Due libri, usciti a circa
venti anni di distanza l’uno dall’altro, involontariamente, al di là delle intenzioni degli autori,
descrivono la parabola discendente dell’Occidente. Si tratta di: «La chiusura della mente americana»(1) di
Allan Bloom (1987) e «La Israel lobby e la politicaamericana»(2) di
John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt (2007). Quando il libro di Bloom uscì in
Italia, nel 1988 infuriava ancora la finta disputa politica tra democristiani e
comunisti: aderire ad un modello capital-socialista-cristiano oppure seguire le
orme dei Paesi del blocco comunista-sovietico. A casa nostra, alla base di
tutto il contendere politico-ideologico, dominava ancora il pensiero di Marx,
sia per accettarlo e tentare di attuarlo, sia per rifiutarlo. Comperai il libro
di Bloom agli inizi degli anni ‘90, su consiglio di un influente collega
universitario. Egli era convinto che in quella
lettura avrei trovato le risposte alle domande imbarazzanti che ponevo in
Facoltà circa l’evolversi della nostra università verso miseri destini. Ma sino
a questa estate del libro, un «mattone» di 373 pagine, ero riuscito a leggere solo qualche
brano.
Come è scritto nei risvolti di copertina: «… per mesi al
primo posto nelle classifiche dei libri più venduti in America, al centro di polemiche clamorose sulla
stampa di tutto il mondo e in particolare di quella italiana, ‘La chiusura della mente americana’ è una feroce critica ai valori intellettuali
e morali della nostra epoca da parte di un professore di filosofia politica
dell’Università di Chicago, Allen Bloom, membro del così detto gruppo
dei ‘Chicago Boys’, i supercervelli d’America guidati da Saul Bellow».
In Italia il libro non ebbe
un grande successo di vendite. Per le sinistre il libro aveva la colpa di non
mostrare le contraddizioni di fondo che essa allora imputava al sistema
capitalistico americano, con il suo
individualismo maniacale. Il contenuto era stato classificato come «conservatore» e questo era già sufficiente a renderlo inviso alla
nostra compatta schiera di intellettuali di sinistra.
Per il centro (la destra in quegli anni era ancora innominabile) il libro
avanzava critiche inopportune
al Paese guida dell’Occidente. Trascorso poco più di un decennio, con la caduta
del muro di Berlino e con il tramonto definitivo del miraggio di un mondo diventato tutto comunista,
anche la sinistra italiana si sarebbe unita al coro di laudi rivolte al grande «amico»
americano. Ci sarebbe stato uno scambio di ruoli perché una parte della destra
sarebbe diventata sempre più critica verso la politica d’oltre Atlantico. Avendo
trovato nel libro qualche spunto sull’architettura americana antecedente al
ciclone del modernismo, questa estate, con venti anni circa di ritardo, ho
letto l’opera di Bloom. Il premio Nobel per la letteratura (nel 1976) Saul
Bellow (1915 - 2005) ne scrisse la prefazione. Ben radicato nella realtà
quotidiana americana, l’ebreo Bellow in queste sue pagine riesce a parlare
quasi solo di se stesso. Bellow non ha scritto molti libri e la critica non gli
è stata sempre favorevole; eppure le giurie dei premi letterari sembra che invece
gli siano state molto favorevoli. Le sue opere, oltre al Nobel, hanno vinto ben
tre volte il National Book Award, il premio Pulitzer e Bellow è stato il primo americano a vincere il Premio
Internazionale per la Letteratura (ci sarà qualche coincidenza con l’essere
ebreo?).
Le poche righe rivolte all’opera di Bloom si sintetizzano in questo
breve estratto: «Il fulcro del
ragionamento del professor Bloom è che l’università, in una società governata dalla pubblica opinione, avrebbe dovuto
essere un’isola di libertà
intellettuale, dove tutte le opinioni
venivano prese in esame e senza restrizioni. Nella sua generosità, la democrazia liberale lo ha reso possibile, ma accettando di giocare un ruolo attivo o ‘positivo’, di partecipazione nella società, l’università è stata inondata e saturata dal
riflusso dei problemi della società stessa… La gente ‘dentro’ l’università è sempre più identica, per desideri e motivazioni, alla gente di ‘fuori’. E’ questo che per me dice Bloom e se facesse
soltanto un’affermazione polemica
sarebbe abbastanza facile sbarazzarcene. Quello che invece lo rende
estremamente serio è l’accurato bagaglio
storico che accompagna la sua tesi. Egli spiega con un’ammirevole padronanza della teoria politica, che cosa intendevano Machiavelli, Hobbes, Locke, Rousseau e gli altri filosofi dell’Illuminismo…». Infatti la cultura politica americana,
prima dell’arrivo del pensiero
tedesco all’epoca della repubblica di Weimar, era congelato al periodo antecedente la
Rivoluzione Francese.
L’opera di Bloom (1930 -
1992) che inizia il suo libro così: «Il docente, in particolare quello dedito all’educazione liberale, deve continuamente cercare nell’insegnamento la completezza umana e indagare
la natura dei suoi studenti qui ed ora… Essenza di questo atteggiamento è l’attenzione ai giovani, sapere quello di cui hanno bisogno e quello
che si può loro dare. Non esiste una vera educazione che non corrispondaa un’esigenza sentita… Particolarmente rivelatori sono i vari impostori la cui attività è
sedurre i giovani. Questi ambulanti della cultura hanno un fortissimo motivo
per scoprire le motivazioni dei giovani - perciò sono utili guide nei labirinti
dello spirito dei tempi».
Bloom
quindi è pragmatico, giustamente è realista ed è aperto al contributo anche
degli impostori pur di far breccia nell’anima dei giovani. Negli anni che sono
seguiti, l’educazione dei giovani nei Paesi occidentali sarà sempre più
affidata ai messaggi trasmessi dal cinema e più ancora
dalla televisione. I vari impostori prenderanno il sopravvento
sull’insegnamento della scuola. Di questa realtà Blomm ha la percezione ma
spera che i giovani arriveranno alla maturità lasciandosi alle spalle i cattivi
maestri. Si tratta di una speranza non certo di una certezza. Lo strumento principe
per sedurre i giovani è la musica e nel capitolo ad essa dedicato leggiamo: «Quando
accendono la televisione, i ragazzi americani vedono il presidente Reagan che stringe calorosamente la mano
guantata di Michael Jackson, graziosamente offerta, e lo elogia
con entusiasmo».
E’ di quest’anno la
fine di Jackson, morto in una cornice di depravazione e di droga. In quegli
anni era agli inizi folgoranti tra una massa di giovani che lo applaudivano e
che avrebbero voluto imitarlo. «… (per lo
studente) Il suo uso della droga si fermerà certamente all’erba. La scuola
gli fornisce valori reali e lo storicismo popolare darà la salvezza finale… la
vecchia generazione non è là per imporre i suoi valori, ma per aiutare quella dei giovani a trovare i propri».
All’inizio del capitolo sulla musica leggiamo: «Sebbene non
abbiano libri, gli studenti hanno... la musica. Niente è più singolare, a proposito di questa generazione, della sua assoluta dipendenza dalla musica.
Questa è l’epoca della musica e degli stati d’animo che l’accompagnano. Per trovare l’equivalente di questo entusiasmo, bisognerebbe tornare indietro di almeno un
secolo, alla Germania ed alla
passione per le opere di Wagner. Queste erano recepite con la religiosa
convinzione che Wagner stesse creando il significato della vita... Oggi, una grandissima percentuale di giovani tra
i dieci e vent’anni vive per la
musica… La musica deinuovi fedeli...
non conosce né classe né nazione. E’
a disposizione ventiquattro ore al giorno, dovunque… Il potere che la musica ha sull’anima… è stato riscoperto dopo un lungo periodo di disuso. Ed è stata
la sola musica rock che realizzato questa restaurazione. Tra i giovani la musica
classica è morta… La musica rock è indiscussa e non problematica… pochissimi
hanno familiarità con la musica classica… una volta i miei studenti conoscevano la musica classica più di me… la
cultura musicale romantica in America aveva avuto il carattere di una impiallacciatura, facilmente
soggetta al ridicolo… non è stata prodotta alcuna musica classica che riesca a
parlare a questa generazione».
