, l’attuale Papa ammette che, se si dimostra lo Sviluppo, la fede nella Creazione biblica diventa ‘insostenibile’. In quello stesso anno usciva a Parigi ‘Il caso e la necessità’ di Jacques Monod. In quell’opera, che divenne subito il ‘livre de chevet’ degli evoluzionisti, si chiarisce che l’alternativa non è quella tra Creazione e Sviluppo, ma un’altra, quella tra Creazione e Caso (‘Il Caso, il puro Caso, libertà assoluta ma cieca, alla radice stessa del prodigioso edificio dell’evoluzione’, Monod, 1970). Spostata l’alternativa su questi termini, Benedetto XVI non ebbe dubbi, nella sua prima omelia in piazza San Pietro, nel dichiarare: ‘Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione!’»
(43).
Non sappiamo se Sermonti voglia riferirsi all’opera di Joseph Ratzinger «Creazione e Peccato», ripubblicata anche di recente, e della quale eventualmente gli consigliamo una attenta lettura, tuttavia ci sembra che il nostro genetista non abbia capito cosa voleva dire l’attuale Papa con quell’espressione pronunciata nella sua prima omelia. Benedetto XVI rivendicava, conformemente alla Rivelazione cristiana, che l’intera creazione ed anche e massimamente l’uomo sono il frutto di un atto, di un Progetto d’Amore posto in essere nella più assoluta libertà e gratuità da parte di un Creatore da nulla costretto o necessitato nella sua volontà creatrice che è libera volontà d’amare.
Se Monod, al contrario, invocando una «libertà cieca», che egli chiama «caso» (ed oggi il calcolo delle probabilità ha dimostrato ampiamente che nulla poteva nascere per caso, anche perché essendo troppo giovane l’universo è mancato il tempo necessario affinché il caso potesse, tramite innumerevoli tentativi falliti, far scoccare la scintilla della vita e soprattutto conservarla in un ambiente non facile), altro non fa che lezione di nichilismo ed irrazionalismo, cadendo in un avvitamento, senza uscita, di aporie e contraddizioni, dal canto suo Sermonti, con il suo olismo neo-platonico, rischia appunto di negare la libertà, la gratuità e l’amore insieme al dolce dono dell’essere, della vita che loda Colui che per amore l’alimenta ogni giorno.
Perché non la «libertà cieca», il «caso» di Monod, né la «necessità strutturale» e il «principio antropico forte» di Sermonti, ma solo un Libero Progetto d’Amore può essere la cifra misteriosa ed incommensurabile dell’Universo, della vita e della vita umana intelligente. Ma dove sono Libertà, Gratuità, Progettualità, Amore vi è una Intelligenza Personale e Infinita ricolma di Caritas: «Deus Caritas est».
L’incomprensione sermontiana per la teologia di Ratzinger, che è poi incomprensione neo-platonica della stessa fede cristiana, probabilmente dovuta alla giovanile formazione da «destra esoterica» del nostro genetista, è palese anche in altri suoi scritti. Citiamo direttamente da un suo articolo: «Affrontando il mistero dell’essere, Ratzinger rifiuta, insieme al materialismo, l’idealismo. La materia è, per il vescovo (sic!)…, un’entità senza coscienza, ‘un’entità che non si auto-comprende’: la coscienza è degradata dal materialista a secrezione neuronale. Ma neppure la via idealista convince il teologo bavarese. Gli esseri, rappresentati come pure entità pensate da Dio, da una coscienza creatrice, sarebbero entità statiche, perfette ed eterne. Sarebbero come le idee platoniche o la matematica pitagorica, forme già pensate prima di noi. Il nostro pensiero non sarebbe ideazione libera, ma solo ripensamento (…). Il Dio cristiano non è obbligato dalla ‘geometria’ del cosmo, non è anonimo e neutrale come un professore di matematica con i suoi teoremi, ma è autentica Persona, dotata di somma Libertà. Egli non solo crea e conosce le sue creature, ma le ama e su di esse riversa una dotazione di amore, di senso del bello, di rischio del male, insomma di libertà. In questa visione ratzingeriana, la persona particolare prevale sull’universale, e ‘il minimo diventa massimo’ in quanto unico e irripetibile, libero e genuino. La vigna del Signore prevale sulla immensità del firmamento»
(44).
Sermonti sembra dimenticare il canto del salmista: «I cieli narrano la gloria di Dio». La dimenticanza è dovuta al fatto che il nostro scienziato è tutto preso a dimostrare che il «personalismo» cristiano, ribadito da Ratzinger, e che altro non è che il dogma biblico dell’uomo «imago Dei», farebbe il paio con l’atteggiamento, che egli chiama, in biologia, «popolazionista», quello che non sa scorgere «tipologie» nella natura ma solo «individui» dalla cui somma nascono le collettività, le popolazioni.
Ancora una volta l’incomprensione neo-platonica del Cristianesimo gioca a Sermonti un brutto scherzo e gli impedisce di comprendere un teologo, oggi Papa, di formazione agostiniana e bonaventuriana, ossia della scuola teologica più vicina proprio al pensiero platonico. Solo che, e Ratzinger lo ricorda bene, come esiste un «Plato christianus», quello purificato dalla patristica, è esistito anche un «Plato antichristianus», quello gnostico-pagano cui sembra voler ritornare un certo tipo di olismo al quale Sermonti ci pare aderisca.
Nella concezione cristiana, fusione di Fede biblica e di Sapienza greca, la persona umana ha, senza dubbio, un suo valore imprescindibile e sommamente superiore a tutto il creato. Tuttavia l’uomo, centro del creato, perché immagine di Dio nell’immanenza e non per autodeterminazione volontarista (qui sta la differenza tra Cristianesimo ed umanitarismo moderno sfociato, nonostante tutto il liberalismo di cui si è circondato, nella volontà di potenza e nel dominio tecno-scientifico), non è al di fuori della creazione che è chiamato, biblicamente a «custodire». Il particolare, in altri termini, non decade nell’antiuniversale, così come la «persona» non è mai «individuo» ma sempre si da solo in relazione agli altri ossia in comunità.
Piuttosto, con l’accento posto sulla singola «persona», però come, ripetiamo, immagine di Dio e da Lui ontologicamente dipendente, il Cristianesimo consente di superare l’aporia dell’antico paganesimo che scioglieva l’uomo nel cosmo, panteisticamente inteso, e il singolo nella comunità statuale.
Ma, nel preservare l’unicità della «persona», il Cristianesimo recupera contestualmente, armonizzando in un sapiente «et-et» particolare ed universale, anche il cosmo inteso come creazione affidata all’uomo e la comunità politica intesa come relazione interpersonale aperta alla Trascendenza.
La fede cristiana non rinnega affatto il «Dio dei filosofi», come erroneamente riteneva inizialmente il pur grande Pascal, ma apre la concezione filosofica di Dio, quella dei grandi filosofi pagani dell’antichità, che però rimaneva ancora incompiuta né poteva non esserlo, alla prospettiva biblica del Dio Vivente che trascende il mondo, da Lui creato per amore delle sue creature, e che si rivela all’uomo in un disegno di salvezza personale ed al tempo stesso universale, esattamente come i due giudizi escatologici, uno particolare relativo alla nostra singola persona e l’ultimo quello universale che chiuderà la storia.
Molti fanno finta di dimenticarlo, ma la Rivelazione abramitica è al tempo stesso cosmico-sapienziale e storico-salvifica. Non è solo soteriologica perché i due aspetti, la salvezza dell’uomo e quella dell’intero creato non sono affatto disgiunti od opposti, benché la salvezza del creato passi necessariamente per quella dell’uomo. Se è vero che, nella Rivelazione ebraico-cristiana, l’aspetto storico-salvifico sembra prevalere su quello cosmico-sapienziale, è pur vero che quest’ultimo non manca mai di accompagnare la storia stessa della salvezza. Per convincersene basta leggere un po’ la Bibbia, ed in particolare i libri del genere sapienziale.
