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Cattolicesimo, organicismo, liberalismo
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Pierferdinando Casini, schiacciato sul suo moderatismo insipido che lo ha reso vassallo delle politiche di Monti, di recente ha «scomunicato» Nichi Vendola, segretario del Sel, per le sue posizioni sui temi etici. Casini sapeva di colpire duro dal momento che Vendola, dichiaratamente omosessuale, si professa cattolico. Tuttavia Vendola non si è lasciato cogliere di sorpresa e ha rinviato al mittente l’invito a mettersi in regola con la propria professione di fede cattolica. Il governatore della Puglia infatti ha ricordato a Casini l’aporia fondamentale della sua posizione politica e lo ha invitato a convertirsi perché – così ha detto Vendola – il liberismo, che il segretario dell’Udc approva, è il «diavolo». Vendola avrebbe potuto essere molto più tagliente scendendo sul piano personale e rammentare al moralista Casini che nessuno può scagliare la prima pietra soprattutto se, come il Pierferdinando, si è alle seconde nozze, in forma civile dal momento che dalla prima moglie, sposata religiosamente, egli ha divorziato. Ma Vendola ha preferito, signorilmente, rimanere sul piano politico.

Lo diciamo subito: a proposito del liberismo siamo d’accordo con Vendola. Il liberismo è incompatibile con il Cattolicesimo, quanto – aggiungiamo noi – il comunismo. Sia ben chiaro: da Vendola ci tiene lontanissimi il suo relativismo etico ma siamo altrettanto lontani dal relativismo sociale, ossia dal liberismo, cui mantiene il bordone Casini e quasi tutto il mondo cattolico odierno impegnato in politica. Dietro il relativismo etico come dietro quello sociale, propugnato dal liberismo, si cela, filosoficamente, lo stesso impianto soggettivista, ossia individualista, che da sempre è condannato dalla Chiesa, sia sul piano teologico che su quello morale proprio alla Dottrina Sociale Cattolica.

Nella diatriba tra Casini e Vendola si è tristemente ripetuto il dramma di un cattolicesimo diviso tra scelte etiche e scelte sociali che un tempo erano tenute insieme e che oggi, invece, non si riesce più a percepire come talmente tra esse intrinseche che le une non possono darsi senza le altre, e viceversa, pena il fallimento di qualsiasi progetto politico cattolico. Questo dramma epocale del Cattolicesimo ha radici in errori culturali che, a partire sin dal secolo scorso, hanno debilitato la politica cattolica.

Una interessante lezione sulla teoria politica del liberalismo cattolico

Ci è capitato, in questi giorni, di dibattere, via mail, con un esponente, che è anche cattedratico, del cattolicesimo liberale, o liberalismo cattolico che dir si voglia. In questo articolo, senza per correttezza e riservatezza citare il nostro interlocutore, vogliamo approfondire la riflessione che da quel dibattito è nata (1).

Il nostro interlocutore ci ha rimproverato di non distinguere tra le diverse proposte alternative interne al liberalismo e di tutto accomunare nell’odiato «neoliberismo». In particolare ci è stato presentato l’«ordnung liberalismus» della scuola di Friburgo come una prospettiva teorica distante dal neoliberismo ed alla quale ha contribuito il pensiero sociale cattolico. Una prospettiva, questa, più nota come «economia sociale di mercato» ed affine al popolarismo sturziano.

Il nostro interlocutore ci ha fatto osservare che sul concetto di liberalismo esistono tante teorie, tutte legittime e che, nella fattispecie, la scuola di Friburgo assume la nozione di liberalismo come una teoria fallibista delle istituzioni politiche ed economiche, senza alcunché di metafisico. Secondo il nostro interlocutore tra gli autori che concordano con questa posizione bisognerebbe annoverare persino Benedetto XVI.

In sostanza l’ordoliberalismo si oppone a qualsiasi confusione tra la teoria dell’ordine politico ed economico, di qualunque tipologia, e la santità di Dio come trasmessa dalla dottrina cattolica. In questo senso l’umanità, data la sua imperfezione, è destinata sempre a scontare uno scarto tra «ipotesi» e «tesi», tra l’ideale e il reale.