Questo
è la conseguenza di una felicità
concepita come evasione, fuga dai problemi della vita, questo è alla base della
necessità della droga: la felicità artificiale per via chimica. Infatti Bloom
scopre l’analogia tra musica moderna e droga e la denuncia.
«La musica dà
un’estasi prematura e, da questo
punto di vista, è come la droga con
la quale è alleata. Induce in modo artificiale l’esaltazione che naturalmente è legata all’adempimento dei più grandi sforzi - la vittoria in una guerra giusta, l’amore
consumato, la creazione artistica,
la devozione religiosa e la scoperta
della verità… Nella mia esperienza,
per gli studenti che avevano avuto gravi problemi di droga - e che ne erano usciti - era difficile entusiasmarsi
o avere grandi speranze… Il piacere che avevano provato all’inizio era
stato così intenso che non lo cercavano più alla fine o come fine… La loro
energia si era prosciugata e dalla loro vita futura si aspettavano solo di avere
di che vivere… Ho il sospetto che l’intossicazione da rock, specialmente quando mancano altri interessi forti, abbia un effetto simile a quello della
droga… finché (i giovani) hanno un
Walkman sulle orecchie, non possono
sentire ciò che la grande tradizione ha da dire. E dopo un uso prolungato, quando si tolgono il Walkman, scoprono di essere diventati sordi».
Eppure questi giovani dovrebbero
essere consci di essere i fortunati eredi di periodi storici tormentati e difficili, dove è nato il
loro benessere materiale. «Immaginate un tredicenne seduto nel soggiorno della
sua casa a fare i compiti di matematica mentre ascolta la sua musica preferita
dal suo Walkman… Gode delle libertà conquistate nei secoli a prezzo dell’alleanza tra il
genio filosofico e l’eroismo politico,
consacrate dal sangue dei martiri; gode delle comodità e del tempo libero che
gli offre l’economia attuale; la scienza ha penetrato i segreti della
natura per offrirgli i migliori suoni e riproduzioni di immagini elettroniche…
E in che cosa culmina il progresso? In un ragazzino nella pubertà il cui corpo
vibra con ritmi orgasmici; le cui sensazioni sono espresse in inni alla gioia dell’onanismo e dell’uccisione dei genitori; la cui ambizione è conquistare fama e ricchezza, imitando il
travestito che fa la musica. In breve la vita è diventata una fantasia di
masturbazione non-stop, commercialmente
preconfezionata».
Bloom esamina poi il quadro
dell’America politica inserita nel mondo attuale.
«… dopo la guerra, mentre l’America diffondeva i suoi blue jeans per
unire i giovani di tutte le nazioni, una
forma concreta di universalismo democratico che aveva avuto effetti liberatori
su molte nazioni in schiavitù,
importava una veste per la sua anima, di
produzione tedesca, che era in
contrasto con tutto ciò e metteva in dubbio l’americanizzazione del mondo che noi avevamo intrapreso, pensando che ciò fosse bene e conforme ai
diritti dell’uomo. Il nostro profilo intellettuale era stato alterato da pensatori tedeschi
ancor più radicalmente di quanto lo sia stato il nostro profilo fisico da parte degli
architetti tedeschi. Anche Mies van der Rohe era uno sconosciuto a Chicago
prima di avere l’occasione di costruire e il Bauhaus è un altro prodotto di Weimar, strettamente collegato alle correnti di
pensiero che facevano capo a Nietzsche e a Heidegger». «Non è raro
che una nazione con un’intensa vita intellettuale eserciti una
grande influenza su nazioni meno dotate,
anche se gli eserciti di queste ultime sono potentissimi. I casi più lampanti sono l’influenza della
Grecia su Roma e della Francia su Germania e Russia. Ma è proprio la differenza
tra questi due casi e l’esempio di
Germania e Stati Uniti che rende quest’ultimo
caso tanto problematico. La filosofia greca e quella francese erano universali
nelleintenzioni e nei fatti.
Facevano appello all’uso di una
facoltà potenzialmente posseduta da tutti gli uomini in qualunque tempo e
luogo... La vita buona e il regime giusto che essi insegnavano non conoscevano
limiti di razza, nazione, religione… La vera definizione della
filosofia era questa relazione con l’uomo in quanto
tale. Ne siamo consapevoli quando parliamo di scienza e nessuno parla
seriamente di fisica tedesca,
italiana o inglese. E quando noi americani parliamo seriamente di politica, intendiamo che i nostri principi di libertà
e uguaglianza e i diritti che si basano su di esse sono razionali e applicabili
ovunque. La seconda guerra mondiale fu
in realtà un progetto educativo avviato per costringere ad accettare questi
principi a coloro che non li accettavano… Lo storicismo ha insegnato che la
mente si collega essenzialmente a storia e cultura. Secondo gli ultimi filosofi tedeschi la
Germania è parte essenziale di essi… L’America scelse un modo di guardare le cose
che non le apparteneva e come punto di partenza aveva l’avversione per tale nazione e i suoi scopi.
Si riteneva che gli Stati Uniti fossero una non cultura… Il desiderio americano di cose tedesche era
la prova che non potevamo capirle… lo storicismo radicale di Nietzsche rendono
il caso tedesco l’opposto di quello greco. Dato il nostro esasperato universalismo illuministico niente
potrebbe essere più sgradito a Nietzsche e a Heidegger del nostro abbraccio».
Prima di arrivare a questo punto Bloom si era
lungamente soffermato sulla influenza
capillare esercitata dal pensiero tedesco su quello americano, influenza che si sviluppò
dopo la prima guerra mondiale, prima che il nazismo andasse al potere. Poi
Bloom descrive le forme concrete, come l’architettura dove si manifestava il
pensiero americano prima della «contaminazione»
operata da quello tedesco. Egli critica l’influenza tedesca senza accorgersi che
in quella influenza si è inserita una specie di «ebraismo di ritorno», l’ebraismo
che era cresciuto in Europa dopo che gli Stati Uniti si erano distaccati dalla
storia europea, dopo che essi
avevano iniziato il loro cammino a partire dai principi che avevano preceduto e animato quella
che è stata la grande svolta del pensiero europeo costituito dalla Rivoluzione Francese. Bloom
aveva in mente lo spirito americano originale, dove peraltro l’ebraismo dei
primi ebrei immigrati aveva trovato sin dalle origini degli Stati Uniti un
posto di rilievo contribuendo a formare l’eredità trasmessa dai «padri fondatori».
Bloom apparteneva a questa corrente di ebraismo americano autoctono.
Ecco finalmente il brano che riguarda l’architettura
«Avevo quindici anni quando vidi per la prima volta l’Università di
Chicago e sentii in qualche modo che avevo scoperto la mia vita. Non avevo mai
visto prima... edifici palesemente riservati a uno scopo superiore, non a necessità o utilità, non semplicemente per proteggere, produrre o commerciare, ma qualcosa che poteva essere un fine in sé…
Erano senz’altro edifici in falso gotico. Nel corso della mia educazione ho imparato che
erano falsi e che il gotico non è proprio di mio gusto. Ma aprivano una strada
di apprendimento che porta al luogo di incontro dei grandi uomini. Là si trovano esempi di una specie che
non è facile incontrare, ma senza quegli esempi non ci si rende conto delle
proprie capacità, né di come sia meraviglioso poter appartenere a quella specie. Questa imitazione di
stili di terre e tempi remoti manifestava la consapevolezza di come la sostanza
espressa da questi stili fosse in realtà un po’ misera e di
come non esistesse neppure rispetto per quella sostanza. Quegli edifici erano
un omaggio alla vita contemplativa da parte di una nazione più di ogni altra
dedita alla vita attiva. Già allora lo pseudogotico era messo molto in ridicolo
e oggi nessuno costruisce più in quel modo. Non è autentico, non è espressione di ciò che siamo, così si diceva. Per me invece era ed è
espressione di ciò che siamo. Ci si chiede se le critiche colte avessero la
consapevolezza di ciò che siamo, con le nostre vere esigenze spirituali, pari a quella del ricco che pagò quegli
edifici. L’America è proiettata verso
il futuro e ai suoi occhi la tradizione sembra più una pastoia che una ispirazione. Ma le reminiscenze e gli insegnamenti del
passato sono l’unico meccanismo di controllo del popolo americano mentre sbanda lungo il
suo cammino. Quei disprezzati milionari che edificarono una università nel
cuore di una città, che sembra dedita soltanto ai fini americani (quindi industriali e mercantili), pagavano un tributo a ciò che avevano
trascurato, vuoi per un senso di ciò
che avevano perso, vuoi per cattiva
coscienza circa gli scopi della loro vita,
vuoi per la soddisfazione di vedere i propri nomi nella lista dei finanziatori…
Tutta la cultura era una cosa americana, non solo la
cultura tecnica».