Nella Rivelazione ebraico-cristiana non c’è affatto negazione della ciclicità naturale del tempo né potrebbe essere altrimenti dal momento che, ad iniziare dal succedersi della stagioni e del giorno e della notte, essa è un dato evidente dell’esperienza oggettiva dell’uomo. Quel che però differenzia la Rivelazione ebraico-cristiana dalle culture religiose impostate, naturalisticamente, sulla concezione ciclica, ed eternamente ripetitiva, delle età del mondo (concezione sia orientale, si pensi all’induismo ed al taoismo, sia occidentale, si pensi al mito pagano delle «quattro età», dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro, corrispondente quest’ultima al «kali yuga» indù) è la «scoperta», come di una dimensione esclusivamente umana, della «storia» e per la precisazione della «storia della salvezza», che, pur accompagnandosi ad essa in parallelo ed intrecciandosi continuamente con essa, non coincide mai perfettamente con la «storiografia» nel senso immanente del termine. La «storia della salvezza» è una dimensione assolutamente propria dell’uomo (gli animali e gli altri viventi non hanno né memoria, né tramandamento, né percezione della propria storia), che pur operando all’interno del tempo ciclico non è tuttavia, sul piano immanente, ciclica ma apparentemente lineare. C’è, infatti, un «inizio» e si tende verso un fine che è anche la «fine della storia». Tuttavia, questa linearità trova, anche in ambito cristiano, la sua «curvatura» ma soltanto in una prospettiva oltre-mondana, trans-temporale ossia, laddove si coglie il termine «storia» in senso immanente ovvero nel senso di «storiograficità», in una prospettiva «trans-storica»: «Io sono l’alfa e l’omega, il Principio e la fine», è scritto nell’Apocalisse (= Rivelazione) e laddove l’inizio e la fine coincidono in un unico punto la raffigurazione geometrica più attinente è il cerchio. Questo «punto» di coincidenza dell’inizio e della fine è la Persona di Cristo, il Logos Incarnato. Ciò significa che l’intera «storia della salvezza» è cristocentrica, ossia, come indica anche il termine «redenzione», che nel disegno storico della salvezza, che si dipana, in apparenza, linearmente, da un inizio ad una fine, all’interno del tempo naturale ciclico, la creazione intera è volta verso la restituzione, appunto la «redenzione», del suo fine originario secondo il Progetto di Dio, parzialmente deturpato dal peccato originale dell’uomo. Progetto che prevede mediante l’Incarnazione, che vi sarebbe stata anche senza peccato originale, il quale ha comportato soltanto la necessità anche del Sacrificio della Croce, la trasfigurazione gloriosa alla fine del mondo (i «cieli nuovi e la terra nuova» dell’Apocalisse) dell’intera creazione, creata inizialmente in «stato di via» ossia rivolta, nella storia, verso la sua perfezione finale che però è oltre-mondana, oltre-storica e non si può mai dare nella dimensione temporale itinerante della storia attuale. La cristocentricità dell’intero itinerario storico iniziato con la creazione stessa svela, inoltre, l’unicità dell’itinerario medesimo, che sta a significare che non ci sarà alcun «eterno ritorno» ciclico della storia (come confondendo tra «storia» e «tempo naturale» postulano le gnosi orientali e postulavano i miti pagani occidentali). L’uomo, immagine del Logos nell’immanenza, era, ed è, il perno di tale Progetto. Il peccato, prima degli angeli e poi dell’uomo medesimo, ha in parte ostacolato il Disegno salvifico di Dio che ha rimediato, appunto, con il Sacrificio di Passione del Logos Incarnato.
Ma torniamo alla nostra questione principale: «Il grande malinteso di Darwin e dei suoi successori - afferma, come visto poc’anzi, Sermonti - fu quello di ritenere che una forma specializzata potesse trasformarsi in un’altra forma specializzata, che l’orso polare potesse convertirsi in balena, il tapiro in cavallo o il lemure in pipistrello, come Darwin ingenuamente affermò. Oggi sappiamo, e ne fa fede un… grande zoologo francese, Pierre-Paul Grassé (1973), che un ‘phylum che ha già imboccato una strada non può più uscirne’ » Questa, egli ci informa, è stata la più notevole scoperta scientifica che ha contribuito a demolire il darwinismo classico. Per superare tale evidenza, gli evoluzionisti hanno dovuto reinterpretare, alla luce delle scoperte genetiche post-darwiniane, ed in particolare quelle relative al DNA, la teoria di Darwin per renderla più confacente ai risultati della ricerca scientifica. E’ paradossale, comunque, il fatto che alla luce di risultati non confortanti non si abbandoni una teoria insostenibile ma se ne faccia una rielaborazione che è forse ancora più «astrusa» della teoria originaria.
Continua Sermonti: «Qui ci si pone una grande difficoltà: come può sostenersi l’asserzione di Grassé, che una forma specializzata non può generarne un’altra, dopo che il sequenziamento del DNA di specie disparate, animali, vegetali, microbiche, ha mostrato che esse sono chimicamente imparentate, e lo sono tanto più quanto più sono tassonomicamente vicine? Il paradosso di aver a che fare con forme geneticamente simili, apparse in successione, tuttavia non discendenti l’una dall’altra, fu risolto già alla fine dell’800 da August Weismann, nella sua ‘teoria della linea germinale’, da cui nacque il neo-darwinismo. Secondo la teoria, la generazione successiva non ‘deriva’ dalla precedente, ma ambedue sono rami laterali (germogli) di una stessa linea cellulare che va da uovo a uovo (nelle piante da oosfera a oosfera). Sono cioè sorelle. Lo stesso modello è stato applicato al rapporto tra DNA e proteine nel cosiddetto ‘dogma centrale della biologia molecolare’. Proteine eguali, in generazioni successive, non sono derivate l’una dall’altra, ma sono prodotti laterali della linea continua del DNA. Ancora lo stesso concetto è stato applicato alla genesi dei diversi organi di ogni vivente. Le varie cellule del sangue, e così il cuore, il fegato e il cervello di uno stesso animale, sono geneticamente identici, ma non discendono l’uno dall’altro. Sono tuttavia gemmazioni di una linea cellulare indifferenziata, che oggi conosciamo come ‘linea staminale’. Sono cioè strutture sorelle»
(45).
Fin qui Sermonti spiega dal punto di vista scientifico quella che successivamente, e con allusione rivelativa dell’inferenza che agisce sul piano epistemologico nel suo ragionamento, egli definisce «linea delle madri». Non è possibile infatti non notare che la caratteristica di originaria indifferenziazione delle cosiddette «linee staminali» è interpretata dal Sermonti in chiave, implicitamente, neo-platonica ossia come un riflesso, in natura, dell’indifferenziato «Uno» plotiniano. Ancora una volta traspare l’equivoco gnostico dell’epistemologia sermontiana.
Continua infatti Sermonti: «L’idea della linea staminale è stata estesa da Pierre-Paul Grassé alla successione delle famiglie viventi. Grassé ha postulato la continuità di linee di forme indifferenziate (le ‘linee delle madri’), che producano le forme specializzate come rami laterali (‘come stoloni di fragola da cui spuntino di volta in volta rosette di foglie’). Tutti questi modelli non implicano ovviamente creazioni successive, e lasciano aperto il grande problema (epigenetico) del come differenti forme emergano da una linea comune»
(46).
Qui Sermonti prende posizione per un olismo chiaramente immanentista. Con eccessiva facilità egli afferma che la «gemmazione» delle forme specializzate dalla comune linea staminale non implica atti di creazione successiva. Questo può affermarsi solo se al concetto di «atto creativo» si assegna un senso infantile e letteralista. Infatti, Sermonti non considera affatto che la «creazione» è ontologicamente «passaggio dalla potenza all’atto». Aristotele riteneva, da pagano, che tale passaggio fosse dovuto alla materia stessa o comunque ad un’anima immanente alla materia stessa. Alla luce della Rivelazione, l’Aquinate ha corretto lo Stagirita dimostrando che il passaggio dalla potenza all’atto implica necessariamente l’«actus essendi» e dal momento che nessun ente, né la materia che è inanimata, è capace di tale atto, in altri termini è capace di auto-crearsi, è necessario che tale atto sia «impresso» «dal di fuori», per partecipazione, alla materia informe, ma creata ex nihilo essa stessa (e nient’affatto emanata!). Solo Colui che è l’Essere Infinito, e che dunque può comunicare l’essere senza degradarsi, può imprimere la «forma» alla materia, in origine informe. Materia che, pure, in quanto ente, Egli contiene, con tutti gli altri enti, in Sé ma distinti, ossia altri, da Sé. Attuando, così, il passaggio dalla potenza all’atto, dall’idea alla realtà: quel «passaggio» che, con linguaggio scientifico, Sermonti chiama «gemmazione» ossia, in biologia, «speciazione».