Sulla scorta di autori come Antiseri, Matteucci e Panebianco, il nostro interlocutore definisce il liberalismo come una «teoria del limite politico». In tal senso, secondo i cattolici liberali, esso offre un metodo mediante il quale, per tentativi ed errori, l’umanità può trovare soluzioni contingenti, e storicamente condizionate, per migliorare la convivenza civile tra persone fallibili, tra uomini che paolinamente pur tendendo al bene sono comunque capaci di fare anche il male.

Sturzo – ci è stato ricordato – ha dedicato intense pagine di riflessione a questo «metodo della libertà», sin dal 1901 e non solo a seguito dell’esilio comminatogli dal fascismo. Insomma ci è stato rimproverato di non fare come faceva Sturzo il quale di fronte alla parola «liberale» si poneva immediatamente la domanda «a quale liberalismo ci si riferisce?».

Il liberalismo cattolico si batte per la dignità di ciascuna persona, senza alcuna esclusione, e questo dimostra – secondo il nostro interlocutore – che la radice del liberalismo è da cercarsi nel deposito cristiano dell’imago Dei. Da qui deriva che nessun autorità può fare il bene della persona mentre la persona può, se vuole, fare il bene del prossimo. Solo su questo presupposto, poi, pur nella diffidenza verso qualsiasi autorità, si può delegare, democraticamente, ad un’autorità il compito di agire per rendere possibile a ciascuno di perseguire il proprio ideale di bene. Questo è, per la teoria e la prassi liberale, il limite invalicabile dell’autorità politica.

Dio e Cesare: una risposta al liberalismo cattolico

Mi siano consentite da cristiano che non siede su cattedre universitarie, tantomeno pontificie, alcune riflessioni sulla teoria del liberalismo cattolico posta dal nostro interlocutore.

L’intero impianto catto-liberale, come succintamente sopra esposto sulla base della «lezione» del nostro interlocutore, confonde tra la verità cattolica della distinzione tra Dio e Cesare ed il relativismo politico ossia il soggettivismo sul quale poggia il liberalismo. È vero che i fondamenti della modernità – libertà, uguaglianza, fraternità –, declinati in liberalismo, socialismo e umanitarismo, sono «eresie cristiane» ossia affondano le loro radici nella distorsione dei chiari fondamenti di fede del Cristianesimo. Ma proprio per questo, proprio perché trattasi di «eresie», il problema della declinazione politica di quei fondamenti, come resa nella modernità dalle ideologie laiciste, non può essere svalutato e sostanzialmente trascurato al modo solito dei catto-liberali (o in altro contesto dei catto-comunisti). Diciamo questo pur nella consapevolezza che, sul piano storico, spesso i cattolici, costretti dalla situazione contingente, si trovano a dover operare in compagnia di momentanei alleati politici sui quali, però, benché costretti a compromessi pratici (mai – attenzione! – di principio), dovrebbero almeno tentare di esercitare la propria influenza.

Il Cristianesimo – è vero – «sdivinizza» lo Stato. Questo fu l’impatto dirompente della fede nel mondo pagano organizzato intorno alla religione di Stato che faceva dei monarchi delle divinità. Tuttavia il Cristianesimo non si oppone alla legittima Autorità politica, laddove questa non pretende di essere deificata. Anzi, la Chiesa, ben presto, e non senza conseguenze storiche anche controverse, cercò la concordia con l’Autorità politica. Ponendo, però, alcune condizioni ossia, per dirla con Agostino, che lo Stato si fondasse sulla Giustizia perché senza di essa la Comunità Politica, nonostante la sua pretesa nobiltà, non si distingue da una qualsiasi banda di briganti.