In tutto il libro
solo queste poche righe parlano di architettura, ma sono importanti. Ci
spiegano perché gli stili che cercavano di riprendere il passato ebbero tanta
fortuna alla fine del XIX secolo ed agli inizi del successivo: erano un modo per avvicinarsi
allo spirito dei grandi personaggi. Anche se erano il simbolo di una cultura
radicata nel passato, erano il luogo di incontro con il pensiero sempre vivo
nella sua eternità immutabile. L’imitazione di stili di terre e tempi remotiera un omaggio alla vita contemplativa… per me era ed
è espressione di ciò che siamo, dice Bloom. Gli edifici in stile gotico erano una lezione di
storia, di letteratura e di filosofia scritta nella pietra. Erano l’evocazione
di un mondo dello spirito e del ricordo contro la dissacrazione stupida e
volgare di un nuovo senza storia, immerso in un presente congelato in una morte
perenne.
Uno sguardo al dibattito suscitato dal libro di Bloom
«La chiusura della mente americana» fu pubblicato nel 1987, cinque anni dopo che Bloom
aveva pubblicato su The National Review un saggio che riguardava il fallimento
delle università nel soddisfare i reali bisogni degli studenti. Con
l’incoraggiamento di Saul Bellow, suo collega all’università di Chicago, egli
raccolse le sue riflessioni in un libro il cui contenuto si riassume nella
frase «attorno ad una vita, che ho vissuto». I suoi amici e ammiratori pensarono che il libro
avrebbe avuto un successo molto modesto, come pensò lo stesso Bloom, che fece
presente le sue scarse capacità nel completare il progetto editoriale. Bloom
critica la filosofia analitica trasformata in corrente
ideologica; «i professori che appartengono a questa corrente non vogliono e non possono parlare di qualsiasi argomento
importante, ed essi stessi non conducono uno stile di vita che possa essere
identificato con quello di un filosofo davanti ai loro studenti».
In gran parte la critica di
Bloom ruota attorno alla sua convinzione che i grandi libri del pensiero occidentale
sono stati ridotti a compendi di saggezza. Gli americani sono del tutto
incapaci di mettersi in discussione. Bloom lo sa e quindi ha cercato di farlo
con moderazione, altrimenti nessuno lo avrebbe letto. Il
libro incontrò un certo favore della critica. L’erudito conservatore William
Kristol scrisse sul Wall Street Journal «nessun altro libro è insieme così
piacevole e così profondo, così arguto e così ricco di idee». Nel 1989 un articolo di Ann Clark Fehn («The German Quarterely», volume 62, numero 3, Focus: Scritti letterari dal 1945 - estate 1989) discusse le critiche ricevute
dal libro, notando che esso aveva eclissato tutti gli altri titoli di
quell’anno riguardanti l’insegnamento superiore. Su Publisher’s Weekly Ann
Clark riportò una sintetica definizione del libro di Bloom come un «best-seller creato dai critici». Dopo circa dieci anni dalla
pubblicazione del libro Camille Paglia lo indicò come «il primo colpo sparato contro la cultura della guerra». Il noto scrittore Noam Chomsky dichiarò invece che
il libro era pensiero
storditamente stupido. Andrew Sullivan ha scritto
nel 2000 su The New Republic che «leggendo
Bloomuno scopre che egli non solo ha
compreso Nietzsche; egli si è imbevuto del suo pensiero. Ma a differenza di
Nietzsche questa sua consapevolezza del baratro ha spinto Bloom verso l’amore
ed una politica di sopravvivenza (di conservazione). Amore per la verità o per
gli altri, poiché questo ci può sollevare dall’abisso. Una politica di
conservazione che meglio può limitare il caos che la modernità attraversa». Il libro per 10 settimane è stato il best seller
numero uno. Il Presidente Reagan invitò Bloom alla Casa Bianca; Margaret
Thatcher discusse con lui di filosofia.
Marina Valensise ci parla con passione dell’amicizia tra
Bloom e Bellow
Riporto gran parte
dell’ottimo articolo di Marina Valensise (3)
su Bloom e su Bellow:
«La loro era un’amicizia vera, nel senso nobile che Platone e Aristotele davano al termine, per distinguere una comunità di uomini in
cerca della verità dall’accidentale
intimità tra individui mossi solo dall’utile
o dal piacere. S’erano conosciuti a
Chicago nel 1979, dove entrambi erano
finiti a insegnare all’Università.
Saul Bellow aveva all’epoca 64 anni.
Allan Bloom, 49. Ma la differenza d’età
funzionava al contrario: il vero
mentore era il più giovane, mentre il
più vecchio se ne considerava il discepolo. Avevano preso a frequentarsi
intensamente sin da subito, legati
dalla comune origine ebraica - figlio di ebrei russi fuggiti da San Pietroburgo
Bellow, ebreo americano di Daytona, nell’Ohio, Bloom. Bellow aveva già
scritto i romanzi che lo resero famoso (‘Le Avventure di Augie March’, ‘Herzog’, ‘Il Dono di Humboldt’) e aveva
già vinto il Premio Nobel per la letteratura. Bloom aveva tradotto l’Emile di Rousseau, la Repubblica di Platone, aveva studiato la politica nei drammi di
Shakespeare, aveva già insegnato a
Yale, Cornell e Toronto, ma nel mondo accademico era
considerato un paria, un eccentrico, uno snob, addirittura un conservatore. Era odiato da liberali e radicali, perché cresciuto alla scuola di Leo Strauss, l’ultimo
filosofo classico dei tempi moderni, che
in nome del diritto naturale combatteva il relativismo, lo storicismo
e il nihilismo contemporanei. Bellow e Bloom abitavano a pochi isolati l’uno dall’altro, nel quartiere di Hyde
Park. Passavano interi pomeriggi a
chiacchierare, dopo pranzo, nei salottini del Quadrangle Club, edificio neogotico e tovagliette a quadri bianchi e rossi. Per chi
veniva dall’Europa costituivano un’attrattiva irresistibile nella desolazione
del Midwest, fra inverni gelati a 40
gradi sottozero ed estati torride. Un centro d’irradiazione di idee profonde e alta cultura, un seminario spontaneo e permanente sulla grandezza e le miserie dell’umanità; la psiche dell’americano medio messa a nudo, le
bizzarre distorsioni del culto dell’eguaglianza
e della libertà, e l’Eros, che per Socrate era il centro dell’anima, il daimon offerto dagli dei per compensare la perduta pienezza dell’umanità, come insegnava Platone nel Simposio. La sera si ritrovavano insieme
per un aperitivo ai Cloisters, in
Dorchester Avenue, dove Bloom viveva
in un appartamento al 12° piano,
inondato di luce e musica di Verdi e di Rossini, con le foto di
Kissinger, Reagan e la Thatcher… il
divano in pelle nera con accanto la postazione telefonica degna di un dirigente
del Pentagono, da cui tesseva le infinite
sue trame di informazioni,
pettegolezzi, notizie più o meno
riservate, con gli ex allievi e buoni
amici sparsi per il mondo a trattare la grande politica: da Francis Fukuyama ad Alain Besançon, da Pierre Manent a Harvey Mansfield, da Thomas Pangle a Pierre Hassner. Sullo
sfondo, la dottrina hegeliana della fine della storia, la teoria repubblicana di Machiavelli nei Discorsi sulla prima Deca di
Tito Livio e la virtù secondo Montesquieu, scopritore della libertà inglese. Bellow passava in rassegna vizi e
virtù, sogni e illusioni, drammi e pochezze della sua ultima moglie.