Infatti, come si è visto, secondo Andrew Steane, dell’università di Oxford, «l’informazione è il fondamento di tutto», sicché l’universo intero è Informazione in atto. Come abbiamo detto, l’Informazione è un modo alternativo, a-teologico, per dire «Verbo», «Logos». Ed allora come mai non appare palese a Sermonti che ogni forma vivente differenziata è possibile, ossia compare nell’immanenza, perché essa corrisponde all’apporto di una «particolare informazione» che agendo sulla materia originariamente indifferenziata, ossia sulla linea staminale, consente la «gemmazione» del phylum specializzato, ovvero la speciazione, che poi, come ha dimostrato Grassé, non può uscire dalla linea specializzata imboccata?
Si tenga sempre presente questo rilievo filosofico ed epistemologico mosso a Sermonti perché quanto il nostro valente genetista ci dice sull’uomo è di estremo interesse ma deve essere collocato nella sua giusta chiave esegetico-teologica per quanto riguarda gli argomenti «biblici» da lui usati in modo del tutto improprio ossia secondo una lettura chiaramente «gnostica», «esoterica», del Genesi.
«Venendo alla forma umana - continua Sermonti -, il Genesi 1 (500-400 avanti Cristo) [con Genesi 1, Sermonti intende il testo sacerdotale che lui considera ‘essoterico’, un mero resoconto ‘storico-naturalista’ della creazione, nda], la medievale ‘scala della vita’ (per esempio Lullo, 1304), Darwin (1859) e la moderna evoluzione la pongono all’apice ed al termine della serie storica dei viventi.
L’anatomia, e più recentemente la biologia molecolare, ci dicono invece che si tratta, al contrario, di una forma primitiva e originaria. Nello scheletro umano possiamo trovare il modello ‘archetipico’ dello scheletro di tutti i mammiferi attuali (Westenhöfer, 1948), che appaiono come varianti adattive (deformazioni) della figura umana. Si pensi al cranio del gorilla rispetto a quello umano o all’arto anteriore del pipistrello, della balena, del cavallo, rispetto al nostro braccio. L’uomo anatomico può dunque a buon diritto proporsi come ‘forma prima’, laddove ragioni teologiche o sociologiche lo hanno posto come forma ultima (ma è prima nel Genesi 2) (in Sermonti si tratta del testo jahvista, nda). Che cosa ci dice, sull’antichità dell’uomo, l’analisi genetico-molecolare? Il contrario di quanto aveva supposto Darwin, che considerava l’uomo come il più lontano dall’ascendente comune. In base al DNA, l’uomo risulta, in confronto con gli altri primati antropomorfi, la specie più ancestrale. ‘Il Peter Pan tra i primati’, lo definì il biologo molecolare Alan Templeton (1973), cioè ‘il bambino che non voleva crescere’. L’antichità dell’uomo è emersa da dati più recenti. Quando fu possibile stimare il numero dei geni di numerose specie, l’uomo, cui erano pochi anni prima attribuiti oltre centomila geni, risultò averne circa 25.000, solo pochi di più di quelli di un insetto, di quelli di un piccolo verme di 1 mm di lunghezza, il ‘Caenorhabditis elegans’, e di quelli della pianta ‘Arabidopsis thaliana’. Dove erano allora i geni, che, secondo una visione determinista, avrebbero costruito il Partenone o composto il ‘Requiem’ di Mozart?»
(47).
Fermiamo per un momento la citazione perché ci sembra di assoluta importanza questa constatazione scientifica sulla irrilevanza sotto il profilo quali-quantitativo del materiale genetico dell’uomo in rapporto a quello del più piccolo dei vermi. Qui si impone la stessa domanda che proprio il Sermonti ha ripetutamente posto nelle sue opere: «Perché il cavallo non è una mosca, l’elefante una farfalla, l’uomo una scimmia, benché le differenze genetiche quali-quantitative tra essi siano minimali (sono fatti della stessa materia genetica presso poco nella stessa misura)? Una domanda che rimanda ancora, per una esauriente risposta, verso un piano superiore a quello della presunzione determinista della genetica scientista. E’ evidente che se la materia genetica è la stessa per qualità e quantità, le differenze morfologico-strutturali e, a maggior ragione, per dirla in termini filosofici, quelle «ontologiche» hanno origine altrove e non nei geni. Osservazione che ci rinvia di nuovo al Logos, all’Informazione della quale, in misura maggiore o minore ed in modo differenziato, è intessuto l’universo intero.
Ma torniamo a Sermonti: «Un recente articolo di Raible, apparso su ‘Science’ (novembre 2005), dopo aver ricordato che i vertebrati si segnalano, rispetto agli altri Tipi, per l’abbondanza di introni (inserti intragenetici non tradotti), rileva che circa due terzi degli introni umani sono risultati presenti in un piccolo verme (anellide) del Cambriano (‘Platinereis dumerillii’, un ‘fossile vivente’), confermando la natura ancestrale del genoma umano. (Questi introni non si trovano negli insetti). In parole semplici, all’inizio del Cambriano, qualcosa come mezzo miliardo di anni fa, abitava la terra un vermiciattolo (il ‘Platinereis’), la cui discendenza ancora sopravvive intatta. Esso possedeva, senza esprimerli, un buon numero di geni umani. E questo prima che animali e piante venissero al mondo prendendo le loro svariatissime forme. L’uomo genetico era presente dunque in principio, prima degli altri esseri. Già nel 1978, W. Ford Doolittle aveva avanzato l’idea che i geni frammentati degli organismi ‘superiori’ fossero più plastici e quindi più ancestrali di quelli dei batteri, che avrebbero perduto del tutto di introni. Torniamo alla Bibbia, e stavolta alla seconda Genesi (Genesi 2,4-7), scritta 4-5.000 anni anteriormente alla prima, poco prima dell’esilio babilonese. Vi si legge: ‘Nel giorno in cui Jahvé Dio fece la terra e il cielo… allora Jahvé Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita’. Prosegue il testo (Genesi 2,19): ‘Allora Jahvé Dio plasmò ancora dal suolo tutte le bestie selvatiche e tutti i volatili del cielo e li condusse all’uomo’. La serie degli esseri non è ascensionale, quale è in Genesi 1, ma regressiva: cielo, uomo, animali. Nasce poi Eva dalla costola di Adamo e di lei si dice: ‘Essa fu la madre di tutti i viventi’ (Genesi 3,20). Nei nostri termini, essa inizierebbe la ‘linea delle madri’, una linea che presente al suo inizio il massimo della complessità e della bellezza, la totalità che via via si riduce. Il Genesi 2 non termina, come il Genesi 1, con l’incoronazione dell’uomo a re del creato (‘Riempite la Terra e soggiogatela, abbiate dominio’, Genesin 1,28)
(48), bensì con la sua caduta e la cacciata dal regno (‘E Jahvé Dio lo mandò via dal giardino dell’Eden, Genesi 3,23). Da un punto di vista paleontologico, i Primati, al cui ordine appartiene l’Uomo, sono i primi a comparire tra i Mammiferi. In un quadro più vasto, la comparsa di tutti i Tipi animali viventi ha luogo nel Cambriano, la più antica delle epoche della Terra. Nelle epoche successive la fantasia della Terra sembra declinare. Se consideriamo la cosa dal punto di vista molecolare, nel primo giorno Iddio preparò il DNA dell’uomo, che si sarebbe un giorno espresso, a un misteriosissimo soffio, nella figura umana. Nel Genesi 2, le bestie e gli uccelli vengono dopo, evocate dalla parola (il soffio?) dell’uomo. ‘Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti i volatili del cielo e a tutte le bestie selvatiche’ (Genesi 2,20). La asserita predestinazione dell’uomo nel giorno dell’origine dell’universo ha un risvolto astrofisico recente. Nel 1974 l’astronomo Brandon Carter affermò che l’universo era sin dalle origini calibrato su costanti cosmiche così mirate da consentire la comparsa, ma solo dopo miliardi di anni, di vita intelligente (‘principio antropico forte’). Se la forza di gravità fosse stata solo un poco maggiore, l’universo sarebbe collassato; se fosse stata appena più debole, le galassie non avrebbero potuto formarsi. Se le forze forti e deboli fossero state leggermente più intense in rapporto all’elettromagnetismo, l’idrogeno non avrebbe potuto esistere ed elementi come carbonio e ossigeno non si sarebbero potuti formare, e quindi neppure la vita. Alcuni scienziati arrivano ad affermare che, sin dall’origine, ‘l’universo deve essere tale da permettere la comparsa di vita intelligente’. In termini biblici, l’uomo (la vita intelligente) fu predisposto ‘nel giorno stesso in cui Dio fece l’universo’. Questa visione implica un Progetto all’inizio dei tempi»
(49).