Per il Cristianesimo, dunque, il Politico, distinto dal soprannaturale, è un dato di natura (e qui i liberali dimenticano facilmente la differenza fondamentale tra dire che si tratta di un dato di natura e dire invece che esso nasce da un contratto!). Ma – qui sta il punto – il Politico, proprio perché dato di natura, non può essere, per il Cristianesimo, indifferente o opposto al Soprannaturale, bensì deve essere ad Esso tendenzialmente ordinato. Il che non significa affatto aprire ad una prospettiva teocratica (anzi la teocrazia – il governo dei preti – è cristianamente sempre un errore, anche quando storicamente, in età medioevale, pur nella comprensibile opposizione alle pretese imperiali all’interno di una quadro di politicità sacrale, essa tentò i Papi) ma soltanto tenere conto del fatto che «non invano l’autorità porta la spada» (San Paolo) e che «per Me reges regnant» (Pr. 8,15), ossia che la naturalità del Politico, pur nella necessità storica di mediare con situazioni contingenti onde evitare mali maggiori (ed in tal senso i Padri, ad iniziare da Agostino, ammettono la legittimità delle «leggi imperfette» ovvero non perfettamente in sintonia con la morale cristiana), non può concepirsi al di fuori di un ordine che rimanda, indirettamente, a Colui per il Quale tutto ciò che è, compresa la Comunità Politica di natura, esiste e sussiste.

L’Autorità politica, sia essa il re o il parlamento, non può pretendere di agire al di fuori di una legittimazione superiore, benché non teocratica o, al contrario, non statolatrica. Assunto che vale anche nell’epoca della democrazia: il cattolico oggi impegnato in politica non può agire senza avere per costante riferimento il suo essere cattolico e quindi senza immettere, per quanto le circostanze glielo consentono, nelle scelte politiche concrete la Luce superiore che egli per primo deve cercare, nella preghiera e nei sacramenti, nella propria vita quotidiana.

Il Politico è sempre, cristianamente, un relativo e non un assoluto. In tal senso Joseph Ratzinger ha ammesso che sul piano politico un certo relativismo è legittimo (2). Ora, una affermazione del genere potrebbe essere tacciata di «liberalismo» benché noi riteniamo che essa sia dovuta piuttosto all’impianto agostiniano, dunque perfettamente tradizionale, della teologia ratzingheriana la quale pertanto tende, giustamente, a ribadire che il destino ultimo dell’uomo non è nella politica quanto nell’Eternità. Se, così intesa, l’affermazione di Ratzinger rientra pienamente nell’alveo della tradizionale dottrina cattolica sul Politico, laddove, come fanno i catto-liberali, si voglia invece forzare, illegittimamente, il pensiero ratzingheriano è possibile – ma sleale – interpretare l’ammissione della relatività del Politico in modo non ortodosso.

In buona sostanza, l’approccio cattolico al Politico si pone da un lato contro una concezione totalitaria ed omnipervasiva del Politico stesso ma dall’altro contro una concezione minimalista che nega o non riconosce al Politico il suo legittimo e giusto spazio e ruolo di natura. La salvezza dell’uomo non viene dal Politico e questa verità costituisce, pur con tutti gli adattamenti storici, il suo limite invalicabile. Da qui il rifiuto cattolico di ogni concezione politica che abbia le caratteristiche totalizzanti della palingenesi mondana. Lo sguardo ultimo dell’uomo, anche quando agisce politicamente, non può che essere sempre rivolto alla Gerusalemme Celeste. Avere lo sguardo al Cielo significa però, in concreto, fare scelte che, per quanto umanamente possibile, possano efficacemente mediare tra Verità, Giustizia e Libertà (esattamente in quest’ordine e non nell’ordine rovesciato liberale che pone al primo posto la Libertà) e le contingenze del momento storico nel quale quelle scelte si cerca di rendere attuali. Ecco perché qualsiasi scelta politica cattolicamente intesa non potrà mai avere un carattere assoluto, proprio solo dell’Eterno, ma sempre relativo, e sempre precario a causa della ferita del peccato originale, benché non per questo necessariamente «debole».

