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Strappare l’architettura agli architetti
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Salingaros è in Italia per presentare il suo volume «No alle Archistar», della Libreria Editrice Fiorentina. Le Archistar sono gli architetti strapagati e acchiappa-tutto nei grandi progetti internazionali. Da tempo Salingaros, matematico per formazione, li accusa non solo di essere gli esponenti di un’architettura malata, ma che fa anche male alla salute fisica, psichica e spirituale dell’uomo.

A Roma, ho assistito a una conferenza-stampa del professore. Poichè erano presenti più architetti che giornalisti (e pochi studenti muti di domande, probabilmente esterrefatti di ascoltare il contrario di ciò che si sono sentiti insegnare), hanno finito per parlarsi tra loro. E francamente, rinunciando alla lingua di legno delle riviste di architettura. Cos’hanno detto?

Tutti d’accordo, visto che pochi sentivano, che occorre «riportare l’uomo al centro della progettazione». Che bisogna tornare a «progettare la normalità» e non le stravaganze. O anche che (Wittfrida Mitterer, direttrice della rivista Bio-Architettura) che «le architetture tradizionali sono di per sè eco-sostenibili», intendendo proprio le architetture popolari («vernacolari»), non foss’altro perchè usano materiali locali e sono adeguate al clima locale, oltre che alla cultura umana del luogo.

Perchè allora non si costruiscono case tradizionali? Un problema è che per quelle c’è bisogno di artigiani, e gli artigiani «ormai sono rarissimi, e perciò carissimi». In compenso, abbiamo abbondanza di architetti laureati. In Italia, ha rivelato Amedeo Schiattarella, presidente dell’Ordine di Roma, c’è un architetto ogni 400 abitanti. Viene il sospetto che esista un rapporto diretto tra la densità di architetti e la densità di orrori edilizi che ci occupano i nostri suoli. Ma forse no; all’estero, i nostri studenti d’architettura sono ben considerati, hanno cultura (forse hanno studiato storia dell’arte, si spera), e sono per lo più sottoccupati: gli enti pubblici non hanno in mente che le archistar straniere.

Il fatto è che i nostri studenti non hanno pratica. La professoressa Mitterer, che insegna anche in Austria, dice che a Vienna gli studenti vengono mandati nei cantieri già nei primi sei mesi: anche per aiutarli a capire se hanno scelto la strada giusta o no. I nostri, nei cantieri non vanno mai.

Tristi assensi riscuote l’ammissione che Bernini non è uscito dalla facoltà di architettura, eppure se l’è cavata non male nel progetto di San Pietro, collonnato e tutto. Anzi, nè i costruttori di cattedrali, nè quelli che fecero le terme di Diocleziano, nè uno dei grandie edifici del nostro passato artistico, hanno mai frequentato una università. Spesso non ne sappiamo i nomi, perchè essi stessi si consideravano non più che artigiani. Nulla del divisimo sprezzante dei Fuksas, dei Piano, dei Libeskind.

E poi un intermezzo satirico: «Le archistar non abitano negli edifici che costruiscono». Si scelgono (ne hanno i mezzi) antichi palazzi storici. Per esempio: Gregotti, autore dell’orribile quartiere Zen di Palermo, covo di malattie morali e patibolari, fu beccato tempo fa da quei «mascalzoni» di «Le Iene» in casa sua: un palazzo ottocentesco al centro di Roma con affreschi alle pareti, fontane (alcune delle cose che non si fanno più perchè mancano gli artigiani) e decine di stanze.

«Il quartiere Zen è bellissimo», ha insistito Gregotti con Lucci (la Iena) che lo intervistava, «Ma lei ci vivrebbe?», incalza la iena. La risposta: «Io non faccio il proletario, faccio l’architetto» (e poi si dicono di sinistra).

Il tragicomico è che una simile illuminazione la dobbiamo trovare in un programma sboccato TV, non su «Casabella» o «AR», o le altre riviste dell’architettura criminal-progressista, dove la frase di Gregotti meriterebbe di essere stampato in eterno.

Lucien Steil, architetto famoso con un bel papillon, spiega: «Io porto gli studenti americani di architettura a vedere le antiche città italiane, perchè respirino e si intridano delle soluzioni urbanistiche di queste città fatte per l’uomo e dall’uomo, della qualità di relazioni umane che permettono. Come mai invece in Italia si scimmiottano le archistar?».