E raccontava gli eccessi del ‘politically
correct’ di cui era preda l’Università… (dove venivano comminate) feroci sanzioni morali agli europei in
visita che volevano andare a sentire la messa cantata dei neri, come se il gospel fosse uno zoo… riflettere
sul tortuoso cammino dell’Eros,
la fine delle grandi passioni e il tormento che patisce l’animo umano quando l’emancipazione democratica trionfa e detta l’eguaglianza tra i sessi. Forse era stato
proprio in una sera come quella, al
lume di candela del Flamingo, che
Bellow diede a Bloom l’idea che l’avrebbe fatto diventare ricco e famoso. ‘Perché non scrivi un libro per denunciare le carenze di un’educazione progressista che oggi ai giovani
dà solo l’illusione di conoscere le cosiddette scienze umane, senza
minimamente prepararli alla vita?’. Bloom
alzò il capo, segnato da calvizie
geologica, fissò Bellow dal fondo dei
suoi occhi scuri, infossati sotto i sopraccigli
ad arco… spense la sigaretta a metà nel portacenere e disse: ‘It’s
a great idea’. Il libro lo scrisse in
pochi mesi e fu un best seller. ‘The
Closing of the American Mind’ ovvero
‘Il tramonto dello spirito americano’ uscì nell’aprile dell ‘87 e vendette un milione di copie. Tradotto in tutto il mondo, anche in Italia (pubblicato da Frassinelli),
era un pamphlet denso e divertito, implacabile e dolente contro l’imperversare
del ‘nihilismo debole’, versione americana della filosofia di Friederich Nietzsche e di Martin
Heidegger, una messa in guardia contro il culto di Michael Jackson fra le giovani
generazioni e una certa tristezza degli animi seguita alla liberazione dei corpi. Bellow aveva scritto una
prefazione nel suo solito stile sottotono, sobrio ma partecipe: ‘Professor Bloom is a front-line fighter in
the mental wars of our times’, insomma
lo lodava come combattente di prima fila delle guerre intellettuali del tempo.
Bloom lo ringraziò durante uno dei suoi viaggi a Parigi con una cena luculliana
al Lucas Carton in Place de la Madeleine in onore suo e della sua ex allieva
Janis Freedman, divenuta nel
frattempo la quinta moglie dello scrittore e ora anche la madre della sua
ultima figlia. Oltre che complici ideologici, Bellow e Bloom erano veri amici. Parlavano di tutto, si scambiavano tutto. Non era stato Bloom a
far capire a Bellow l’assurdità del
suo precedente matrimonio, con quella
famosa signora sempre impegnata in convegni, congressi, conferenze e così assorta nei suoi pensieri da non aver mai tempo per mettere a posto la spesa?… Bellow
si convinse che… Bloom aveva proprio ragione. E divorziò. Passarono insieme, parlando, ridendo, scherzando gli ultimi anni della vita di Bloom, che finalmente ricco e famoso, poteva vivere all’altezza dei suoi mezzi e abbandonarsi al piacere del lusso e delle
spese inutili e sontuose. Era afflitto da uno strano disturbo neurovegetativo, ma continuava a irradiare intorno a sé
intelligenza e allegria e s’era addirittura messo a dettare il suo testamento
spirituale, un libro sull’amore e
l’amicizia (‘Love and Friendship’, Simon and Shuster, 1993) mai tradotto in
italiano, sebbene offrisse una summa
ragionata dell’amore romantico
attraverso le opere di Jean-Jacques Rousseau e i grandi romanzieri dell’800, Stendhal, Jane Austen, Flaubert e
Tolstoj. ‘Ti servirà a emanciparti da
me’. Prima di morire nel ‘92, Bloom chiese a Bellow di scrivere la sua biografia: ‘Più che una richiesta è un obbligo. Ti servirà a emanciparti da me’. Bellow però
fece passare qualche anno, lui stesso
aspettò la propria morte, la vide
arrivare alla sprovvista dentro un pesce velenoso dei Caraibi, la evitò per un pelo grazie alla medicina e
all’amore della giovane moglie, e solo allora decise di mettersi a scrivere
la vita dell’amico, facendone un
romanzo. Ravelstein, la storia di un
amico vero, ebreo, filosofo della politica, intriso di Tucidide e Platone, di Mosé e Maimonide, autore di bestseller, malato di Aids e ancora innamorato della
vita e fino allo stremo delle forze incline all’Eros e alle sue leggi imperiose. Il critico Giovanni Raboni e gli
scrittori Giorgio Montefoschi e Mario Fortunato, forse convinti che si trattasse di pura fiction, hanno tralasciato l’aspetto documentario del romanzo. Questa
però è la storia di un’amicizia che
ebbe vita effettiva e dettagliata, ma anche
romanzesca, al punto che Martin Amis
la sta già raccontando in un libro che si chiamerà ‘Experience’. Saul Bellow si è
pentito dell’outing sull’omosessualità e l’Aids di Bloom, incertezze
esistenziali in un romanzo che è l’ultimo vero tributo a un complice
straordinario che non si vuole lasciare andare via».
La cultura dell’arte e delle lettere e la cultura della
tecnica e della scienza
Il problema centrale
sollevato da Bloom circa il rapporto tra cultura artistica e filosofica e
cultura tecnica si era già posto sin dall’inizio della nascita dell’industria.
A metà del XIX secolo De Sanctis ebbe l’incarico di Letteratura Italiana al
Politecnico di Zurigo. Come Bloom De Sanctis si era trovato a rappresentare la
cultura storica, letteraria e filosofica dentro il mondo della scienza e della tecnica. Ma i
tempi erano molto diversi. Oggi consideriamo encomiabile che un Politecnico di Ingegneria
come quello di Zurigo avesse istituito un corso di Letteratura Italiana. Da un libro (4), che scrissi nel 1975, «La stagione conviviale», è interessante leggere oggi la prolusione che il De Sanctis,
nel 1856, tenne agli studenti per il secondo anno del corso all’Istituto Politecnico di
Zurigo… «Scrivendo all’amico De Meis, De Sanctis, parlando dei suoi
studenti, dice: ‘Questi miei bravi discepoli credevano di non
potere meglio testimoniarmi la loro attenzione, che con una perfetta immobilità; mai un chinare di capo, un
segno qualunque di approvazione»…
I miei studenti (del corso di Fisica per ingegneri nel 1972) invece
qualche gesto lo facevano, dopotutto dagli studenti di Zurigo del 1856 c’era
qualche differenza. Eppure per quanto riguardava la comunicazione tra me e loro
all’inizio avrei potuto descriverla usando le stesse parole del De Sanctis.
Iniziai parlando dell’evoluzione del pensiero scientifico, raccontando di come gli
scienziati teorici e quelli sperimentali vedano le cose del mondo fisico da
punti di vista diversi e di come infine si pervenga ad accettare per buona una
teoria, vale a dire una certa
interpretazione del mondo fisico (o meglio di una sua parte), che risulta
essere in migliore accordo con la tirannia assoluta della realtà sperimentale.