La risposta di Gesù ai farisei – «Date a Dio ciò che è di Dio ed a Cesare ciò che è di Cesare» – sottende molto di più di quanto comunemente viene ritenuto sulla base dello stantio luogo comune per il quale con tale affermazione Nostro Signore avrebbe legittimato la totale separazione, se non addirittura l’opposizione (così pensò Lutero), tra Santità e Politica e quindi legittimato il «liberalismo».

Liberale – nel senso di relativista benché poi rimediasse al proprio relativismo filosofico e religioso con la devozione statolatrica all’impero romano – era piuttosto Pilato quando, scettico, chiedeva: «Quid est Veritas?». Non a caso Nostro Signore non gli rispose ed il Suo silenzio fu più eloquente di qualsiasi trattato di teologia della politica.

Cattolicamente la volontà popolare non garantisce il bene comune più del potere autoritario di un re o di un dittatore. Il referendum che Pilato sottopose al popolo affinché, mediante una scelta di democrazia diretta, indicasse chi fosse, tra Gesù e Barabba, meritevole di essere liberato, sta lì a dimostrare la fallacia anche della volontà popolare, data la fallibilità dell’uomo ferito dal peccato.

Naturalità del Politico

Tuttavia, nonostante questa sua «relatività» e nonostante la fallibilità conseguente alla natura umana, la dimensione politica appartiene, per natura, all’uomo e l’uomo, anche il cristiano, non può sottrarsene anche se ne deve riconoscere il limite e non assolutizzarla. Ecco perché non è possibile dire sic et simpliciter che è necessario diffidare di ogni Autorità e che nessuna Autorità può pretendere di dare corpo al bene comune ossia al bene di ciascuno e di tutti. Né è cattolico affermare che solo la delega contrattuale può attribuire all’Autorità politica il suo ruolo ponendogli al contempo il suo limite. Questo modo di concepire l’Autorità politica sottende una visione filosofica contrattualista che nasce in ambiente protestante e non cattolico. Al contrario, nella concezione tradizionale del Cattolicesimo, l’Autorità politica sussiste ed ha un suo definito ruolo, e quindi anche il suo limite, per natura – non per contratto –, sia sotto il profilo essenziale, ovvero teoretico, sia sotto il profilo storico, ovvero suscettibile al vario modularsi a seconda delle circostanze e delle condizioni storicamente date di volta in volta.

Che la volontà popolare non sia divina e che lo Stato non garantisca di per sé la Giustizia, è storicamente dimostrato da quella costante che sono state, nel corso dei secoli, le persecuzioni del potere politico contro i cattolici (3). Tommaso Moro, che da politico è morto santo, non era però, nonostante la sua «Utopia», un relativista liberale e giammai avrebbe accettato, relativisticamente, di ritenere, come invece riteneva John Locke, il Cattolicesimo una forma tra le tante di un generico «cristianesimo naturale». Anzi egli ha accettato il martirio proprio per non apostatare dalla fede cattolica intesa come unica Verità.

La Rivelazione agisce nella storia e quindi non può non venire a contatto anche con la dimensione politica che è uno degli ambiti nel quale la storia umana si svolge. La Rivelazione non è una gnosi disincarnata. Sin dai primi secoli cristiani la Chiesa visse nel concreto del contesto storico e politico dell’epoca dapprima obbedendo alla leggi dell’imperatore che non costringevano i cristiani all’apostasia – anzi pregando per la salvezza dell’impero quando questo più tardi venne minacciato – e poi subentrando all’Autorità politica stessa quando quest’ultima decadde. L’esperienza del monachesimo occidentale – che costituì vere e proprie piccole repubbliche capaci di organizzare la vita civile e la cultura salvando entrambe dal generale sfacelo epocale iniziato con il V secolo – sta lì ad indicare quanto in profondità il Cristianesimo sia anche concreta vita comunitaria e perciò stesso, alla fine, vita associata ossia politica. Per questo tra Chiesa e Comunità Politica vi è sempre stato un rapporto nient’affatto antitetico: solo il peccato, dall’una e dall’altra parte, ha sovente alimentato tensioni e conflitti.

