L’Islanda ripudia il debito e altre notizie
01 Ottobre 2009
Il parlamento islandese ha preso una decisione epocale: pagherà i suoi debiti ai creditori esteri solo nella misura del 6% della crescita del suo prodotto interno lordo; e se crescita non ci sarà, comè probabile data l’attuale depressione, non pagherà nulla.
L’Islanda, a causa dei suoi banchieri che hanno gestito da folli le sue banche appena privatizzate, deve 2,6 miliardi di euro alla Gran Bretagna e 1,3 all’Olanda, le quali hanno garantito i depositanti delle fallite istituzioni bancarie Kaupthink e Landsbanki, che in gran parte erano inglesi e olandesi.
Un debito schiacciante per un Paese di 320 mila abitanti, in piena crisi economica per le follie dei suoi speculatori ubriacati dal dogma di liberismo senza regole.
Per pagare i debiti, il Paese dovrebbe prendere altro denaro a prestito, oppure vendere (magari ai creditori) i suoi attivi nazionali: le quote-pesca, l’alluminio, l’elettricità geotermica. L’Islanda verrebbe espropriata, come già tanti Paesi africani e del Terzo Mondo che si sono visti imporre «austerità» predatorie a favore dei banchieri creditori.
La società islandese non essendo africana, ma civile, sviluppata e democratica (ha da poco fatto cadere il governo che aveva provocato il disastro) ha scelto la terza soluzione: non pagare. O rimborsare solo una percentuale sulla crescita reale della sua economia.
L’Islanda risponde così ad un vero e proprio ricatto che le viene imposto dall’Unione Europea: per sperare di entrare nella UE e nel suo mercato comune, deve onorare i suoi debiti verso Londra e L’Aja.
La pretesa ha del surreale: da una parte, la UE pretende che uno Stato possa entrare nella comunità solo se il suo debito pubblico non supera il 60% del PIL; dall’altra, il debito estero dell’Islanda, se il piccolo Paese accettasse di onorare i suoi impegni verso Gran Bretagna e Olanda, schizzerebbe al 240% del PIL.
E’ la prima volta dagli anni ’20 che un Paese subordina il rimborso del suo debito estero alla sua capacità di pagare, affermando con ciò la propria sovranità. Con ciò ha stabilito un principio inaudito per l’ideologia del capitalismo globale: uno Stato non si assume la responsabilità di debiti contratti da privati oltre ogni limite, se questo significa tagliare le spese sanitarie, d’istruzione e di altri servizi sociali.
Con il principio, è affermato il corollario: il dovere del credito e delle altre attività finanziarie, dopotutto, è di finanziare la crescita economica reale. Se questa crescita ha luogo, è legittimo servire il debito (cioè rimborsare a rate il capitale e gli interessi). Ma se le attività finanziarie non hanno creato ricchezza reale nell’economia reale, non si può consentire che la «santità del debito» diventi predazione e saccheggio.Certo, i creditori dovranno ora cancellare i debiti islandesi dai loro finti «attivi». Ebbene?
Giocatori d’azzardo, hanno puntato (loro dicono «investito») in modo irrealistico, contando di estrarre profitti assurdi da un Paese di 320 mila abitanti. Hanno giocato, per un po’ hanno guadagnato troppo, ed oggi hanno perso; oltretutto, sono stranieri, e dunque le perdite della bancarotta sovrana non peseranno sulla popolazione già provata.
Forse, la mossa islandese è l’inizio di una vera ristrutturazione della finanza internazionale.
Erdogan: «E le bombe israeliane?»
Un attacco armato contro le installazioni nucleari iraniane? «Sarebbe un atto di demenza», ha dichiarato il premier turco Recep Tayyip Erdogan mentre era a New York per l’assemblea generale dell’ONU. Erdogan ha anche annunciato all’agenzia nazionale «Anatolia» che si recherà a Teheran per dare una mano a mediare: «Discuteremo i problemi regionali, compreso questo (nucleare)».
Così, un Paese membro della NATO non si allinea con Germania, Francia e USA nel minacciare l’Iran di sanzioni «schiaccianti», anzi tende ostentatamente una mano al nemico demonizzato, che è anche suo confinante. Tanto più, ha detto Erdogan, che se «noi siamo assolutamente contro le armi nucleari in Medio Oriente, c’è un Paese del Medio Oriente che le armi nucleari le ha. Parliamo di queste»: chiara allusione ad Israele.
Difatti Erdogan è tornato sull’aggressione devastante che Israele ha compiuto a Gaza tra dicembre e gennaio: «Si parla solo dell’Iran», ha aggiunto, «perchè non si parla di questo? Dobbiamo essere più giusti e onesti se vogliamo la pace globale».
Sulla possibilità di un attacco bellico contro l’Iran, il premier turco ha ripetuto: «Sarebbe del tutto sbagliato e ne soffrirebbero non solo quelli che commettesero questa demenziale follia».
Erdogan ha anche annunciato che la Turchia farà pressioni perchè il Consiglio di Sicurezza discuta il rapporto ONU sui crimini di guerra israeliani a Gaza, il famoso rapporto Goldstone che Washington e la lobby stanno cercando di liquidare.
«Siamo favorevoli ad aprire la discussione sul rapporto Goldstone, e chiunque risulti colpevole, che sia identificato e obbligato a subire le necessarie sanzioni».
(I media italiani e internazionali continuano a parlare della «nuova installazione nucleare segreta» che è stata «scoperta»: l’installazione, non ancora funzionante, è stata dichiarata dall’Iran con comunicazione regolare alla AIEA (come abbiamo già evidenziato in un precedente articolo), in ossequio ai trattati NPT che Teheran ha firmato, e Israele no).