A queste mie argomentazioni, che ritenevo essere acute e stimolanti, seguì da
parte degli studenti solo qualche barlume di interesse, che mi parve di
scorgere nel loro immutato mutismo. Si trattava di riflessioni non tecniche, possiamo definirle
tratte dalla filosofia della scienza. Non ottenni risultati degni di nota
neppure quando con enfasi espressi l’opinione che la Scienza non avrebbe mai
appagato la loro sete di conoscere l’essenza delle cose che li circondano, essendo
la nostra Scienza rivolta soprattutto ad utilizzare la
natura, a servirsi della realtà fisica, non a scoprirne l’essenza profonda. Posi l’accento sul
fatto che la Scienza ricostruisce il reale utilizzando modelli matematici con i quali compie
previsioni per poter permettere agli ingegneri di costruire macchine e processi. I
modelli sono accettati sino a che si comportano in modo del tutto simile al
mondo reale…
Ben diversa fortuna sembra sia arrisa, in altri tempi, al buon De
Sanctis, che iniziò la sua prolusione con
queste alate parole: «Il giorno in cui dò principio alle mie lezioni, soglio sempre
fare ai miei giovani un po’ di
discorso così all’amichevole, quasi preludio a quell’armonia intellettuale che a poco a poco si
andrà formando tra noi. E lo fò per iscritto, come uomo che pone molta cura nel suo abbigliamento la
prima volta che si deve presentare in una casa rispettata… Siate dunque i
benvenuti miei cari giovani: il vostro professore v’indirizza un affettuoso saluto’… ‘Secondo l’ordinamento dell’Università
Politecnica Federale, questi studi non sono obbligatori. Sono obbligatorie quelle
lezioni solamente di cui avete necessità per l’esercizio della
vostra professione: tutto l’altro è lasciato a vostra libera elezione…
In effetti, con le sole lezioni
obbligatorie, qualunque tu sii che te
ne possi contentare, tu non sei
ancora un uomo: tu sei, permettimi ch’io te lo dica, un animale
bello e buono. Un animale ragionevole, mi
risponderai, che sa la matematica, la fisica, la Meccanica. Certamente, e
perciò animale colpevole, che ti sei servito della ragione unicamente
a scopo animale. In effetti ditemi un po’, miei giovani, quando costui
avrà passata la sua giornata a lavorare per procacciarsi il vitto, empiutosi il ventre, inumidita la gola, fatta una
bella digestione; in che costui
differirà dal suo mulo o dal suo asino,
che anch’egli ha passato eroicamente
la sua giornata tra il lavoro e la mangiatoia ?».
…Oggi le parole del De Sanctis possono essere
giudicate almeno pericolosamente qualunquiste,
idealistiche, ma anche oggi siamo disposti a credere che la grandezza è nel coraggio di
affrontare la vita di ogni giorno cercando significati e valori nei veri beni
concreti di cui disponiamo: quelli dello spirito. «Un giorno confortavo alle lettere un mio
giovane amico di Napoli, il quale stette un pezzo muto a sentire le
mie belle ragioni; poi, come chi fugge a un tratto la pazienza: - Sai, disse, che ti credevo un po’
più uomo! Che diavolo! Bisogna ragionare. Credi tu che una terzina di Dante
mi possa togliere di dosso i miei debiti, o che tutti gl’Inni del Manzoni mi diano un buon desinare? Filosofia, Letteratura, Storia! A che pro? Per finire in un Ospedale? Oibò io studierò il
codice, farò un bell’esame e sarò
fatto giudice. Che bisogno ha un giudice di Dante o del
Petrarca?… E costui non aveva ancora diciotto anni!… Crebbe rozzo, salvatico, plebeo; divenne giudice; ed oggi, questa bestia togata divide il tempo tra le
condanne a morte, ai ferri, all’ergastolo
de’suoi stessi compagni, ed i buoni bocconi».
Non si lamenti poi troppo il De Sanctis; ai tempi nostri un discorso di tal
fatta porterebbe all’incriminazione per oltraggio alla Magistratura. Si
potrebbe dire che il quadro è completo e maledettamente attuale… «Voi siete in
un’età nella quale, impazienti
dell’avvenire, ciascuno se lo figura a sua guisa. Quali
sono i vostri sogni? Che cosa desiderate voi?Fare l’ingegnere? E’ giusto: ciò deve servire
alla vostra vita materiale. Ma e poi? Oltre alla carne vi è in voi l’intelligenza, il cuore, la fantasia, che vogliono essere soddisfatte. Oltre l’ingegnere vi è in voi il cittadino, lo scienziato, l’artista. Ciascuno si fa fin
d’ora una vocazione letteraria. Né mi
meravigliate. Poiché la Letteratura non è già un fatto artificiale: essa ha sede al di dentro di voi. La
Letteratura è il culto della Scienza,
l’entusiasmo dell’Arte, l’amore di ciò che è nobile,
gentile, bello; e vi educa ad operare
non solo per il guadagno che ne potete ritrarre, ma per esercitare, per nobilitare la vostra intelligenza, per il
trionfo di tutte le idee generose».
Molto tempo è passato da
quando concetti come questi potevano essere espressi impunemente in un’aula
universitaria. Ci sono state devastanti guerre europee, già si prevede il
tramonto dell’idea di nazione, che fu alla base di quelle guerre. I principi
fondanti della società sono stati più volte rovesciati, anche in brevi periodi
di pochi decenni e la mutevole coscienza dell’Umanità oggi già comincia
nuovamente ad avere idee vaghe circa la scelta tra la pace e la guerra, circa i
diritti delle genti. L’arte come
catarsi oggi non si giustifica e non gode di consenso. L’arte dovrebbe tornare
al servizio delle ideologie con le quali si identifica e si fonde. L’arte come contemplazione pura,
agnostica, sterilizzata da qualsiasi fede o ideologia, ma in realtà dipendente
da una rigida divisione di classe, legata ad una piramidale struttura sociale
resa laica al vertice, era l’arte secondo le idee in voga ai tempi del De
Sanctis. In breve era: l’arte per l’arte. Quei tempi avevano sancito una serie
di divisioni e di categorie: il lavoro che crea ricchezza e denaro ben separato
dalla contemplazione dell’arte… E’ in quei tempi che nacque e si consolida la frattura tra uomo di Scienza,
un uomo in realtà sempre più legato agli interessi della nascente industria, e l’uomo di
lettere, che finì per sentirsi a torto un umanista, mentre della completezza
dell’umanista rinascimentale aveva perso una componente essenziale: quella dell’indagine attorno alla realtà fisica. E’
in quel periodo che si creano le basi per l’alienante partizione dell’uomo proprio a causa del
moltiplicarsi dei mezzi (le macchine) a sua disposizione. Le parole del De
Sanctis si portano dietro una serie ancora viva di contraddizioni, che oggi
scontiamo e che non sappiamo come in futuro potranno essere risolte e superate.
Eppure… esistono alcuni valori messi in luce dal discorso agli studenti dell’Istituto
Politecnico di Zurigo… Il De Sanctis così prosegue: «Questo è ciò
ch’io chiamo vocazione letteraria;
e voi m’intendete, o giovani, voi ne’ quali l’umanità ogni volta si spoglia delle sue
rughe e si ribattezza a vita più bella».
Questa è la frase più felice
che abbia trovato in questa prolusione, la frase da cui appare tutto l’amore
sincero del De Sanctis per i giovani… In tempi come gli attuali, dove l’oscurità
della storia ed il rapido appassire dei ricordi, insieme all’incertezza del
futuro, rendono molto più difficile ogni eroismo che,
se proprio cercato, voluto e raggiunto, deve essere pagato ad un prezzo sempre più alto.
«Ben so che
molti oggi non hanno della letteratura la stessa opinione. Lascio stare coloro
che ne fanno una mercanzia e dicono:
‘Poiché in un secolo industriale e
commerciale siamo per nostra disgrazia letterati, facciamo bottega delle lettere’; e vendono parole, come altri vende vino e formaggio… A quello stesso modo che certi sostituiscono
oggi la civiltà alla libertà (forse voleva intendere la contrapposizione tra
il progresso, il conseguente arricchirsi, e la libertà), soddisfattissimi che loro si promettano
strade ferrate e traffici e industrie e qualcos’altro di sottinteso; così alcuni non osano di difendere la
letteratura per sé, e la nascondo
sotto il nome di cultura. Se raccomandano questi studi, gli è perché dilettano ed ornano lo spirito, compiono l’abbigliamento, vi fanno ben comparire… No, miei
cari. La letteratura non è un ornamento soprapposto alla
persona, è il senso intimo che ciascuno ha di ciò che è nobile e bello, che vi fa rifuggire da ogni atto vile e
brutto e vi pone innanzi una perfezione ideale, a cui ogni anima ben nata
studia per accostarsi».
