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Israele vuol cambiare le convenzioni di Ginevra
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Di fronte al Rapporto Goldstone che accusa Israele di crimini di guerra a Gaza, il governo israeliano lancerà «una campagna mondiale per modificare il diritto internazionale di guerra». Sebbene incredibile, l’ha confermato l’ufficio del premier Bibi Netanyahu: «Il primo ministro ha istruito gli organi interessati del governo di studiare una campagna a livello mondiale per modificare le leggi di guerra internazionali per adattarle alla diffusione del terrorismo globale». Netanyahu ha dichiarato di suo: «Voglio essere chiaro: nessuno intaccherà il nostro diritto a difendere i nostri figli, cittadini e comunità» (1).

Un’altra conferma viene dal ministro della Difesa Ehud Barak: una grande campagna  diplomatica si rende necessaria «per facilitare la guerra al terrorismo. E’ nell’interesse di tutti combattere il terrorismo. Dobbiamo dare all’IDF (esercito israeliano) la piena libertà d’azione».

Se le parole hanno un senso, Israele si prepara  con tutte le sue forze lobbistiche a modificare le quattro Convenzioni di Ginevra, formulate nel 1949, note anche come «diritto umanitario» e sottoscritte da quasi tutte le nazioni del mondo, che impongono un trattamento umano ai feriti di terra e di mare (prima e seconda Convenzione), sul trattamento dei prigionieri di guerra (terza convenzione) e sulla protezione dei civili in tempo di guerra (Quarta convenzione).

Se il colpo riesce, diventerà legale fare tutto quello che Israele ha fatto a Gaza nei 22 giorni del massacro: sparare sulle ambulanze, uccidere madri di famiglia che sventolano bandiera bianca, innaffiare bambini con fosforo bianco, incenerire ospedali, distruggere infrastrutture necessarie alla sopravvivenza, negare il soccorso ai feriti e la protezione dei non-combattenti.

Sarà la nuova civiltà talmudica. Non ci saranno più «civili» e tanto meno «non-combattenti», perchè la necessità della «lotta mondiale al terrorismo» tutti sono potenziali terroristi.

Se riuscirà, sarà la più grande operazione di lobby mai realizzata dalla comunità.

Ma riuscirà? Israele ha già subito un cocente fallimento nella sua campagna di pressione per far bocciare immediatamente il Rapporto Goldstone nella riunione dell’UNHCR del 16 ottobre scorso (2). Speravano di aver conquistato dei voti a loro favore, che invece sono mancati. Il vice-ministro degli Esteri Danny Ayalon ha dichiarato che «chiederà spiegazioni a Russia, Cina e India», colpevoli di aver votato la mozione pro-Goldstone, mentre la diplomazia israeliana era sicura – con le dovute pressioni, telefonate, eccetera – di aver strappato loro un impegno. Ayalon ha espresso «disappunto per il comportamento di queste nazioni»: quali accordi erano intercorsi, che non sono stati rispettati?

«Il rapporto toglie agli Stati democratici il diritto all’autodifesa, e alla fine si ritorcerà contro di loro», ha concluso minacciosamente Ayalon.

Ma il peggior disappunto è venuto da due Stati che la lobby credeva di avere in tasca: Gran Bretagna e Francia. Telefonate su telefonate per chiedere il «no» al rapporto Goldstone; conversazioni definite «vivaci». Alla fine, Gordon Brown e Sarkozy hanno scritto – insieme – una lettera a Netanyahu, in cui si dicevano disposti ad obbedire a Sion, ma chiedevano in cambio l’accesso degli aiuti umanitari a Gaza, ed esortavano Israele ad intraprendere una inchiesta interna («indipendente e trasparente») sui crimini di cui l’esercito israeliano è accusato. Alla fine, non avendo ottenuto nulla, non hanno votato «contro» Israele, ma non hanno partecipato.

Ciò ha fruttato al premier britannico una sarcastica ed eloquente vignetta del Guardian: «Vuoi vedere che Gordon Brown ha una spina dorsale?».



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Una dura sconfitta – forse la prima – per l’influenza israeliana, che ha risposto con arroganza.

Il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner, ebreo, ha rimandato una visita  programmata in Israele per il 23-25 ottobre; andrà invece in Libano. Secondo Le Monde, gli israeliani non gli hanno dato il permesso di entrare a Gaza (3). Dove Kouchner doveva inaugurare la ricostruzione dell’ospedale Al-Qods, distrutto dai bombardamenti giudaici, e per cui la Francia ha fornito i fondi. Per questo progetto umanitario, Sarko aveva ottenuto il placet personalmente da Netanyahu. Che  naturalmente si è rimangiato tutto (promesse talmudiche).