Qui Sermonti, forse senza essersene reso conto, conclude con la stessa affermazione che in precedenza aveva «rimproverato» a Benedetto XVI di aver usato nella sua prima omelia da Pontefice in piazza San Pietro: «Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione!».
Il fatto però è che Sermonti inclina a ritenere il «Progetto» come insito, panteisticamente, nella Natura. Il nostro genetista è coerentemente uno spinoziano neo-platonico e per questo non può non entrare in, perlomeno parziale, collisione con la Rivelazione cristiana che recuperando il meglio delle intuizioni del pensiero ellenistico (il «Plato christianus») ha sbarrato la strada, non certo arbitrariamente ma alla Luce di Cristo, ad ogni equivoco gnostico che era insito nell’ellenismo (il «Plato antichristianus»).
Il problema esegetico, per Sermonti, è dunque costituito dal fatto che, mentre il Genesi sacerdotale, quello del noto racconto dei «sette giorni», pone la creazione dell’uomo alla fine, come ultima delle creature, assegnandogli un destino di dominio e di trionfo, il Genesi jahvista invece afferma esattamente il contrario e che questo secondo «punto di vista» sembra più confacente alla visione post-moderna della scienza olista, basata sul «principio antropico forte», che racchiude il Progetto ed il Fine nella sfera immanente ed «animata» del Cosmo. Nel Genesi jahvista il fatto che Dio crea per primo l’uomo e che, creatolo, immediatamente gli conduce le altre creature affinché l’Adam dia loro il nome, ossia, in senso metafisico, affinché imprima alle creature la loro essenza, corrisponde, ci dice Sermonti, a pieno al paradigma olista a-teologico, ovvero a-trascendente, dunque «pamteista», sempre di più assunto dalla scienza post-determinista.
Sermonti, improvvisato esegeta, si spinge ancor più in là. Egli, decontestualizzandolo, richiama il passo di Genesi 3,19-20 nel quale Eva è chiamata «madre di tutti i viventi». Da ciò Sermonti, implicitamente, insinua che il Genesi jahvista, che a suo giudizio avrebbe un senso sapienziale, quasi «esoterico», contrapposto a quello del Genesi sacerdotale il cui racconto della creazione sarebbe un mero resoconto storico-naturalista, seguirebbe la stessa prospettiva delle Upanishad e del Tao che pongono la prima complementare dicotomia («doppio contrario») Purusha/Prakriti, Yin/Yang, ossia Maschio/Femmina, alla base stessa della manifestazione universale e fanno della «Donna» il simbolismo della materia informe «emanata», come «principio passivo», dall’Uno indifferenziato in dialettica contrapposizione all’«Uomo» a sua volta «emanato» come «principio attivo» (in certe versioni di questi miti il femminile è emanato direttamente dal maschile, quasi a sdoppiarne per frammentazione la indistinzione originaria: l’idea gnostica di fondo però non cambia). Sermonti qui, seguendo il suo neoplatonismo, cade nella gnosi spuria e finisce per affermare che l’uomo e la scimmia sono forme sorelle in quanto l’uomo rappresenta il principio attivo, maschile, solare mentre la scimmia il principio passivo, femminile, lunare. Tesi, dualista, che egli propugna da anni, perlomeno dai tempi della pubblicazione, negli anni ottanta, della sua opera «La luna nel bosco - saggio sull’origine della scimmia».
In realtà il riferimento ad Eva «madre dei viventi» di Genesi 3, 19-20 non è fatto in connessione all’Adam che da il nome alle creature, ma al momento successivo al peccato. Solo dopo l’evento del peccato è scritto, anche nel testo jahvista citato, Genesi 3, 19-20, che «Adamo chiamò la moglie Eva perché fu la madre di tutti i viventi»: i viventi qui sono coloro cui Dio ha in precedenza infuso il «ruach», facendone anime, ossia persone, viventi e, dunque, soltanto i discendenti umani della prima coppia umana, e non altre creature. Nel Genesi, anche dunque in quello jahvista, Adamo ed Eva non sono affatto l’equivalente della «androgina» coppia mitica Purusha/Prakriti o dello Yin/Yang, prime manifestazioni nella dinamica emanazionista dalla quale, secondo le cosmogonie orientali, riprese in Occidente da Guénon e Gurdieff, sorgerebbe, come «caduta», come «oscurità», l’illusione del mondo materiale, ma sono due soggetti umani creati a Sua immagine ma, distintamente, sin dall’inizio «maschio e femmina» (Genesi 1, 27).
Nella Bibbia, la differenziazione sessuale non è mai intesa come riflesso nell’uomo di una primordiale «polarità cosmica» corrispondente alla prima differenzazione dell’«Uno» impersonale e indifferenziato. Secondo la Rivelazione ebraico-cristiana, Dio è, senza dubbio, al di là della distinzione sessuale perché, in termini di teologia negativa, è possibile dire più ciò che Dio non è piuttosto che ciò che Egli è, e che analogicamente partecipa alle creature. La Bibbia, infatti, presenta Dio non solo come Padre ma sovente anche come «madre», nell’intento di sottolinearne l’essenza che è l’Amore, e questo si riflette nel fatto che la Chiesa è la «santa madre» al cui vertice è posto il «santo padre». Ciò tuttavia non toglie che il Dio biblico non sia Persona, anzi che non sia Uni-tripersonale. Proprio questo essere già ad intra «relazione d’amore tra le Tre Divine Persone nell’unità dell’Unica Sostanza Divina» consente di coglierne l’essenza che Giovanni ha compendiato nel suo «Deus Caritas est». Se così non fosse Egli sarebbe una monade chiusa ed inaccessibile, «egoista», che non solo nulla comunicherebbe ad extra ma neanche nulla avrebbe mai creato.
In tal senso, nell’uomo, fatto a Sua Immagine e somiglianza, la differenzazione sessuale è il riflesso della stessa «relazionalità interpersonale d’amore» che è già propria di Dio ad intra. Ecco perché Egli li crea «maschio e femmina» ed in una assoluta armonia spirituale, psichica ed anche erotico-carnale. Armonia che è poi dissolta solo a causa del peccato, quando le tensioni, anche quelle sul piano erotico, tendono a manifestarsi in forma di «passionalità senza più agape», ossia di «eroticità senza più amore mistico». Nel Cantico dei Cantici viene rivelato che l’amore tra uomo e donna è riflesso dell’Amore di Dio per il mondo, per l’anima umana e per l’intero essere umano Sua immagine, come «immagine» di Adamo è Eva («essa è carne della mia carne e osso dalle mie ossa», Genesi 2, 23). San Paolo, lo abbiamo già rammentato, sulla stessa lunghezza esegetica, ricorda che l’amore tra uomo e donna è immagine dell’Amore di Cristo per la Chiesa, Sua Sposa.