Mentre sostiene e realizza il desiderio di infinito che alberga nel cuore dell’uomo, la Chiesa non ha mai negato che quello stesso uomo, anche quando diventa cristiano, vive naturaliter nel Politico. Certamente la dimensione politica, in quanto dimensione dell’uomo, è essa stessa segnata dalla ferita del peccato ma non per questo assurge, nella visione cristiana, a pura malvagità o negatività. Sono gli uomini ad inficiare il Politico, sia quando lo assumono a dimensione totalizzante e sovente totalitaria sia quando pur in regimi liberali ne abusano o lo corrompono (che è poi un altro modo, benché democratico, di assolutizzarlo ossia di scioglierlo da ogni obbligo morale che gli sia sovrastante). Abbiamo avuto modo di sentire direttamente, nell’ambito della nostra professione di pubblico funzionario, un amministratore locale – che pur si qualifica «cattolico» – affermare che «la politica può tutto», rasentando il ridicolo perché oggi più che mai la politica di fronte alle scatenate forze finanziarie globali non può quasi nulla ed al tempo stesso proferendo una bestemmia in quanto idolatrava il Politico facendolo assurgere, hobbesianamente, a «dio mortale».

Cristo chiede all’uomo di amare il prossimo fino a porgergli l’altra guancia quando è schiaffeggiato. L’amore per il nemico è sconvolgente e, senza la grazia, impossibile all’uomo. Ma al tempo stesso Nostro Signore – che vuole i suoi puri come colombe e prudenti come serpenti – chiede la Giustizia nei rapporti umani ossia nei rapporti della vita associata ovvero politica. Se i santi, con l’aiuto della grazia, – ed alla santità siamo tutti chiamati – possono amare il prossimo fino a spogliare se stessi, è d’altro canto vero, e non negato dalla fede, che, dopo ed insieme all’amore, c’è anche la giustizia, compresa quella politica e quella sociale.

Dio vuole essere amato liberamente dalla creatura che ha creato per puro amore non avendo Egli bisogno di essa. Noi siamo il frutto di un Amore gratuito ed assoluto, infinito. Di conseguenza la Chiesa ha sempre chiesto alla Comunità Politica la libertà di annunciare questo amore e la libertà per gli uomini di accogliere questo annuncio senza costrizioni o impedimenti. Tuttavia, dal momento che l’Avversario ossia Satana esiste, la Chiesa, nel corso dei secoli, si è trovata alle prese con situazioni nelle quali, sovente anche per l’appoggio del potere politico, eresie contrarie a quell’amore mettevano a repentaglio il libero discernimento degli uomini. Soprattutto dei più piccoli ovvero dei più deboli dal punto di vista spirituale e culturale che non avevano gli strumenti del cuore e dell’intelligenza per comprendere da quale sacco proveniva la farina in apparenza bianca ma in realtà sporca delle eresie. Questo ha costretto la Chiesa ha ricorrere a strumenti di pressione, come l’inquisizione (sulla quale comunque troppo di inesatto è stato detto, essendo la sua realtà storica effettiva molto diversa dalla «leggenda nera»), o a chiedere al «braccio secolare», ossia alla Comunità Politica, di reprimere le eresie. D’altro canto, l’Autorità Politica ovvero i sovrani sovente gradivano l’assegnazione di tale compito: a volte per sincera convinzione di fede altre per motivi di mero potere ossia utilizzando la fede come instrumentum regni.

Tutto ciò non ha mai toccato l’essenza dell’Amore di Dio, manifestato nella santità sempre fiorente nella Chiesa attraverso figure elette che compaiono non a caso proprio nei momenti più cruciali (si pensi solo a San Francesco ed a cosa egli ha rappresentato nella Chiesa, travolta dalle eresie e dalle lotte politiche, del XIII secolo). Da quell’Amore, quando gli uomini vi si aprono liberamente con il cuore, discende, nel reciproco riconoscersi essere tutti fatti a Sua Immagine, la fraternità e l’eguaglianza (non intesa però in senso meccanico o contrattualista), che sono i fondamenti della Giustizia.

