Strappare l’architettura agli architetti
11 Novembre 2009
Salingaros è in Italia per presentare il suo volume «No alle
Archistar», della Libreria Editrice Fiorentina. Le Archistar sono gli
architetti strapagati e acchiappa-tutto nei grandi progetti
internazionali. Da tempo Salingaros, matematico per formazione, li
accusa non solo di essere gli esponenti di un’architettura malata, ma
che fa anche male alla salute fisica, psichica e spirituale dell’uomo.
A Roma, ho assistito a una conferenza-stampa del professore. Poichè
erano presenti più architetti che giornalisti (e pochi studenti muti di
domande, probabilmente esterrefatti di ascoltare il contrario di ciò
che si sono sentiti insegnare), hanno finito per parlarsi tra loro. E
francamente, rinunciando alla lingua di legno delle riviste di
architettura. Cos’hanno detto?
Tutti d’accordo, visto che pochi sentivano, che occorre «riportare
l’uomo al centro della progettazione». Che bisogna tornare a
«progettare la normalità» e non le stravaganze. O anche che (Wittfrida
Mitterer, direttrice della rivista Bio-Architettura) che «le
architetture tradizionali sono di per sè eco-sostenibili», intendendo
proprio le architetture popolari («vernacolari»), non foss’altro perchè
usano materiali locali e sono adeguate al clima locale, oltre che alla
cultura umana del luogo.
Perchè allora non si costruiscono case tradizionali? Un problema è che
per quelle c’è bisogno di artigiani, e gli artigiani «ormai sono
rarissimi, e perciò carissimi». In compenso, abbiamo abbondanza di
architetti laureati. In Italia, ha rivelato Amedeo Schiattarella,
presidente dell’Ordine di Roma, c’è un architetto ogni 400 abitanti.
Viene il sospetto che esista un rapporto diretto tra la densità di
architetti e la densità di orrori edilizi che ci occupano i nostri
suoli. Ma forse no; all’estero, i nostri studenti d’architettura sono
ben considerati, hanno cultura (forse hanno studiato storia dell’arte,
si spera), e sono per lo più sottoccupati: gli enti pubblici non hanno
in mente che le archistar straniere.
Il fatto è che i nostri studenti non hanno pratica. La professoressa
Mitterer, che insegna anche in Austria, dice che a Vienna gli studenti
vengono mandati nei cantieri già nei primi sei mesi: anche per aiutarli
a capire se hanno scelto la strada giusta o no. I nostri, nei cantieri
non vanno mai.
Tristi assensi riscuote l’ammissione che Bernini non è uscito dalla
facoltà di architettura, eppure se l’è cavata non male nel progetto di
San Pietro, collonnato e tutto. Anzi, nè i costruttori di cattedrali,
nè quelli che fecero le terme di Diocleziano, nè uno dei grandie
edifici del nostro passato artistico, hanno mai frequentato una
università. Spesso non ne sappiamo i nomi, perchè essi stessi si
consideravano non più che artigiani. Nulla del divisimo sprezzante dei
Fuksas, dei Piano, dei Libeskind.
E poi un intermezzo satirico: «Le archistar non abitano negli edifici
che costruiscono». Si scelgono (ne hanno i mezzi) antichi palazzi
storici. Per esempio: Gregotti, autore dell’orribile quartiere Zen di
Palermo, covo di malattie morali e patibolari, fu beccato tempo fa da
quei «mascalzoni» di «Le Iene» in casa sua: un palazzo ottocentesco al
centro di Roma con affreschi alle pareti, fontane (alcune delle cose
che non si fanno più perchè mancano gli artigiani) e decine di stanze.
«Il quartiere Zen è bellissimo», ha insistito Gregotti con Lucci (la
Iena) che lo intervistava, «Ma lei ci vivrebbe?», incalza la iena. La
risposta: «Io non faccio il proletario, faccio l’architetto» (e poi si
dicono di sinistra).
Il tragicomico è che una simile illuminazione la dobbiamo trovare in un
programma sboccato TV, non su «Casabella» o «AR», o le altre riviste
dell’architettura criminal-progressista, dove la frase di Gregotti
meriterebbe di essere stampato in eterno.
Lucien Steil, architetto famoso con un bel papillon, spiega: «Io porto
gli studenti americani di architettura a vedere le antiche città
italiane, perchè respirino e si intridano delle soluzioni urbanistiche
di queste città fatte per l’uomo e dall’uomo, della qualità di
relazioni umane che permettono. Come mai invece in Italia si
scimmiottano le archistar?».