Il perchè viene implicitamente fuori da spezzoni di conversazioni fra gli addetti ai lavoro. Il giovane architetto Ettore Maria Mazzola, con il dente avvelenato («Dodici anni di precario ricercatore!») cita il piano urbanistico per Bari stilato nel 1931, che fissò una sorta di diritto dell’architettura. Per esempio, stabiliva il principio che anche se l’edificio di città è privato, «la facciata non è del proprietario, ma della comunità». Cita anche lo slogan – o il proposito – dell’Istituto Case Popolari fascista: «La casa sana ed educatrice».

Capito? La casa popolare, per quelli là, doveva essere «educatrice». Ossia: non doveva diventare ghetto separato e discriminante, la zona desolata dei poveri separata dalla città dei ricchi (vedi banlieues parigine in rivolta permanente).

La Mitterer: «Bisogna riconoscere che l’ultima volta in cui si è stati capaci di fare urbanistica è stato durante il fascismo».

Ecco dunque perchè le burocrazie pubbliche locali, Comuni, Regioni, non sanno far altro che rivolgersi ai Libeskind o ai Meier: d’accordo, questi dispongono di potenti studi e di macchine enormi e intimidatorie di pubbliche relazioni, ed hanno di fronte committenti ignoranti oltrechè anonimi (e dunque irresponsabili). Ma l’incultura architettonico-urbanistica in Italia viene in gran misura dalla necessità – politicamente corretta – di «saltare» un periodo che si raccordò coscientemente alla tradizione costruttiva antico-romana. La censura ha prodotto una frattura, uno iato col passato artistico nazionale. Abbiamo perso la nostra «lingua» architettonica, elaborata da generazioni nei secoli.

E Salingaros? Ha finito per parlar poco, ascoltando divertito gli architetti presenti che parlavano fra loro. Per chi non lo conosce, dò qui sotto alcuni esempi delle realizzazioni delle Archistar contro le quali ha ingaggiato, forte della sua origine greca e della sua cultura europea, una lotta solitaria (1).



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Frank Owen Gehry, famoso architetto decostruzionista, è l’autore di questo Nationale Nederlanden Building a Praga. Uno sgorbio, uno sfregio deliberato alla civile urganistica austro-ungarica. Un atto di teppismo da graffitaro, pagato dai contribuenti. Perchè fanno cose del genere?


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Peter Eisenman, autore del celebre museo dell’olocausto, proclama (sulla scorta di Derrida) il rifiuto di «tutto ciò che ha subordinato l’architettura a qualcos’altro – il valore di utilità, bellezza, vivibilità... liberare l’architettura da tutte queste finalità esterne... Penso che la decostruzione si avveri quando si sia decostruita qualche filosofia architettonica, ad esempio l’egemonia della bellezza, l’egemonia dell’utilità, della funzionalità, del vivere, dell’abitare» .

Dunque lo fanno apposta? Sì.


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Philip Johnson, a cui la civiltà deve questo edificio, è uno che afferma: «Non esiste nè il buono, nè il vero nè il bello. Sono un relativista, sono un  nichilista. Ho imparato la lingua tedesca da giovane perchè mi interessava Nietzsche... questo è il motivo per cui fui inizalmente attratto da Hitler, che in verità fraintese completamente Nietzsche... La gerarchia delle cose importanti nel mondo inizia dall’arte, senza ricerca di verità, della scienza o di altro».


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arch_1b.jpgBernard Tshumi, autore di questo edificio per i cinesi, vuol creare (parole sue) «Un disordine programmato... architettura contro se stessa». Ma c’è di più. Tschumi dichiara apertamente di voler provocare dolore in chi abita nelle sue architetture, o vi passa accanto. «L’integrazione della violenza nel meccanismo architettonico mira in fin dei conti ad un nuovo piacere nell’architettura. Come ogni forma di violenza, la violenza in architettura contiene la possibilità di cambiamento, di rinnovamento... La definizione dell’architettura si trova all’intersezione fra logica e dolore, tra razionalità e angoscia, tra concetto e piacere». Così scrive in un suo saggio esplicitamente sadico (infatti  contiene molte citazioni di De Sade).

Nonostante questo, al sadico Tschumi è stato affidato il progetto per il museo dell’Acropoli, ad Atene. A due passi dal Partenone. Ecco che cosa ha fatto:

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Bernard Tschumi, museo dell’Acropoli, Atene.