Del resto, nell’esperienza mistica la relazione misteriosa che si svela sussistere tra Dio e l’essere umano, in particolare nel caso della cosiddetta «transverberazione», ha forti caratteri agapico-erotici, che gli artisti hanno sovente colto come nel caso della nota statua dell’estasi mistica di Santa Teresa d’Avila. Tale carattere «agapico-erotico» ha, ordinariamente, a riprova di quanto finora affermato, anche l’orgasmo all’apice della copula sessuale umana (ragion per cui la banalizzazione e la volontaria infecondità della sessualità, tipica di questi tempi anticristici, sono segni della quasi totale mancanza di spiritualità in questa umanità occidentale così orgogliosa della propria potenza materiale). Tutto ciò è assolutamente vero e testimonia che nel testo biblico e nella Rivelazione ebraico-cristiana non vi sono spazi per la concezione monistico-dualistica della Divinità o per presunte androginie originarie, che poi, a ben vedere, non sono un «inno» all’amore ma al solipsismo egoistico che pretende afferma la «reductio ad unum» della relazionalità interpersonale che, si è visto, è tale già, ad intra, in Dio medesimo.
Ma allora come interpretare i passi del Genesi jahvista citati da Sermonti come prova di una chiave di lettura «esoterica» nascosta nel Testo Sacro? Nel Genesi, in verità, Adamo può dare il nome alle creature, ossia imprimere loro l’essenza, solo in quanto egli è l’immagine vicaria dell’Adam Kadmon, ossia, secondo la tradizione cabalista pura, del Verbo creatore. Adamo «esercita», in altri termini, un potere che gli deriva da Dio nello stato di Grazia precedente il peccato. Adamo è il vicario di Dio. Espressione esistenziale di questo stato di Grazia, nel quale l’uomo «esercita» sulle creature il potere di Dio, che rimane però il vero Padrone delle loro essenze, è la comunione originaria che il Genesi attesta vi fosse tra Adamo e l’intero creato: quella stessa comunione che si ritrova nella fenomenologia mistica che accompagna la vita dei Santi (San Francesco che parla agli uccelli ed ai lupi, Sant’Antonio che predica ai pesci, ed in genere il rapporto misterioso, mistico, tra la Santità nell’uomo e gli animali che ne sembrano mansuetamente attratti).
Come si concilia questo potere vicario esercitato da Adamo con il fatto che egli, secondo il Genesi sacerdotale, viene creato per ultimo, mentre il Genesi jahvista sembra invece considerarlo come il «primo» della creazione? In realtà, i due testi devono essere letti congiuntamente e mai disgiuntamente, ed è qui l’errore esegetico del Sermonti. Anche nel Genesi jahvista è Dio a creare gli animali e solo dopo averli creati li presenta ad Adamo perché dia loro il nome, ossia l’essenza (si veda Genesi 2, 18-20: «Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati»). Qui il significato è evidente. La creazione è sempre opera di Dio ed è attuata mediante il Verbo/Logos, ossia l’Adam Kadmon al quale si richiama la tradizione cabalista pura, che è l’Archetipo Trascendente sul quale è modellato e si sviluppa il cosmo. Quindi è solo Dio, in ultima istanza, a dare il nome, l’essenza, alle creature. Tuttavia, dal momento che «tutto è stato fatto per mezzo ed in vista di Lui», per mezzo ed in vista del Verbo/Logos (Colossesi 1, 16-17), sicché può dirsi che il fine ultimo della creazione è l’Incarnazione del Verbo, l’Uomo, l’Adamo infuso del «ruach» ed immagine vicaria del Logos creata per Amore in vista appunto dell’Incarnazione, pur comparendo per ultimo nel mondo, secondo la narrazione storica-naturalista del Genesi sacerdotale, ha altresì, secondo la prospettiva sapienziale del Genesi jahvista, partecipato nell’Adam Kadmon, nel Verbo/Logos trascendente, sin dall’inizio, ab aeterno, alla creazione.
Sicché se per il Genesi jahvista il primo uomo, storicamente apparso per ultimo, l’Adamo/Sapiens può dare nome alle altre creature, ossia conferire loro l’essenza, lo può fare solo nel Verbo trascendente, l’Adam Kadmon, di cui egli è, nell’immanenza, immagine e somiglianza.
Ma il Verbo è appunto trascendente e non è olisticamente chiuso all’interno della sfera globale del cosmo. Quindi, il punto di verità colto da Sermonti, quando mette in evidenza l’originarietà dell’Homo Sapiens attestata dalla scienza post-moderna, sta nel fatto che in effetti, in una Luce metafisica, l’Adam/Sapiens, pur temporalmente comparso per ultimo, esprime dell’Adam Kadmon archetipico, ossia del Verbo trascendente, come Sua immagine vicaria nell’immanenza, tutta la «originarietà»: di qui la neotenia del Sapiens.
Questa convergenza tra una scoperta scientifica, appunto la neotenia del Sapiens, e la Verità Sapienziale, ad un tempo metafisica e storica, della Rivelazione non toglie affatto che il Sapiens/Adam sia apparso, temporalmente, per ultimo, come attesta il Genesi sacerdotale, pur essendo stato nel Figlio «presente» a Dio, secondo quanto svela il Genesi jahvista, sin dall’inizio della creazione. Dio ha «pensato all’uomo fin dagli albori dei secoli» e l’ha «concepito con tanto amore e tenera premura, da volerlo creare a sua immagine e somiglianza»: così secondo una rivelazione privata di Maria Vergine, già in precedenza citata, debitamente riconosciuta dalla Chiesa
(50).
Infatti l’affermazione metafisico-sapienziale del Genesi jahvista, nella sua trans-storicità, non è affatto in contraddizione con l’affermazione storico-naturalistica del Genesi sacerdotale, perché sul piano metafisico e trans-storico quel che sembra, da un punto di vista storico, venire dopo non è detto che non avvenga invece prima, ab origine. Sicché i due testi sopra considerati dal Sermonti non solo non sono tra loro in contraddizione e devono dunque essere letti insieme, in un unicum, come li legge da sempre la Tradizione cristiana, ma non avvalorano affatto la lettura «esoterica» che Sermonti cerca di trarne per giustificare l’olismo neoplatonico che è sotteso al suo ragionamento scientifico.
Che le due prospettive, quella metafisico-sapienziale e quella storico-naturalista, non sono tra loro in contraddizione lo ha perfettamente capito, ci sembra, il nostro direttore, Maurizio Blondet
(51).