Ecco
chiarito, ai tempi del De Sanctis, il significato della cultura e del
completamento dell’io, un completamento che si collocava entro una sfera ben
al di sopra dell’apprendere cognizioni tecniche necessarie per svolgere un lavoro o una
professione. Una conclusione che non è diversa dai desideri espressi da Bloom. Dopo
la lunga prolusione del De Sanctis ecco come si conclude invece un corso di ingegneria con le parole di
John Perry. Roberto Vacca, trattando il problema dell’educazione quale elemento
fondamentale per una trasformazione della società verso ragionevoli forme di
salvezza, cita John Perry che, passato alla storia, pare, per aver organizzato
l’insegnamento nei Politecnici giapponesi, parlando agli studenti del Finsbury Technical
College al momento di raggiungere il diploma, nel
1889 diceva:
«Alcuni di voi,
credo diventeranno eminenti nella matematica dell’ingegneria. Mi dispiace dire che molti di
voi non riusciranno a passare il nostro esame e non riceveranno il diploma. Ora
che state per lasciarci, vi posso
dire che questa faccenda del diploma non è così importante dopo tutto.
Penso che abbiate fatto del vostro meglio ed apprezzo quelli che saranno respinti agli
esami quasi quanto quelli che avranno successo. Ho avuta molta esperienza di uomini e so che
la corsa non è sempre vinta da chi è apparentemente più veloce. C’è una domanda
cruciale che dovete porvi. Vi piace l’ingegneria
meccanica in qualcuno dei suoi aspetti? Vi piace darvi da fare con cose
meccaniche? Avete cominciato in questo campo per consiglio dei vostri
genitori o proprio perché vi piaceva? Preferireste forse entrare nella carriera
ecclesiastica o in una banca, o avete qualche nostalgia per la legge o per la
medicina? Se è così questo è il momento di seguire il vostro istinto; non è troppo
tardi e la vostra educazione non andrà sprecata. Per quanto buoni siano stati i
vostri voti, smettete! Se, invece, vi piace l’ingegneria
meccanica, continuate malgrado ogni bocciatura».
Perry esprime concetti perfettamente coerenti con l’anima americana. La cultura
umanistica e quella scientifica e tecnica vengono presentate come se fossero la
stessa cosa. Egli sembra aver realizzato allora i desideri e gli obbiettivi,
che Bloom coltiverà più di un secolo
dopo come speranze.
Il professore Luca Ricolfi
recentemente (5) è tornato sul
degrado della cultura in Italia a causa del crollo del livello delle nostre
scuole, dalle elementari alle università. Ha ripercorso gli stessi temi sollevati
da Bloom e come Bloom ha glissato sulle cause più profonde che sono all’origine
del crollo. Ricolfi dice, parlando dei giovani:
«Non hanno perso solo la capacità di
esprimersi correttamente per iscritto. Hanno perso l’arte della
parola, ovvero la capacità di fare un discorso articolato, comprensibile… Hanno perso la
capacità di concentrarsi, di soffrire
su un problema difficile. Fanno continuamente errori logici e semantici, perché credono che i concetti siano vaghi e
intercambiabili… Banalizzano tutto quello che non riescono a capire».
Questo significa che il corso della
nostra civiltà si è interrotto, che diventa impossibile il dialogo tra le
generazioni; ciò ha conseguenze gravissime tra cui l’impossibilità di mantenere
la difesa militare dell’Occidente. Il vuoto nella cultura umanistica e storica
ci porta a fare guerre sbagliate che poi non siamo in grado di combattere. Neppure
l’arte si può salvare, anzi il suo clamoroso degrado è la dimostrazione più
evidente della nostra decadenza.
La Israel Lobby
Che cosa è successo nelle
università dopo la pubblicazione del libro di Bloom? Dal libro «La Israel
lobby e la politica estera americana»,
pubblicato venti anni dopo nel 2007, nel capitolo in cui si parla del mondo
universitario «Presidiare il mondo accademico», appare una realtà diversa da
quella presentata da Bloom, che aveva imputato il regresso della cultura umanistica
ai postumi del ‘68, all’invasione del pensiero tedesco e all’ingresso in massa
degli studenti di colore. A queste cause si era aggiunta anche la nascente
influenza della lobby ebraica a dare il suo contributo, ma di questo Bloom non
si era accorto.
Dicono Mearsheimer e Walt: «L’internazionalizzazione delle università
americane negli ultimi trent’anni ha
fatto affluire negli Stati Uniti studenti e professori nati
in altri Paesi, e spesso queste persone assumono, nei confronti della condotta di Israele, posizioni più critiche di quelle condotte
dagli americani… la più importante organizzazione a scendere in campo per
riconquistare le università fu l’AIPAC, la cui attività di monitoraggio dei
campus risale almeno agli anni settanta. Quando Israele cominciò ad essere preso di
mira, l’AIPAC aumentò di oltre tre
volte gli stanziamenti previsti per i programmi destinati ai college… All’inizio degli anni ottanta, …,
l’AIPAC reclutò un certo numero di
studenti perché contribuissero a identificare i professori e le organizzazioni
universitarie che potevano essere considerate anti-israeliane. I risultati
furono pubblicati, nel 1984, sul ‘The AIPAC College Guide:
Exposing the anti-israelian Campaign on Campus’. Contemporaneamente l’ADL, che stava compilando una serie di schede su organizzazioni e personaggi considerati sospetti nei
confronti di Israele, distribuì clandestinamente un volumetto con ‘informazioni
riservate sui simpatizzanti filoarabi attivi nei campus universitari’ che ‘usano
il loro antisionismo per mascherare il loro profondo antisemitismo’. Lo sforzo si intensificò nel settembre del
2002, quando Daniel Pipes creò Campus
Watch, un sito internet che conteneva
dossier su personalità accademiche sospette e che, mutuando una pagina dal manuale dell’AIPAC, incoraggiava gli
studenti a riferire commenti o comportamenti che potevano essere
considerati ostili a Israele. Questo palese tentativo di creare una lista di proscrizione, e di
intimidire gli studiosi, suscitò una
vivace reazione, in seguito alla quale Pipes rimosse i
dossier. Il sito, comunque, continua a invitare gli studenti dei college
americani a riferire circa comportamenti che potrebbero essere ritenuti anti-israeliani. La campagna di Pipes per soffocare le
critiche a Israele non si ferna qui. Insieme a Martin Kramer… E a Stanley Kurtz, …, Pipes ha cominciato a chiedere al Congresso
di tagliare, o almeno di controllare da vicino, il finanziamento che, in base al Titolo VI, il governo federale assegna alle principali
università per i programmi di studio sul Medio Oriente. Lo scopo è quello di ridurre al silenzio, o almeno, di inibire i critici di Israele, … La Legge sugli studi internazionali nell’istruzione superiore (House Resolution 3077), da loro caldeggiata, avrebbe istituito una commissione nominata dal governo
e incaricata di vigilare sulle istituzioni per gli studi internazionali
beneficiarie di fondi federale. …Se la legge fosse passata in questa forma, le università intenzionate a ottenere
sovvenzioni governative avrebbero ricevuto un chiaro incentivo ad assumere, …, elementi favorevoli all’attuale politica americana e tutt’altro che critica verso Israele. …La HR 3077
è stata approvata dalla Camera, ma
non è mai stata formalmente esaminata dal plenum del Senato… Una legge analoga
è stata reintrodotta nel 2005, ed è
passata alla Camera con strettissimo margine, ma, ancora una volta, il Senato non le ha dato via libera. …Per
contrastare ulteriormente quella che viene percepita come una deriva del mondo
accademico in senso anti-israeliano, alcuni
filantropi hanno avviato nelle università americane corsi di studio su Israele (in aggiunta ai circa 130 corsi ebraici già
esistenti), in modo da aumentare il numero degli studiosi ‘con simpatie
israeliane’ all’interno dei campus… Il desiderio della lobby
(ebraica) di presidiare il mondo
accademico ha dato vita a numerosi sforzi per mettere sotto pressione gli
amministratori o influenzare le scelte del personale. Nell’estate del 2002 i gruppi filoisraeliani
della University of Chicago dissero che ‘nel campus esisteva un’atmosfera
di intimidazione e di odio verso gli studenti ebrei’, e deprecarono che la facoltà e l’amministrazione non stessero facendo nulla per risolvere il problema.