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arch_1a.jpgE veniamo a Daniel Libeskind, super-archistar, di cui vediamo qua sopra il progetto per un edificio pubblico a Hong Kong. Libeskind è uno che ha enunciato il seguente elogio dell’architettura della Bauhaus: «Un’architettura perennemente dislocata che rifiutava in modo assoluto l’attrazione del sacro. Fu proprio qui, nel campo del sacro, che il Bauhaus dichiarò guerra e porto devastazione… Gli dei furono rovesciati, gli ordini infranti, le mura abbattute, il centro rimosso». Dunque, il nostro è mosso da un cosciente, deliberato odio per Dio e per conseguenza, luciferinamente, per l’uomo. Si noti l’esaltazione della «perdita del centro», citazione a rovescio della prognosi di Sedlmayr (2): l’architettura fu la più importante delle arti perchè, quando raggiunse i vertici (uno stile), attrasse a sè tutte le altre arti. Scultura, pittura, arte del vetro, dell’arazzo, e persino la musica, furono arti ausiliare del tempio della cattedrale, ossia del tema centrale dell’architettura, che essa stessa serviva il culto dell’uomo verso il suo Dio. Perduto quel centro, le arti non più ausiliarie, distaccatesi dal nucleo architettonico, sono impazzite prima, e infine spente. Dove mettere una scultura oggi, se non al cimitero? E un dipinto, se non direttamente nell’esposizione del mercante d’arte, o da Sotheby’s? E’ una tragedia.

Eppure a Libeskind, questo omicida dichiarato, Milano – la sua burocrazia – ha affidato i progetti per l’Expo 2015.

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L’opinione pubblica ha forse approvato? Nient’affatto. Ci sono state proteste dai milanesi. Non vogliono, assolutamente non vogliono questi che hanno già battezzato «grattacieli con le stampelle». Si noti che anche Berlusconi ha protestato – invano: «Mi metto a capo del movimento per bloccare le torri che infamano Milano». Notevole la risposta, arrogante e intimidatoria  di Libeskind: «Ci risiamo con il vecchio stile cinico e antidemocratico di interferire nel processo creativo... Anche nell’Italia fascista tutto ciò che non era “dritto” e “in linea” veniva considerato “arte perversa”. Ma quell’era per fortuna è chiusa. Berlusconi avrebbe dovuto imparare la lezione dagli orrori del totalitarismo e del fascismo».

I grattacieli sbilenchi bisogna acccettarli perchè sarebbero «antifascisti». E’ l’auto-assoluzione sempre pronta per tutti i crimini commessi dopo il fascismo.



Ecco dunque contro cosa si batte Salingaros, radunando attorno a sè a poco a poco un sempre maggior numero di convinti della necessità di contrastare questo virus. Salingaros ha anche messo a punto (è in rete) un certo numero di regole di progettazione «che qualunque architetto possa utilizzare per creare un luogo ‘sano’. Anche se quel che ne risulterà sembrerà modesto a quelli che associano l’idea di “grande architettura” con forme stravaganti».

E’ moltissimo, visto che agli architetti, l’università dominata dall’intimidazione-archistar non insegna nemmeno a pensare se nei loro progetti, loro, ci si sentono bene; e visto il sospetto che i giovani d’oggi, studenti d’architettura, non sappiano nemmeno più vedere ciò che hanno attorno a Roma, a Siena, a Viterbo o a Orvieto.

E tuttavia mi pare che non sia abbastanza. C’è stata un’architettura amica dell’uomo, che non fu però «modesta» ma grandiosamente rappresentativa. Fu l’architettura di Roma.

Salingaros ha risposto: come greco, penso che l’architettura greca sia quella suprema.

Mi permetto di dissentire, con i miei modestissimi mezzi, in un prossimo articolo. Intanto avverto che le idee di Salingaros sono molto al disopra di quella «modestia» e «normalità» che promuove per scopi sanitari. Vale la pena di sentirlo quando espone la sua ampia lezione: grazie all’epistemologo Stefano Serafini, nostro amico e contributore occasionale del sito, è ancora  a Roma e farà due incontri il prossimo 5 novembre.

Ore 11,00, conferenza presso la  Facoltà di Architettura Valle Giulia, Università la Sapienza di Roma, via Antonio Gramsci 53, 00196 Roma. Aula Magna (su invito di Franco Purini);

Ore 17,30 presentazione del libro «No alle archistar», Fondazione CESAR, presso la Sala Quaroni, Palazzo degli Uffici Eur, Via Ciro il Grande16, 00144 Roma (http://www.cesar-eur.it/eventi.php).


Maurizio Blondet

(articolo pubblicato il 2 novembre 2009)




1) Le citazioni che seguono sono tratte dal saggio di Nikos Salingaros, «Antiarchitettura e demolizione», Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2007.
2) Hans Sedlmayr,  «Perdita del Centro», Borla. L’edizione originale è del 1948.


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