Con riferimento al nuovo paradigma scientifico di tipo olista che ormai, dopo quello della fisica, della cosmologia e della quantistica, si va affermando ineluttabilmente, sulla base di evidenze scientifiche sempre più cogenti, anche in campo biologico, una cui particolare formulazione, quella che ha introdotto i concetti di «Intelligent Design» e di «Complessità Irriducibile», ha fatto parlare, qualche anno fa, di sé anche nelle cronache giornalistiche, Blondet osserva:
«… quella strada, percorsa con rigore, porta a concludere che non è l’uomo a discendere dalla scimmia; ma che al contrario le scimmie e tutti gli altri animali precedenti - dinosauri e altri mostri compresi - discendono dall’Uomo. E mai come ora la maiuscola è di rigore: l’Uomo di cui parliamo è l’Archetipo. Il modello primario e originario (…). Le due ipotesi, ‘Intelligent Design’ e ‘Complessità Irriducibile’, implicano, lo si voglia o no, l’idea di un archetipo, di un modello ideale delle strutture viventi (poco prima del passo che stiamo citando, Blondet scrive, con maggior precisione, che i due concetti ‘implicano l’azione di una Intelligenza creatrice’, nda). Non è una novità. Da Aristotile al grande zoologo Linneo… duemila anni di osservazione della natura hanno supposto come ovvio il fatto che i viventi si adeguassero, più o meno perfettamente, a un modello archetipico. Per quanto denso di risonanze mistiche, il senso dell’archetipo è di essere un modello logico (ossia di essere il Logos giovanneo, la generosa Ragione creatrice che è all’origine del mondo, nda). Ed ecco il passo ulteriore: se accettiamo anche per un attimo l’ipotesi… allora ci parrà logico che gli esseri viventi più ‘primitivi’, i più lontani dall’archetipo, siano apparsi nel mondo fisico prima degli esseri più approssimati al mondo ideale (…). In termini strettamente filosofici si può dire così (…). Rispetto al modello ideale, la sua realizzazione (nello)… spazio-tempo rappresenta una ‘involuzione’ (Blondet usa questo termine: noi avremmo preferito esprimerci affermando che ogni realizzazione del modello ideale rappresenta di esso una ‘immagine’ che, per quanto modellata sull’archetipo, rimane pur sempre imperfetta ma, tuttavia, non ‘peggiorativa’ bensì densa di valore ontologico e significato, nda) (…). L’archetipo… è essenzialmente ‘uno scopo’ (…) . Quel che abbiamo descritto fin qui è un qualsiasi processo finalistico. Nei processi finalistici lo scopo precede - come idea - tutte le condizioni che sono necessarie per attuarlo, e come realtà - come scopo realizzato - appare per ultimo, dopo che tutte le condizioni per manifestarlo sono state messe in opera. L’establishment darwinistico non è certo disposto a lasciarci passare l’introduzione del finalismo nel nostro ragionare: il darwinismo è il contrario esatto del finalismo, sostiene che la complicata struttura del DNA, dell’occhio, la lingua a fionda del picchio, la proboscide dell’elefante sono tutti casi di accidentale ‘adattamento’ e di cieche mutazioni. Noi però non lasceremo per questo l’argomento finalistico (…). Meglio: possiamo dire che c’è stato, tra il più primitivo… e i più complessi, un imponente trasferimento d’informazione… ma allo stesso tempo negare una discendenza diretta dell’uno dall’altro. E sostenere che ‘l’antenato comune’ di tutti… non è materiale, che i (viventi)…, con le loro differenze e analogie, discendono da un ‘padre’ non manifesto nella realtà fisica. Il progetto. Lo scopo (…). Applicata al mondo naturale, quest’idea ci consente di intuire una ragione profondamente diversa da quella che ci propongono i darwinisti per il fenomeno chiamato ‘omologia’. Ricordate? Il pipistrello ha ali, la balena pinne, l’uomo mani prensili: ma nei tre casi, a svolgere queste funzioni è lo stesso arto - l’arto superiore - che ha una struttura articolare uguale, e invariabilmente cinque dita. La stessa struttura fondamentale compie funzioni diverse. L’evoluzionismo dice: ciò prova che tutti e tre i mammiferi hanno avuto un antenato comune, da cui discendono geneticamente (sessualmente), e che ‘per caso’ si trovò con arti a cinque dita e li ha trasmessi alla prole. Poi, ci sono stati adattamenti e mutazioni, sempre accidentali, che si sono dimostrate ‘vantaggiose’ nell’aria, nel mare e in officina. Noi, armati dell’idea di archetipo, possiamo invece dire: c’è un modello a cui… (il) mondo animale evidentemente si conforma. Il modello, l’archetipo a quattro arti e cinque dita che in qualche modo si manifesta nella realtà fisica. E non solo nei mammiferi ma anche nei pesci, nei rettili, nell’estinto tirannosauro, sostanzialmente in tutti i vertebrati. Inoltre ricordiamo che quel che appare, rispetto al progetto, è necessariamente ‘inversivo’. Il movimento dall’archetipo alla realtà è un movimento da ‘dentro’ a ‘fuori’. Ciò ha adesso anche un altro senso: l’ultimo ad apparire nella realtà spazio-temporale sarà ciò che è più vicino al ‘centro’, il più ‘originario’ nell’ordine dell’archetipo. E difatti … ciò che vediamo apparire prima nella storia della vita, i resti conservati negli strati geologici più antichi, sono le forme più primitive, meno adeguate rispetto al Modello. Moltissime di queste forme sono oggi estinte, come il tirannosauro e il diplodoco; altre, antichissime e primitive, come lo squalo e il coccodrillo, sono tutt’ora fra noi. Segno che la loro primitività non le rende ‘meno adatte alla vita’. Sono semplicemente più lontane dal’Archetipo. Su questa base, possiamo leggere la storia naturale al contrario. Rovesciare il significato dell’apparizione nel tempo (…) così i grandi rettili (sono apparsi) prima dei mammiferi proprio perché (più lontani dall’) archetipo. I meno vicini al ‘centro’, all’origine, sono i primi ad apparire all’esterno, nelle condizioni dello spazio-tempo (…). E proprio quello che vediamo, se non inforchiamo gli occhiali del pregiudizio, nella storia della cosiddetta ‘evoluzione’. Vediamo improvviso e ricchissimo apparire di forme di vita nuove, ad ondate successive; e le vediamo decimate via via, in massicce estinzioni (…). Migliaia restano al suolo, estinti. Molti altri trovano riparo in buche e cunicoli: salvano la vita ma non partecipano più all’avanzata. Nella natura vivente, una quantità di individui si sono acquattati: in nicchie ecologiche ristrette, in degenerazioni specialistiche. Gli animali che ci vediamo attorno… sono degli specializzati. Un solo cibo, un solo clima, una specifica funzione (volo o nuoto, caccia o erbe o cortecce), un solo qui-e-ora. Possono essere elegantissimi, esibire piumaggi meravigliosi, occhi a intensificazione di luce come i limulus, lingue straordinariamente lunghe come il picchio: sono tutti i segni della loro specializzazione che li rende vulnerabili a cambiamenti imprevisti delle condizioni della realtà fisica. Per ora sopravvivono, ma biologicamente sono dei vicoli ciechi e dei rami collaterali. Così accade che nel grande genere dei Primati cui noi apparteniamo, tutti i tentativi di ricostruire un albero genealogico dalle scimmie all’uomo naufraghino deplorevolmente: gli alberi diventano cespugli. Invece di un tronco liscio e dritto, c’è una confusione di rami collaterali che divergono fin dall’inizio. Via via, ogni candidato a nostro ‘antenato comune’ viene spinto a parte: ramo divergente, un caso di arresto evolutivo. Il ‘Neanderthal’, questo specialista dell’odorato, è un caso clamoroso: uomo, con un ‘mondo interiore’, ma confinato a una nicchia dell’esistenza che lo ha, alla fine, soffocato. L’‘Erectus’ e l’‘Habilis’ potevano essere involuzioni degeneri dello stesso tipo. Sicuramente lo sono le scimmie di cui l’establishment ci vorrebbe parenti. Lo scimpanzé e l’orango, ci dicono, sono geneticamente simili a noi al 99%. Ma allora perché non scendono dagli alberi? Perché non sopportano altro clima di quello dell’Indonesia o del Congo? In quanto limitati alla vita arboricola, di sicuro sono deviazioni dall’asse originario. Più precisamente, dall’‘asse di sfondamento’ dell’Archetipo che avanza. Su quest’asse, ad avanzare ancora è l’uomo (l’Adamo/Sapiens, nda). L’ultimo arrivato nel mondo fisico sarebbe dunque il primo, il più ‘originale’ nel senso del più vicino all’origine dell’Archetipo? L’affermazione va preceduta da cautele, limitazioni e precisazioni. Le cautele sono ancor più necessarie perché… si tratta di immaginare un’intenzione esistente fuori dal tempo e dallo spazio. L’Uomo di Leonardo, armonicamente iscritto in un cerchio (o in una sfera) è un pallido tentativo di rappresentare la semplicità dell’Archetipo che è un Principio, per se non-rappresentabile. Anche dell’uomo fisico, del resto, i più geniali pittori possono rappresentare solo la morfologia (quella che fondamentalmente condividiamo con i vertebrati) (e che tuttavia è già ‘immagin’ dell’Archetipo, del Verbo/Logos, nda), ma non ciò che è più essenziale in ciascuno di noi, e che ci fa uomini: il nostro ‘mondo interiore’. Quello, i pittori cercano di farlo intuire nella resa dei volti dei loro ritratti. Così, bisogna cercare di intuire che nell’Uomo Archetipo la ‘forma’ umana contiene anche le forme animali che ci hanno preceduto nella vita materiale, in forma di principii, di ‘semi’, come possibilità esaurite. Certe raffigurazioni antiche, che mostrano l’uomo circondato dagli animali dello Zodiaco, alludono a questo indicibile stato (…). Nel mondo spazio-tempo, dove morire è l’evento più certo per tutti, un evento biologico infallibile, l’uomo è il solo a sentire la morte come un’offesa. L’ineluttabile fatto biologico è per lui ‘qualcosa che non deve essere’: e qui tocchiamo con mano quanto sia tragico (nella condizione adamitica post-peccatum, nda) rappresentare nel mondo un archetipo, che non è del mondo. Il fatto è che l’uomo è definito, più che dalla sua morfologia e anatomia (che, tuttavia, ripetiamo, è anch’essa molto importante anche simbolicamente, nda), dal suo mondo interiore. Può cavarsela anche con l’artrosi deformante - che condannerebbe un ghepardo - perché la sua ‘materia’ non è tanto importante come la sua ‘essenza’. E’ ancora la preminenza del mondo interiore che conserva all’uomo la sua straordinaria ‘giovinezza biologica’, e probabilmente il suo aspetto infantile nell’età adulta»
(52).