Ma, data la bontà originaria della dimensione politica naturale, che è parte del disegno di Dio, la Chiesa, pur nella consapevolezza della condizione di precarietà dell’uomo dopo il peccato, ha sempre riconosciuto che, nell’ordinario, spetta alla Comunità Politica realizzare, a seconda delle circostanze date dai contesti storici mutevoli, quei fondamenti della Giustizia, secondo diritto di natura (e non secondo «contratto sociale»).

Organicismo versus individualismo

Fare memoria, nel solco della Tradizione, del fatto che il Politico, pur nel riconoscimento del suo legittimo ambito naturale (e – ripetiamo! – non contrattuale), non è un assoluto, non significa accettare la concezione, in fondo anti-politica, del liberalismo che molti cattolici hanno fatto propria cedendo nei fatti, senza rendersene conto, ad un altro assoluto: quello dell’Economico. Per orrore del totalitarismo certi cattolici si sono gettati nella braccia del liberalismo ed all’idolatria dello «Stato» hanno sostituito, nei fatti ed a volte anche negli argomenti teorici, quella del «Mercato».

La nostra critica al catto-liberalismo non è preventiva. Abbiamo, infatti, ben presenti le distinzioni interne al liberalismo. Sappiamo che, quantomeno, esse possono ricondursi ad un filone tedesco-hegeliano e ad uno empirico-anglosassone. Conosciamo anche gli argomenti di quel tentativo cattolico di approcciare il liberalismo che è l’«ordoliberalismo». Sappiamo, però, anche che all’economia sociale di mercato, cui fa riferimento la scuola di Friburgo, si richiamano economisti di scuola classica come Mario Monti e questo ci porta a ritenere che, in fondo, al di là delle distinzioni teoriche, l’«ordoliberalismo» finisca per essere del tutto interno, come specie a genere, al liberalismo tout court. I distinguo teorici dei «friburghesi» in pratica, ossia storicamente, non hanno marcato grandi differenze tra le diverse impostazioni del liberalismo/liberismo.

È vero che il liberalismo invoca il «rule of law» – il governo della legge impersonale – ma, poi, in pratica, essendo l’uomo ferito dal peccato originale, senza un’Autorità Politica, sono le forze dell’egoismo, del profitto assoluto e cinico, del mero calcolo economico utilitarista e senza considerazioni sociali, della speculazione, a prevalere, soprattutto oggi che la globalizzazione, avendo abbattuto gli Stati nazionali, ha reso possibile al capitale, in particolare quello autoreferenziale e finanziario,di svincolarsi da qualsiasi sistema di regole locali, ovvero nazionali.Per questo riteniamo necessario un ruolo «forte» dell’Autorità Politica, che presupponela priorità della Comunità Politica sull’economia e dell’economia reale su quella finanziaria. Un ruolo non solo regolativo, come sostiene la scuola catto-liberale, ma anche, laddove necessario, interventista ossia gestionale. Siamo, da cattolici, d’accordo con quanto afferma Giulio Tremonti: «mercato dove possibile, Stato dove necessario», la qualcosa è anche perfettamente compatibile con il principio cattolico di sussidiarietà.

Il liberalismo, compreso quello «cattolico», tende, invece, a negare qualsiasi ruolo, se non marginale, all’Autorità politica e guarda soltanto agli individui: in questo seguace della Thatcher per la quale esistono solo gli individui e non la comunità. E tuttavia, nella Tradizione cattolica, anche in quel ramo della teologia morale che è la Dottrina Sociale, la persona è sempre e comunque vista in relazione alle sue pluralistiche comunità diappartenenza naturale e mai astrattamente o solipsisticamente. Sulla linea di Agostino e di Tommaso d’Aquino (ma anche sulla base della Rivelazione: nel Genesi all’uomo è data una compagna a lui simile perché si afferma che esso non può vivere da solo, ed a tale messaggio si richiamava, ad esempio, esplicitamente, Leone XIII nella Rerum Novarum), la persona, che pure ha un suo valore ontologico intangibile perché Imago Dei,non si dà mai isolata ma appartiene sempre alla sua comunità, da quella familiare a quella professionale, da quella locale a quella politica, fino alla appartenenza massima, perché apre al soprannaturale, che è la Chiesa, per definizione Corpo Mistico di Cristo. Ci si salva come persone, immagini di Dio, ma non da soli.