L’ENI fa gola ai soliti
«Knight Vinke Asset Management», un fondo di New York che possiede l’1% dell’ENI, sostiene che l’ENI è sottovalutata dai mercati di almeno 50 miliardi di euro, che è sottocapitalizzata e finanziariamente «limitata» (ossia non può indebitarsi come vorrebbe Knight), specie se vuol partecipare al ritorno del nucleare promesso dallo Stato italiano.
Knight Vinke, col suo 1% (ma è comunque uno dei massimi investitori in ENI dopo il Tesoro italiano, che detiene il 30%) si candida a «ristrutturare» il nostro gigante, spaccandolo, separando cioè le attività upstream e quelle downstream; così, dice, renderebbe l’ENI più «efficiente» - perchè Knight Vinke pensa al bene dell’Italia: il modo con cui ENI ha finora perseguito la sicurezza energetica italiana, scrive nel suo comunicato, «pone un grave peso alle famiglie», e limita la capacità dell’ENI di «creare nuovi posti di lavoro».
Stranamente, questa valutazione viene dopo un articolo del Financial Times che ai primi di settembre suggeriva giustappunto di spezzettare l’ENI (break-up, dicono lorsignori). Anche qui per il bene di noi italiani.
E’ chiaro che in questi intenti si rivelano gli avidi progetti dei soliti noti, dei finanzieri che nel 1992 convocarono gli italiani che contavano
(1) sul «Britannia», per spartirsi i gioielli industriali nazionali, con l’aiuto di Draghi, venerato maestro. Ora i tempi sembrano loro maturi, perchè Draghi diventa ogni giorno più potente e venerato e venerabile, Berlusconi è al tramonto e c’è chi si adopera per spacciarlo dall’interno e dall’estero; oltretutto quel Berlusconi che ha favorito gli affari dell’ENI con Gazprom, così invisi a Washington.
Knight Vinke dice che il bene dell’ENI (e la necessità di farne spezzatino) occupa non solo «gli azionisti», ma anche una più ampia cerchia di «interessati stakeholders», ossia certe persone ed entità che hanno un interesse generale nelle attività economico-finanziarie petrolifere, per esempio una certa Royal Dutch Shell, di cui è consulente. Knight si offre di trovare nuovi azionisti per la così benefica ristrutturazione; o magari chissà, visto che ENI è sottovalutata, si prepara a raccogliere stakeholder preoccupati per scalarla e portarla sotto l’egida anglo-americana.
In questo ed altro, Draghi può avere dei suggerimenti da dare. Dopotutto, ha ancora qualche amico a Goldman Sachs.
Il benissimo informato Milano Finanza scrive: «Ci si interroga su cosa stia ispirando la discesa in campo del fondo Knigh e del suo grande ispiratore, ossia Calpers, il pension fund degli impiegati pubblici della California. L’ipotesi che sta prendendo piede è che veri ispiratori della manovra siano le lobby di Washington, preoccupate per la linea assunta dal governo italiano in materia energetica, molto aperta verso tradizionali rivali degli States quali la Russia di Putin o la Libia di Gheddafi. Una partita in cui la firma italiana all'accordo sul gasdotto South Stream (Gazprom, ENI e Edf) è stata presa come uno schiaffo dagli uomini vicini al presidente Barak Obama, sostenitori del percorso alternativo, il gasdotto Nabucco, che invece esclude la Russia».
Israeliani in Honduras
L’ambasciata del Brasile a Tegucigalpa, dov’è rifugiato Manuel Zelaya, il presidente honduregno, cacciato dal colpo di Stato di giugno, è sottoposta da giorni a uno speciale trattameno: musiche ad altissimo volume e infiltrazione di gas irritanti, allo scopo evidente di indurre Zelaya ad arrendersi.
Il presidente detronizzato, in una intervista telefonica al Miami Herald, ha accusato il governo golpista di aver arruolato mercenari israeliani per questa operazione. Il consolato israeliano a Miami ha risposto di non esere al corrente della presenza di mercenari israeliani in Honduras.
A Tegucigalpa sono più al corrente. Si indica Yehuda Leitner, ex ufficiale dell’esercito israeliano, come fornitore delle armi acustiche e dei gas alla dittatura di Micheletti, attraverso due ditte di sua proprietà, Alfacom e Intercom, che a loro volta si forniscono dei materiali in Israele.
Questo Yehuda Leitner era già attivo negli anni ’80 come membro della rete Iran-Contra; inoltre, ha addestrato uno squadrone della morte conosciuto come «Battaglione 316». Fuggito dall’Honduras nel 1986 perchè inseguito da mandati di cattura, vi è tornato con i suoi specialisti in repressione. Ha accesso diretto all’ufficio del capo del governo golpista Micheletti. Gli uffici di Leitner sono a Colonia, El Prado, Tegucigalpa.
Il trattamento acustico fu già adottato nel 1989 dagli americani contro Noriega, presidente del Panama, che s’era rifugiato nella Nunziatura del Vaticano.
Il 16 aprile 2009 un altro mercenario israeliano, Eduardo Flores-Rosza, metà sudamericano e metà ungherese, è stato ucciso dalla polizia boliviana insieme a due complici, perchè ritenuto capo di una rete terrorista che attentava alla vita del presidente boliviano Evo Morales (episodio da noi raccontato in un precedente articolo).
1) Ricordiamo che a prendere ordini sul Britannia salirono: Mario Draghi, allora direttore del Tesoro (un funzionario, non un politico); Lorenzo Pallesi, presidente di INA-Assitalia; Innocenzo Cipolletta, direttore generale di Confindustria; Giovanni Bazoli (basta la parola), Gabriele Cagliari, allora presidente ENI;e l’economista Luigi Spaventa.
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