Fin qui l’ottimo Blondet. Tuttavia, ci siano consentite alcune «correzioni». Come si è già avuto modo di osservare, più che all’Uomo di Leonardo, simbolo umanistico-rinascimentale e dunque con una valenza profondamente antropocentrica, è al Cristo Pantocratore, iscritto nell’amigdala o nel Cerchio del cosmo o intento a disegnarne la circonferenza, che bisogna fare riferimento quando si vuole alludere ad una raffigurazione pittorica dell’Archetipo/Logos. Il quale poi è senz’altro un Principio inesprimibile e non rappresentabile ma nient’affatto impersonale o incomunicabile o non analogico con l’uomo Sua immagine nell’immanenza. Il Verbo/Logos non solo ha creato ma si è rivelato, comunicato, all’uomo svelando a quest’ultimo la sua essenza di immagine di Dio e la stessa Sua Presenza, come Logos creatore, nell’intera creazione, portando ogni creatura un «segno» di Sé da Lui «impressa» in ciascuna di esse: «di Te, Altissimo, le creature portano significatione», cantava Francesco.
Infine, per quanto riguarda lo Zodiaco, va osservato che l’astrologia, lungi dall’essere del tutto estranea alla Rivelazione ebraico-cristiana, tanto è vero che per il salmista i cieli narrano la Gloria di Dio e che i primi pagani ad adorare il Cristo Bambino furono i magi ovvero degli astrologi, probabilmente caldei, che, giungendo da oriente, avevano «visto sorgere la sua stella» (Matteo 2, 1-2)
(53), va correttamente intesa.
Esiste infatti una astrologia panteista, che richiama molto da vicino un analogo olismo «esoterico» e «new age» oggi molto di moda, per la quale l’uomo sarebbe solo una parte, non principale ma relativa, del cosmo inteso come cerchio chiuso nell’immanenza (benché si tratti, secondo tale prospettiva, di «immanenza spiritualista» al modo dell’antica «anima mundi»). Sicché l’uomo sarebbe ineluttabilmente determinato dagli influssi astrali perché le corrispondenze cosmiche sarebbero per l’appunto reciprocamente determinanti. In tale prospettiva, è evidente, l’uomo perde ogni specificità spirituale, ad iniziare dal libero arbitrio, e rimane del tutto chiuso e condizionato dalle «meccaniche celesti».
Così intesa l’astrologia non è compatibile con la Rivelazione e intesa in tal modo è sempre stata combattuta dalla Chiesa. Tuttavia, come è noto, i Papi nell’antichità avevano presso la corte pontificia il proprio astrologo personale. Questo perché se intesa come mera scienza naturale, olisticamente aperta alla Trascendenza che oltrepassa la sfera stessa del cosmo, e quindi come scienza esclusivamente capace di indicare tendenziali e reciproche interferenze di tipo psichico-corporee tra gli astri e l’uomo, ferma rimanendo sia la specifica centralità teomorfica che il libero arbitrio di quest’ultimo, magari parzialmente condizionato ma mai determinato dai moti astrali, allora l’astrologia trova compatibilità con la Fede cristiana.
L’Aquinate, non a caso, affermava che «gli astri inclinano la natura umana ma non la determinano».
Luigi Copertino
• La creazione tra Fede e scienza (parte I)
• La creazione tra Fede e scienza (parte II)
• La creazione tra Fede e scienza (parte III)
• La creazione tra Fede e scienza (parte IV)
• La creazione tra Fede e scienza (parte VI)
39) Si veda l’ultimo capitolo dell’opera di Sermonti «Una scienza …», opera citata, da noi esaminata, ossia il capitolo 13, pagine 138-147.
40) Confronta G. Sermonti, «Una scienza …», opera citata, pagina 138.
41) Confronta G. Sermonti, «Una scienza …», opera citata, pagina 140.
42) Confronta G. Sermonti, «Una scienza …», opera citata, pagine 140-142.
43) Confronta G. Sermonti, «Una scienza …», opera citata, pagina 140-141.
44) Confronta G. Sermonti, «Perché l’evoluzione sta bene alla Chiesa?», in Il Foglio 30 giugno 2006.
45) Confronta G. Sermonti, «Una scienza …», opera citata, pagina 142.
46) Confronta G. Sermonti, «Una scienza …», opera citata, pagina 143.
47) Confronta G. Sermonti, «Una scienza …», opera citata, pagine 143-144.
48) Dispiace davvero che, qui, il Sermonti, con questo suo giocare con la supposizione della distinzione tra un testo «esoterico», contenente la «vera» rivelazione, ed uno «essoterico», elaborato dalla casta sacerdotale interessata a porre la questione in termini di, dispotica, volontà di potenza, non si accorga (o forse no?) di ricalcare, luciferine tesi gnostiche e marcionite, ben note da millenni, che vogliono il Dio Padre dell’Antico Testamento come feroce e crudele «demiurgo», responsabile della «caduta dello spirito nella oscura materia», che cerca di ingannare l’uomo presentandosi come il vero Dio quando altri non sarebbe che una deità «malvagia e minore». Secondo tali tesi gnostiche da questa malvagia divinità, propria degli ebrei, ci avrebbe liberati il Dio di Gesù e del Nuovo Testamento, Dio di «amore cosmico» e di «fratellanza universale», che sarebbe non solo il vero Dio ma anche si opporrebbe frontalmente al malvagio demiurgo veterotestamentario. Tutti temi, nei quali si intravvede chiaramente la «crusca» di «colui che vuol farsi adorare al posto di Dio», oggi riproposti a livello globale in chiave new age ed ai quali, nel leggere le opere del Sermonti, ci sembra che un certo olismo mal inteso sembra fare da cassa scientifica di risonanza.
49) Confronta G. Sermonti, «Una scienza …», opera citata, pagine 144-146.
50) Confronta Consuelo, «Maria porta del Cielo», Ancora, Milano, 1991, pagina 32.