Anzi, dice sempre Le Monde, ora «Israele non è sicura della necessità di ricostruire l’ospedale. Fonti israeliane affermano che l’edificio è stato solo parzialmente danneggiato da un incendio propagatosi da un edificio contiguo» (chissà perchè, aveva preso fuoco sotto i bombardamenti al fosforo). Non basta: «Sembra che i diplomatici francesi abbiano difficoltà non solo ad entrare a Gaza, ma anche ad uscirne», riporta Le Monde: «Da diverse settimane il vice-console francese a Gaza, Majdi Shakoura, che deve venire in Francia per cure mediche, attende invano il permesso d’uscita dalle autorità israeliane».

Sion non fa mistero che questa è la risposta alla lettera di Brown e di Sarkozy: «Il tono della lettera era da ultimatum, ed ha molto irritato l’ufficio del primo ministro», ha dichiarato una fonte del medesimo ufficio. Dell’irritazione dei circoli occidentali,  appena un poco meno servili, l’ufficio del primo ministro non sembra darsi conto.

Avigdor Lieberman, il ministro degli Esteri razzista d’Israele, ha già cominciato la grande campagna di lobby. Ha scelto un bersaglio molle – Javier Solana, capo della politica estera della UE – e l’ha minacciato: Israele non può far progredire il processo di pace con i palestinesi finchè il rapporto Goldstone ha il sostegno internazionale.

«Ma di quale processo di pace stanno parlando? Non c’è nessun processo di pace. Il ministro degli Esteri non vuole nessuna pace»: così ha replicato Richard Goldstone, il giurista ebreo-sudafricano responsabile del Rapporto inviso ad Israele.

Verissimo: il ricatto è vuoto, dato che proprio Liebermnan ha dichiarato di non volere una sistemazione del problema palestinese.

Il fatto è che anche Goldstone, sionista appassionato, è esasperato dagli attacchi personali che riceve dalla lobby fanatica, dalle accuse di parzialità, e di essere un «ebreo che odia se stesso». E adesso, anche una parte degli ebrei americani, che si autonominano «J-street» (strada degli ebrei) sta criticando il comportamento israeliano, si rifiuta al richiamo alla disciplina etnica, ed espone una disillusione verso lo Stato sionista, mai prima espresso ad alta voce (4).

«L’immagine di Israele è peggiorata in modo pericoloso», lamenta Patrick Seale, un commentatore britannico esperto di Medio Oriente (5).

«Nella politica estera la reputazione conta. L’aura che una nazione proietta, la stima in cui sono tenuti i leader non sono meno importanti dell’armamento per difendere i suoi cittadini. E’ una lezione che Israele sembra aver dimenticato. Il suo spietato trattamento dei palestinesi, le ripetute aggressioni in Libano, il raid in Siria, le suo continue minacce belliche all’Iran hanno danneggiato orribilmente la sua immagine (...). Pochi fuori Israele, a parte la schiera dei duri sostenitori, che è in calo, sono  disposti a giustificare i suoi militaristi arroganti, i suoi “coloni” fanatici che rubano terre, i suoi politici razzisti. E i capi israeliani non danno segno di capire la gravità del  loro problema; anzi...».

Prendiamo la rottura con la Turchia, dice Seale. Erdogan ha cancellato un’esercitazione a cui doveva partecipare Israele, perchè Israele non ha fatto nulla per migliorare la situazione a Gaza. Israele ha risposto mettendo un embargo contro il caffè turco: sanzione comparabile, per stupidità, a quella con cui Bush volle punire i francesi chiamando le patatine fritte, che gli americani chiamavano «french fries», «freedom fries».

Offendere la Turchia non è cosa da poco, nota Seale: «E’ stato per anni il principale  partner strategico nell’area, anzi il solo. Perdere un simile alleato può diventare il peggior fallimento israeliano. L’esercito turco è il più grande dell’area, così come la sua base industriale. Il suo prodotto interno lordo, mille miliardi di dollari, è quattro volte maggiore di quello stesso di Israele. Recentemente la Turchia ha migliorato i suoi rapporti con l’Iran e con la Siria, e sta rivelandosi il grande fratello saggio del Medio Oriente. Si offre di mediare i conflitti locali e di diffondere attorno a sé stabilità e sicurezza» (6).

L’immagine di Israele è l’esatto contrario. Nei circoli diplomatici ci si chiede: Israele vuole veramente la pace? La sua «guerra di propaganda» contro il rapporto Goldstone – anzichè intraprendere un’indagine interna sui delitti commessi a Gaza  dalle sue forze armate – fa una pessima impressione.