Il perchè viene implicitamente fuori da spezzoni di conversazioni fra
gli addetti ai lavoro. Il giovane architetto Ettore Maria Mazzola, con
il dente avvelenato («Dodici anni di precario ricercatore!») cita il
piano urbanistico per Bari stilato nel 1931, che fissò una sorta di
diritto dell’architettura. Per esempio, stabiliva il principio che
anche se l’edificio di città è privato, «la facciata non è del
proprietario, ma della comunità». Cita anche lo slogan – o il proposito
– dell’Istituto Case Popolari fascista: «La casa sana ed educatrice».
Capito? La casa popolare, per quelli là, doveva essere «educatrice».
Ossia: non doveva diventare ghetto separato e discriminante, la zona
desolata dei poveri separata dalla città dei ricchi (vedi banlieues
parigine in rivolta permanente).
La Mitterer: «Bisogna riconoscere che l’ultima volta in cui si è stati capaci di fare urbanistica è stato durante il fascismo».
Ecco dunque perchè le burocrazie pubbliche locali, Comuni, Regioni, non
sanno far altro che rivolgersi ai Libeskind o ai Meier: d’accordo,
questi dispongono di potenti studi e di macchine enormi e intimidatorie
di pubbliche relazioni, ed hanno di fronte committenti ignoranti
oltrechè anonimi (e dunque irresponsabili). Ma l’incultura
architettonico-urbanistica in Italia viene in gran misura dalla
necessità – politicamente corretta – di «saltare» un periodo che si
raccordò coscientemente alla tradizione costruttiva antico-romana. La
censura ha prodotto una frattura, uno iato col passato artistico
nazionale. Abbiamo perso la nostra «lingua» architettonica, elaborata
da generazioni nei secoli.
E Salingaros? Ha finito per parlar poco, ascoltando divertito gli
architetti presenti che parlavano fra loro. Per chi non lo conosce, dò
qui sotto alcuni esempi delle realizzazioni delle Archistar contro le
quali ha ingaggiato, forte della sua origine greca e della sua cultura
europea, una lotta solitaria
(1).
Frank Owen Gehry, famoso architetto decostruzionista, è l’autore di
questo Nationale Nederlanden Building a Praga. Uno sgorbio, uno sfregio
deliberato alla civile urganistica austro-ungarica. Un atto di teppismo
da graffitaro, pagato dai contribuenti. Perchè fanno cose del genere?
Peter Eisenman, autore del celebre museo dell’olocausto, proclama
(sulla scorta di Derrida) il rifiuto di «tutto ciò che ha subordinato
l’architettura a qualcos’altro – il valore di utilità, bellezza,
vivibilità... liberare l’architettura da tutte queste finalità
esterne... Penso che la decostruzione si avveri quando si sia
decostruita qualche filosofia architettonica, ad esempio l’egemonia
della bellezza, l’egemonia dell’utilità, della funzionalità, del
vivere, dell’abitare» .
Dunque lo fanno apposta? Sì.
Philip Johnson, a cui la civiltà deve questo edificio, è uno che
afferma: «Non esiste nè il buono, nè il vero nè il bello. Sono un
relativista, sono un nichilista. Ho imparato la lingua tedesca da
giovane perchè mi interessava Nietzsche... questo è il motivo per cui
fui inizalmente attratto da Hitler, che in verità fraintese
completamente Nietzsche... La gerarchia delle cose importanti nel mondo
inizia dall’arte, senza ricerca di verità, della scienza o di altro».
Bernard
Tshumi, autore di questo edificio per i cinesi, vuol creare (parole
sue) «Un disordine programmato... architettura contro se stessa». Ma
c’è di più. Tschumi dichiara apertamente di voler provocare dolore in
chi abita nelle sue architetture, o vi passa accanto. «L’integrazione
della violenza nel meccanismo architettonico mira in fin dei conti ad
un nuovo piacere nell’architettura. Come ogni forma di violenza, la
violenza in architettura contiene la possibilità di cambiamento, di
rinnovamento... La definizione dell’architettura si trova
all’intersezione fra logica e dolore, tra razionalità e angoscia, tra
concetto e piacere». Così scrive in un suo saggio esplicitamente sadico
(infatti contiene molte citazioni di De Sade).
Nonostante questo, al sadico Tschumi è stato affidato il progetto per
il museo dell’Acropoli, ad Atene. A due passi dal Partenone. Ecco che
cosa ha fatto:
Bernard Tschumi, museo dell’Acropoli, Atene.
E
veniamo a Daniel Libeskind, super-archistar, di cui vediamo qua sopra
il progetto per un edificio pubblico a Hong Kong. Libeskind è uno che
ha enunciato il seguente elogio dell’architettura della Bauhaus:
«Un’architettura perennemente dislocata che rifiutava in modo assoluto
l’attrazione del sacro. Fu proprio qui, nel campo del sacro, che il
Bauhaus dichiarò guerra e porto devastazione… Gli dei furono
rovesciati, gli ordini infranti, le mura abbattute, il centro rimosso».