Fu anzi detto che facoltà e amministratori ‘permettono o addirittura incoraggiano questi attacchi’. Colpita da queste affermazioni, l’amministrazione
raccolse tutte le lamentele degli studenti e avviò le indagini. Solo due accuse si rivelarono fondate: una scritta
antisemita nel dormitorio, non rimossa tempestivamente dal personale, e un’e-mail spedita a una mailing list del
dipartimento in cui uno studente raccontava una barzelletta su Auschwitz. Casi
deplorevoli, ma non certo prove ‘dell’atmosfera
di persecuzione e alienazione’ descritta
da uno studente ebraico della University of Chicago nel 2002. Malgrado ciò,
il console di Israele a Chicago e, in seguito, l’ambasciatore israeliano
negli Stati Uniti fecero un sopralluogo all’università, con l’obbiettivo di costringere il preside e il
rettore a migliorare l’immagine di
Israele all’interno del campus».
Le opinioni della gente non
si possono stabilire con leggi e imposizioni. Si ottiene come risultato odio e
risentimento che non potranno rimanere sempre nascosti. Questi episodi possono
accadere in un contesto di degrado culturale che Bloom ha ben descritto nel suo
libro. Anzi il degrado culturale è stato il
presupposto per poter instaurare il monopolio e lo strapotere ebraico
all’interno del pensiero americano.
«I gruppi e gli individui di orientamento
filoisraeliano hanno condotto una battaglia su più fronti, contro
studenti, professori, amministratori, … nell’intento di
condizionare il dibattito nei campus. Nel mondo accademico i loro sforzi non
hanno ottenuto gli stessi rusultati ottenuti in Campidoglio o con i media… l’attività di lobbying in favore di Israele è pienamente legittima… Noi riteniamo che l’attuale
influenza della lobby non giovi né agli interessi degli Stati Uniti, né a quelli di Israele, ma la maggior parte delle tattiche da essa
attuate sono ragionevoli e fanno parte delle normali contese che costituiscono
l’essenza della politica nelle
democrazie. Sfortunatamente, certi
soggetti filoisraeliani, …hanno in
qualche occasione, spinto la difesa di Israele oltre il limite
del lecito, cercando di ridurre al
silenzio chi la pensava in modo diverso. Queste sortite comprendono l’intimidazione e la calunnia dei critici di Israele
e persino il tentativo di danneggiare o distruggere la loro carriera. …tale
condotta in una società democratica non ha diritto di cittadinanza». Nessun americano è disposto ad affermare che sono proprio
alcuni meccanismi del suo sistema politico lo strumento con cui alcune minoranze ben organizzate
possono raggiungere il potere contro una maggioranza contraria o almeno assente.
Cinque secoli di coraggio dei parlamentari inglesi
Per varie cause il mondo
americano ha perduto la sua anima autentica. Le conseguenze sono molto gravi:
gli americani hanno smarrito la capacità di governare se stessi. In questa
condizione così precaria la minoranza ebraica, solidamente ancorata alle sue
tradizioni ed alla sua cultura, è rimasta quasi immune dal degrado generale ed
alla fine ha preso di fatto tutto il potere politico oltre che quello
economico. In un certo senso gli ebrei americani si stanno prodigando per sopperire alla mancanza di
idee e di forza degli esponenti politici che rappresentano il resto degli
americani, quelli non ebrei. Peccato che stiano esagerando e che dopo l’11
settembre abbiano attuato un colpo di Stato.
Quando nel 1987 uscì il libro di Bloom in America, ebbe un grande successo. Vendette circa un
milione di copie e l’autore ne ricavò fama, soldi e, come abbiamo visto, riscosse molte
critiche positive ed alcune negative. Bloom, tra i tanti riferimenti storici
non tutti pertinenti, avrebbe dovuto ricordare come gli inglesi arrivarono a
conquistare, ancora in pieno Medioevo, la Magna Charta. Per il mondo
anglosassone gli aspetti sociali che stanno
dietro questa conquista sono
ben più importanti dei riferimenti alla Grecia classica o al pensiero europeo
pre-illuminista.
La storia dell’emanazione di questo atto nel 1216 (noto come
Magna Charta Libertatum) racconta la conclusione dell’insanabile contrasto tra
la monarchia e l’oligarchia baronale, che
mirava a condizionare il dispotismo dei Plantageneti. I fatti hanno radici nel Medioevo. Dopo la
sconfitta patita in Francia da re Giovanni, i più potenti feudatari del regno,
sostenuti dall’arcivescovo di Canterbury, si erano riuniti in armi a Runnymede
allo scopo di indurre il re a desistere dalle continue violazioni della legge
feudale da lui perpetrate soprattutto mediante estorsioni in danaro. La Magna
Charta, redatta in 63 articoli, fu promulgata il 12 novembre 1216 e confermata
nel 1217 da Enrico III con una riduzione degli articoli. Nel 1255 il documento fu
promulgato nella forma definitiva e sancì quei principi che sono posti a
fondamento del diritto pubblico inglese. Nella Magna Charta era affermato il
principio
dell’habeas corpus, l’autodeterminazione
della Chiesa d’Inghilterra, il divieto di pretendere, da parte del re, alcuna
somma di danaro senza il consenso del Consiglio Comune del Regno, il principio che spettasse a un
tribunale composto da suoi pari il giudizio su un suddito. Volto originariamente a
ripristinare prerogative e diritti di ordine feudale, il documento espresse dei
punti qualificanti destinati, nei secoli successivi, a diventare il primo
elemento di un sistema costituzionale autenticamente
rappresentativo. Dopo secoli di storia si ebbe il trionfo del parlamentarismo britannico.
Con la caduta degli Stuart e dei Tory, che ne erano i naturali sostenitori, ci fu anche la
caduta della concezione dell’origine divina del potere dei re, dell’ideologia che fungeva
ancora da supporto delle altre monarchie europee.
In Gran Bretagna dal 1715 si
affermò definitivamente la teoria per cui il potere del re è moderato dal
Parlamento, che elegge un premier dotato di ampi poteri. Dal 1200 al 1700 i parlamentari inglesi affrontarono pressioni e intimidazioni
di ogni genere, ma rimasero fermi nel sostenere il principio dell’autorità
dell’assemblea degli eletti dal popolo. Il potere da allora si sarebbe fondato
sul principio di rappresentanza della volontà popolare, non sul prestigio dei
singoli. E i singoli erano «intercambiabili». Non fare eleggere uno di essi, o uccidere un eletto
non avrebbe modificato l’atteggiamento degli altri. La forza della democrazia è
anche nell’anonimato dei rappresentanti del popolo. Ecco perché muore una
democrazia in cui gli eletti sono condizionati dal desiderio ossessivo dei
singoli di venire eletti. Non esiste più una democrazia come espressione della volontà
popolare, come espressione delle scelte degli elettori, se gli eletti sono
condizionati dal controllo sui meccanismi elettorali esercitato da una
minoranza organizzata. Bloom non avrebbe dovuto dimenticarlo perché allora in
Inghilterra le pressioni violentissime esercitate sui parlamentari non
indebolirono la loro volontà di ottenere un documento di salvaguardia contro la
rapina fiscale del re e del governo da lui stesso nominato. Egli ricordò i
grandi pensatori greci e quelli pre-illuministici, che vivevano dentro sistemi
assimilabili ad una democrazia diretta, come ad esempio la Parigi del 1700, una
specie di città-Stato, come lo fu Atene, dove il controllo popolare sugli
eletti era possibile. Al contrario i parlamentari americani oggi non temono la disapprovazione
di chi li ha eletti ma tremano davanti al potere di chi decide i finanziamenti
alle loro campagne elettorali, che poi sono rivolte ad un pubblico più
sensibile alle apparenze spettacolari delle kermesse elettorali che non alle
argomentazioni politiche svolte dai candidati.