Soprattutto, Israele ha bisogno del presidente Obama, se vuole che dia il suo veto contro Goldstone nel Consiglio di Sicurezza. Eppure, «l’estrema destra israeliana e i suoi sostenitori neoconservatori in USA hanno sferrato un assalto frontale contro la politica di Obama, ossia la soluzione a due Stati. Per minare Obama non hanno esitato a montargli contro una campagna di odio: lo dipingono come un nazista, un musulmano e un antisemita».

Fino ad oggi, Obama ha cercato di persuadere anzichè minacciare, dice Seale: con l’Iran ha fatto progressi, con Israele ha trovato un muro.

«Israele deve riflettere: la pazienza di Obama non è infinita. Perdere la Turchia è una cosa, il rischio di perdere l’America è un’altra».

Naturalmente il regime israeliano sta facendo un altro calcolo: che fra meno di quattro anni Obama non ci sarà più, perchè non sarà rieletto ad un secondo termine: la lobby sta lavorando senza scrupoli a questo fine.

L’avvertimento di Seale mantiene tuttavia il suo valore. L’atteggiamento di Sarkozy e di Gordon Brown, per una volta non cedevoli ai suoi ordini, dovrebbe aver suonato un allarme nelle teste dei Netanyahu e dei Lieberman. Non era mai successo. Finchè a Washington c’è stato Bush, si sono piegati a tutto, Sarkozy ha fatto addirittura rientrare la Francia nella NATO.

Il mutato atteggiamento si può spiegare solo così: a Washington c’è un altro padrone, con un programma che (anche se Obama non riesce ad imporlo) le diplomazie occidentali stanno sostenendo.

Alla fine, anche Obama cederà. Gli USA metteranno il veto al rapporto Goldstone al Consiglio di Sicurezza, ed eviteranno ai capi israeliani di essere trascinati al tribunale dell’Aja. Ma è chiaro che il mondo, finchè resta Obama, non accetterà una nuova operazione «Piombo Colato» a Gaza.

L’inedita durezza di Londra e di Parigi è diretta precisamente contro Netanyahu e il suo governo, perchè disobbedisce troppo platealmente a Washington, e la sfida. A questo punto, la campagna d’influenza più ambiziosa nella storia della lobby – far modificare le convenzioni di Ginevra – ha davvero possibilità di successo?

Auguri.



1) Ron Bousso, «Israel wants law of war changed after damning UN Gaza report», AFP, 20 ottobre 2009.
2) Interessante sapere come hanno votato a Ginevra: contro il rapporto Goldstone, ossia secondo gli ordini sionisti, hanno votato USA, Italia, Ungheria, Olanda, Slovacchia e Ucraina. Contro le voglie di Israele hanno votato:  Argentina, Bahrain, Bangladesh, Bolivia, Brazil, Chile, China, Cuba, Egypt, Ghana, India, Indonesia, Jordan, Mauritius, Nicaragua, Nigeria, Pakistan, Philippines, Qatar, Russia, Saudi Arabia, Senegal, South Africa, Zambia. Astenuti: Giappone, Belgio, Messico, Corea del Sud, Norvegia, Bosnia. Gran Bretagna e Francia non si sono presentate al voto.
3) Laurent  Zecchini, «Les motifs de friction se multiplient entre France et Israel», Le Monde, 21 ottobre 2009.
4) Una  tribuna di questo nuovo orientamento di molti ebrei americani (che in maggioranza hanno votato Obama) è il sito del saggista Philip Weiss, «Mondowess».
5) Patrick Seale, «Irael’s dangerously battered image», Agence Global, 20 ottobre 2009.
6) Un nuovo atto dell’arroganza di Netanyahu: ha fatto sapere che non considera più la Turchia un mediatore «onesto e imparziale» nei colloqui informali che Israele sta tenendo con la Siria, sotto gli auspici di Ankara. La Siria ha risposto che accetterà come mediatore solo la Turchia. Sia la dipomazia tiurca sia quella siriana hanno replicato che «nessuna delle due crede che Israele sia interessata a far progredire i colloqui di pace, dato il rifiuto pubblico di Netanyahu di rilasciare le alture del Golan», appartenentialla Siria. Erdogan, nell’incontro con diplomatici siriani, ha ripetuto che Gaza «è un campo di concentramento con un milione e mezzo di prigionieri». Questa risposta viene considerata in Medio Oriente un altro scacco diplomatico per gli israeliani.

 

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