Dunque, il nostro è mosso da un cosciente, deliberato odio per Dio e
per conseguenza, luciferinamente, per l’uomo. Si noti l’esaltazione
della «perdita del centro», citazione a rovescio della prognosi di
Sedlmayr
(2):
l’architettura fu la più importante delle arti perchè, quando raggiunse
i vertici (uno stile), attrasse a sè tutte le altre arti. Scultura,
pittura, arte del vetro, dell’arazzo, e persino la musica, furono arti
ausiliare del tempio della cattedrale, ossia del tema centrale
dell’architettura, che essa stessa serviva il culto dell’uomo verso il
suo Dio. Perduto quel centro, le arti non più ausiliarie, distaccatesi
dal nucleo architettonico, sono impazzite prima, e infine spente. Dove
mettere una scultura oggi, se non al cimitero? E un dipinto, se non
direttamente nell’esposizione del mercante d’arte, o da Sotheby’s? E’
una tragedia.
Eppure a Libeskind, questo omicida dichiarato, Milano – la sua burocrazia – ha affidato i progetti per l’Expo 2015.
L’opinione pubblica ha forse approvato? Nient’affatto. Ci sono state
proteste dai milanesi. Non vogliono, assolutamente non vogliono questi
che hanno già battezzato «grattacieli con le stampelle». Si noti che
anche Berlusconi ha protestato – invano: «Mi metto a capo del movimento
per bloccare le torri che infamano Milano». Notevole la risposta,
arrogante e intimidatoria di Libeskind: «Ci risiamo con il vecchio
stile cinico e antidemocratico di interferire nel processo creativo...
Anche nell’Italia fascista tutto ciò che non era “dritto” e “in linea”
veniva considerato “arte perversa”. Ma quell’era per fortuna è chiusa.
Berlusconi avrebbe dovuto imparare la lezione dagli orrori del
totalitarismo e del fascismo».
I grattacieli sbilenchi bisogna acccettarli perchè sarebbero
«antifascisti». E’ l’auto-assoluzione sempre pronta per tutti i crimini
commessi dopo il fascismo.
Ecco
dunque contro cosa si batte Salingaros, radunando attorno a sè a poco a
poco un sempre maggior numero di convinti della necessità di
contrastare questo virus. Salingaros ha anche messo a punto (è in rete)
un certo numero di regole di progettazione «che qualunque architetto
possa utilizzare per creare un luogo ‘sano’. Anche se quel che ne
risulterà sembrerà modesto a quelli che associano l’idea di “grande
architettura” con forme stravaganti».
E’ moltissimo, visto che agli architetti, l’università dominata
dall’intimidazione-archistar non insegna nemmeno a pensare se nei loro
progetti, loro, ci si sentono bene; e visto il sospetto che i giovani
d’oggi, studenti d’architettura, non sappiano nemmeno più vedere ciò
che hanno attorno a Roma, a Siena, a Viterbo o a Orvieto.
E tuttavia mi pare che non sia abbastanza. C’è stata un’architettura
amica dell’uomo, che non fu però «modesta» ma grandiosamente
rappresentativa. Fu l’architettura di Roma.
Salingaros ha risposto: come greco, penso che l’architettura greca sia quella suprema.
Mi permetto di dissentire, con i miei modestissimi mezzi, in un
prossimo articolo. Intanto avverto che le idee di Salingaros sono molto
al disopra di quella «modestia» e «normalità» che promuove per scopi
sanitari. Vale la pena di sentirlo quando espone la sua ampia lezione:
grazie all’epistemologo Stefano Serafini, nostro amico e contributore
occasionale del sito, è ancora a Roma e farà due incontri il prossimo
5 novembre.
Ore 11,00, conferenza presso la Facoltà di Architettura Valle Giulia,
Università la Sapienza di Roma, via Antonio Gramsci 53, 00196 Roma.
Aula Magna (su invito di Franco Purini);
Ore 17,30 presentazione del libro «No alle archistar», Fondazione
CESAR, presso la Sala Quaroni, Palazzo degli Uffici Eur, Via Ciro il
Grande16, 00144 Roma (
http://www.cesar-eur.it/eventi.php).
Maurizio Blondet
(articolo pubblicato il 2 novembre 2009)
1) Le citazioni
che seguono sono tratte dal saggio di Nikos Salingaros,
«Antiarchitettura e demolizione», Libreria Editrice Fiorentina,
Firenze, 2007.
2) Hans Sedlmayr, «Perdita del Centro», Borla. L’edizione originale è del 1948.
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