51) Confronta M. Blondet, «L’uccellosauro ed altri animali - la catastrofe del darwinismo», EFFEDIEFFE, Milano, 2002. Ci sia tuttavia consentito un amichevole appunto al nostro direttore. Riteniamo che anche lui in alcuni passaggi, delle pagine che andremo fra poco a citare della sua opera, finisca per cedere ad una prospettiva «gnostica», pur cercando di distinguersene laddove, ad esempio, trattando dell’Archetipo che «avanza» nell’aldiquà, cerca di «correggere» l’eccesso di pessimismo delle grandi gnosi orientali, come l’induismo, che lo leggono come «caduta», con un concetto più ottimista di «conquista» dell’immanenza. Altrove però Blondet non si avvede, a nostro giudizio, dei pericoli sottesi ad un accostamento, troppo sincretistico, delle gnosi orientali alla Tradizione ebraico-cristiana. Ci sembra che egli non colga bene neanche la distinzione, da noi sopra richiamata, tra un cabalismo spurio ed un cabalismo puro. Scrive infatti Blondet alle pagine 123 e 124 e nella nota 1 di pagina 123: «L’induismo pone all’origine della manifestazione Purusha. Di questa entità enigmatica si dice che è l’Uomo Universale, che fu ‘fatto a pezzi’, e da questi ‘pezzi’ che distruggevano la sua unità fu fatto il mondo. Nella tradizione ebraica è il caso del misterioso Adam Qadmon, l’Adamo supremo, che ha il potere su tutti gli animali, e il cui primo potere è di dare agli animali ‘il loro nome’ ossia - nei termini della metafisica classica - la loro essenza, il renderli attuali anziché solo potenziali. E’ Adam Qadmon il padre della nostra specie che il Dio biblico annuncia ‘fatto a nostra immagine e somiglianza’, non noi uomini fisici. Noi siamo al più un’immagine dell’immagine. (Purusha comprende ‘tutti gli esseri che sviluppano le loro capacità di manifestazione’ - in un grado determinato dell’esistenza - ed è perciò ‘assimilato a Prajapati, il Signore degli esseri prodotti’ - R. Guénon, ‘L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta’, Torino 1965, pagina 57 -. E’ detto anche che Purusha, perché la manifestazione si produca, deve congiungersi con Prakriti, la sua ‘sposa’. Dietro queste mistiche nozze si può vedere l’unione di essentia e di substantia, o di ‘atto’ e ‘potenza’, o di ‘forma e materia’, che per Aristotile, San Tommaso e la filosofia scolastica formano ogni oggetto reale. Prakriti è infatti la ‘materia prima universalis’ del pensiero classico, l’oscura sostanza che fa esistere le cose nello spazio-tempo. Per questo Prakriti è la Femmina cosmica, popolarmente adorata come Kalì (l’oscura). E’ lei che dà la vita e anche la morte: perché quella vita è biologica». Ora, ci sembra che l’amico Blondet non chiarisca bene che questa prospettiva non è quella del Dio cristiano, che crea per amore e per il quale la materia, anche quella biologica, non è malvagia, non è oscura, ma buona proprio perché è Egli a crearla ed ad amarla. La vita, nella prospettiva induista, è solo sofferenza (per la fede cristiana la sofferenza è invece comportata dal peccato e non è voluta dal Creatore e, se accettata nella Sua Volontà, è espiatrice e salvifica) ed è per questo che essa è una «caduta» da fuggire cercando di uscire dal ciclo nascita-morte dissolvendo il proprio sé particolare, quel sé che biblicamente è invece amato dal Creatore, nell’Uno indeterminato. L’equivoco insorge anche circa l’Adam Qadmon e la filosofia aristotelico-tomista. Seconda una lettura conforme alla Rivelazione, ed al cabalismo puro, l’Adam Qadmon è l’Archetipo/Verbo, la Seconda Persona della Santissima Trinità, è, in altri termini, quell’«Uomo Universale» o «Figlio dell’Uomo» che Cristo dice essere, ovvero quel «Secondo Adamo» che San Paolo afferma aver redento il «primo Adamo» pur essendo «prima» di quest’ultimo. Dell’Adam Qadmon, così inteso, l’Adamo inteso come «primo uomo» nell’immanenza è appunto immagine proprio perché egli è un soggetto, una persona, concreta, individuale, ed, in tal senso, «padre» di tutti gli altri uomini venuti dopo di lui. Quindi ogni accostamento al Purusha induista, che viene fatto a pezzi (si tratta, secondo la gnosi spuria, della primordiale ed impersonale unità indifferenziata che dà luogo, per decadenza, alla manifestazione attraverso una dinamica emanazionista di polarità contrarie e complementari), è qui del tutto fuorviante. L’Adam Qadmon ebraico-cristiano non crea per emanazione né per frammentazione (così invece nella deformazione cabalista spuria della Rivelazione) e la sua creazione non è una «caduta nell’oscurità» ma è gloria del Dio Vivente. Ecco perché per l’Aquinate, che ha corretto e rielaborato alla Luce della Rivelazione il pensiero di Aristotile, non pre-esiste, all’atto divino della creazione, né è emanata dalla Sua stessa sostanza, alcuna «materia prima universalis» che, invece, è essa stessa creata ex nihilo, e quindi in origine senza forma, e poi «in-formata» da Dio per mezzo del Suo Logos. La gnosi spuria cabalista, o anche quella induistico-guenoniana, invece presuppone un Principio impersonalmente, o perlomeno a-personalmente, indifferenziato (che è altra cosa dal dire, come in ambito cristiano, «Dio Persona Infinita» e pertanto non riducibile a nessuna della sue creature, a nessuno, in termini tomisti, degli enti) che degrada nel dualismo cosmico del «doppio contrario» («Maschio-Femmina», «Notte-Giorno», «Bianco- Nero»; «Bene-Male» posti sullo stesso piano come polarità ontologicamente eguali: il «male», al contrario, cristianamente non ha consistenza ontologica a sé ma è solo un tentativo di «privazione dell’Essere» che è il Bene).
52) Confronta M. Blondet, «L’uccellosauro …», opera citata, pagine 118-124.
53) La «stella» di cui parla il Vangelo di Matteo non è affatto la «cometa» delle raffigurazioni popolari del presepio. Si trattò invece della incredibile e luminosissima congiunzione (cioè, l’avvicinamento) di Giove e Saturno nella costellazione dei Pesci. Un fenomeno astrale unico nel suo genere, che fu osservato anche da Keplero nel dicembre del 1603 a Praga. Questo grande scienziato riuscì a stabilire che lo stesso fenomeno (che provoca una luce intensissima e vistosa nel cielo stellato) si era già verificato anche nel 7 avanti Cristo. Nel 1902 fu pubblicata la cosiddetta «Tavola planetaria», conservata oggi a Berlino: si tratta di un papiro egizio che riporta con impressionante esattezza i moti planetari dal 17 avanti Cristo al 10 dopo Cristo. Questo papiro non solo confermò i calcoli di Keplero, ma, attraverso la testimonianza diretta degli astrologi egizi che avevano assistito al fenomeno, ha storicamente provato che nel 7 avanti Cristo la congiunzione nella costellazione dei Pesci di Giove-Saturno si era effettivamente verificata e che era stata luminosissima nonché visibilissima su tutta l’area mediterranea. Nel 1925 fu pubblicato il «Calendario stellare di Sippar», una tavoletta in terracotta con scrittura cuneiforme proveniente dall’antica città, sull’Eufrate, di Sippar, sede di una all’epoca importante e nota scuola di astrologia babilonese. In tale «calendario» quegli antichi astrologi riportarono tutti i movimenti planetari dell’anno 7 avanti Cristo perché proprio in quell’anno la congiunzione Giove-Saturno nei Pesci si verificò per ben tre volte: il 29 maggio, il 1° ottobre e il 5 dicembre. Questa congiunzione si verifica solo ogni 794 e per una sola volta in un anno: unico caso eccezionale di triplice congiunzione si ebbe solo nel 7 avanti Cristo. Secondo l’antica astrologia babilonese, Giove è il pianeta dei «dominatori del mondo», Saturno quello che protegge Israele e la costellazione dei Pesci è il segno della «Fine dei Tempi», ossia dell’inizio dell’era messianica. Ebbene, come è ormai noto, la data della nascita di Gesù Cristo deve essere retrodatata di sette anni. L’errore di calcolo va imputato al monaco Dionigi il Piccolo che calcolando nel 533 l’inizio dell’era cristiana si sbagliò e posticipò di sette anni la nascita di Cristo, che dunque va correttamente posta esattamente proprio in quel luminosissimo 7 avanti Cristo. Sulla questione della «stella» di Matteo si veda Vittorio Messori, «Ipotesi su Gesù», Sei, Torino, 1976, pagine 111-113.
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