La politica spettacolo non è
certo la culla della democrazia, tanto più se lo spettacolo è di infima qualità
e ha come unico punto di merito essere costoso. Un vero sovvertimento della
democrazia era stato già attuato negli anni precedenti dall’AIPAC, che aveva
dimostrato di poter pilotare l’elezione dei candidati al Congresso favorevoli
ad Israele, ostacolando quelli contrari. La lobby ebraica aveva assunto un
ruolo fondamentale nella politica americana, vanificando le idee e le opinioni
degli americani. In questo modo la democrazia americana era diventata una
farsa. Eppure le lobby negli USA
sono perfettamente legali. Ma le crisi sociali e politiche non si risolvono con un libro, anche
se riscuote successo di critica e di pubblico, anche se scritto da un ebreo
onesto come Bloom.
Professor Raffaele Giovanelli
1) Allan
Bloom, «La chiusura della mente americana», in Italia uscito nel 1988 per l’editore Frassinelli.
2) John J.
Mearsheimer e Stephen M. Walt, «La Israel
Lobby e la politica estera americana»,
2007, uscito in Italia lo stesso anno negli Oscar Mondadori.
3) Marina
Valensise: «Bellow e Bloom, la storia di
una grande amicizia finita in un grandissimo romanzo», dal Foglio di martedì 29 agosto 2000.
4) Raffaele
Giovanelli, «La stagione conviviale», 1975, 2° edizione 2002.
5)Luca Ricolfi, «La scuola ha smesso di insegnare»,
La Stampa, 23 Luglio 2009. «Sulla scuola e l’università ognuno ha le sue idee, più o meno progressiste, più o meno laiche, più o meno nostalgiche. C’è un limite, però, oltre il quale le
ideologie e le convinzioni di ciascuno di noi dovrebbero fermarsi in rispettoso silenzio: quel limite è
costituito dalla nuda realtà dei fatti, dalla constatazione del punto cui le cose sono arrivate.
Quale che sia l’utopia che ciascuno di noi può avere in testa, la realtà com’è dovrebbe
costituire un punto di partenza condiviso, da accettareo combattere
certo, ma che dovremmo sforzarci di
vedere per quello che è, anziché ostinarci a travestire con i nostri sogni. Queste cose
pensavo in questi giorni, assistendo
all’ennesimo dibattito pubblico su
scuola e università, bocciature e
cultura del ‘68, un dibattito dove - nonostante alcune voci
fuori dal coro - la nuda realtà stenta a farsi vedere per quella che è. La nuda
realtà io la vedo scorrere da decenni nel mio lavoro di docente universitario,
la ascolto nei racconti di colleghi e insegnanti, la constato
nei giovani che laureiamo… Eppure quella realtà non si può dire, è politicamente scorretta, appena la pronunci suscita un vespaio di
proteste indignate, un coro di dotte
precisazioni, una rivolta di
sensibilità offese. Io vorrei dirla lo stesso, però. La realtà è che la maggior parte dei giovani che escono dalla
scuola e dall’università è
sostanzialmente priva delle più elementari conoscenze e capacità che un tempo
scuola e università fornivano. Non hanno perso solo la capacità di esprimersi
correttamente per iscritto. Hanno perso l’arte della parola, ovvero la
capacità di fare un discorso articolato, comprensibile… Hanno perso la capacità di concentrarsi, di soffrire su
un problema difficile. Fanno continuamente errori logici e semantici, perché credono che i concetti siano vaghi e intercambiabili… Banalizzano tutto quello che non
riescono a capire. Sovente incapaci di autovalutazione,
esprimono sincero stupore se un docente
li mette di fronte alla loro ignoranza. Sono allenati a superare test ed
eseguire istruzioni, ma non a
padroneggiare una materia, una
disciplina, un campo del sapere.
Dimenticano in pochissimi anni tutto quello che hanno imparato in ambito matematico-scientifico (e infatti l’università è costretta a fare corsi di ‘azzeramento’ per rispiegare
concetti matematici che si apprendono a 12 anni). A un anno da un esame, non
ricordano praticamente nulla di quel che sapevano al momento di sostenerlo. Sono
convinti che tutto si possa trovare su internet e quasi nulla debba essere
conosciuto a memoria (una delle idee
più catastrofiche di questi anni,
anche perché è la nostra memoria, la
nostra organizzazione mentale, il primo
serbatoio della creatività). Certo,
in mezzo a questa Caporetto cognitiva ci
sono anche delle capacità nuove: un
ragazzo di oggi, forse proprio perché
non è capace di concentrazione, riesce a fare (quasi) contemporaneamente cinque o sei cose. Capisce al volo come far
funzionare un nuovo oggetto tecnologico (ma non ha la minima idea di
come sia fatto ‘dentro’). Si muove come un dio nel mare magnum della
rete (ma spesso non riconosce le
bufale, né le
informazioni-spazzatura). Usa il bancomat, manda messaggini, sa fare un biglietto elettronico, una
prenotazione via internet. Scarica musica e masterizza cd. Gira il mondo, ha estrema facilità nelle relazioni e nella
vita di gruppo. E’ rapido, collega e associa al volo. Impara in fretta, copia e incolla a velocità vertiginosa. Però
il punto non è se siano più le capacità perse o quelle acquisite, il punto è se quel che si è perso sia tutto
sommato poco importante come tanti pedagogisti ritengono, o sia invece
un gravissimo handicap, che pesa
come una zavorra e una condanna sulle giovani
generazioni. Io penso che sia un tragico handicap, di cui però non sono certo responsabili i
giovani. I giovani possono essere rimproverati soltanto di essersi così facilmente
lasciati ingannare (e adulare!) da una generazione di adulti che ha finto di aiutarli, di
comprenderli, di amarli, ma che in realtà ha preparato per loro una
condizione di dipendenza e, spesso,
di infelicità e di disorientamento. La generazione che ha oggi fra 50 e 70 anni ha la responsabilità
di aver allevato una generazione di ragazzi cui, nei limiti
delle possibilità economiche di ogni famiglia, nulla è stato negato, pochissimo
è stato richiesto, nessuna vera frustrazione è mai stata inflitta. Una generazione cui, a forza di generosi aiuti e sostegni
di ogni genere e specie, è stato fatto credere di possedere un’istruzione, là dove in troppi casi esisteva solo un’allegra infarinatura. Ora la realtà presenta il conto. Chi ha avuto una
buona istruzione spesso (non sempre) ce la fa, chi non l’ha avuta ce la fa
solo se figlio di genitori ricchi,
potenti o ben introdotti. Per tutti gli altri si aprono solo due strade: accettare i lavori, per lo più manuali, che oggi attirano solo gli immigrati, o iniziare un lungo percorso di lavoretti
non manuali ma precari, sotto l’ombrello protettivo di quegli stessi
genitori che per decenni hanno festeggiato la fine della scuola di élite.
Un vero paradosso della storia. Partita con l’idea di
includere le masse fino allora escluse dall’istruzione, la generazione
del ‘68 ha dato scacco matto proprio
a coloro che diceva di voler aiutare. Già, perché la scuola facile si è ritorta innanzitutto contro coloro cui
doveva servire: un sottile razzismo
di classe deve avere fatto pensare a tanti intellettuali e politici che le ‘masse popolari’ non fossero all’altezza di una formazione vera,
senza rendersi conto che la scuola senza qualità che i loro pregiudizi hanno contribuito
ad edificare avrebbe punito innanzitutto i più deboli, coloro per i
quali una scuola che fa sul serio è una delle poche chance di promozione sociale».
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