Il fatto è che il Magistero cattolico ha sempre indicato quale propria la filosofia sociale «organicista» (4). L’organicismo è il portato storico e culturale del Cattolicesimo anche nella sue recenti versioni «personaliste», come quelle di un Maritain e di un Mounier (anche Sturzo è stato, almeno fino ad un certo punto, un organicista), che pure risentono di un cedimento soggettivista evidente. Il liberalismo, al contrario, indica come propria base una filosofia sociale individualista e contrattualista, che nasce in seno al protestantesimo. Il problema insormontabile per i cattolici liberali sta proprio in questo riferimento filosofico originario del liberalismo che è diametralmente contrario al pensiero sociale cattolico di sempre.

Il contrattualismo è il comune humus filosofico-giuridico di Locke, Hobbes e Rousseau. Al di là delle indubbie ed innegabili differenze sussiste tra essi, sotto questo profilo, una stretta e profonda parentela. Una parentela che giunge, poi, fino a Marx, il quale, anche a non voler tener conto della sua ascendenza filosofico-economica liberale (Ricardo, Smith)e quella filosofica tout court hegeliana, nutriva una vera e propria aspirazione liberale, perfino un po’ anarchica, ossia l’abolizione, non per violenza ma per estinzione, di Dio e dello Stato, comunque di ogni Auctoritas, insieme alle identità comunitarie nazionali in nome dell’internazionalismo. Marx, oltre un secolo e mezzo fa, ha descritto con esattezza lo scenario che, mediante il finanz-capitalismo, sta oggi realizzando l’Occidente liberale globalizzato. Dietro il «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», con cui si chiude Das Kapital, che è l’elogio di una società comunista perfetta ed adempiuta (DOPO la provvisoria e momentanea parentesi della dittatura del proletariato) nella quale non ci sarebbe stato più alcun bisogno di una Autorità di governo, ossia dello Stato (sovrastruttura politico-giuridica inventata dalla borghesia e che il proletariato deve conquistare solo al fine di consentire l’avvento dell’Uomo Nuovo che non avrà più bisogno di Stato), c’è lo stesso schema filosofico (se non piace chiamarlo «gnosi» lo si chiami come più aggrada) che porta i liberali/liberisti a fare l’elogiodella spontanea «mano invisibile» del mercato che, autoregolandosi, tutto finisce per aggiustare, nel promesso benessere mondiale, senza, o perlomeno, con la minima presenza dello Stato (5). La radici liberali/liberiste del pensiero di Marx trapelano, con forza, in quel grande peana della borghesia dissacratrice di ogni fede e di ogni cultura tradizionale che egli, insieme ad Engels, ha messo giù nel Manifesto del 1848. Marx ammira la borghesia liberista perché raffredda i sacri entusiasmi della mistica, scioglie tutti i variopinti legami comunitari del mondo antico, costringe tutti i popoli ad entrare nella modernità del libero mercato, riduce ogni valore a mero, freddo, calcolo economico, utilitarista. E non è esattamente questo che oggi realizzanoil pensiero e la prassi liberistaassurte a pensiero unico globale?

Oltre i sofismi accademici guardando in faccia alla realtà grazie alla lezione disincantatrice della storia

Ora, allorquando si fa lo sforzo di uscire dallo schema teorico e si prende contatto diretto con la realtà di arretramento sociale cui il neoliberismo sta condannando quei ceti popolari che solo qualche decennio fa erano riusciti, dopo un percorso storico bisecolare, a diventare soggetti sociali e politici con pari dignità dei ceti più abbienti – un «miracolo» storico, questo, che è da ascriversi innanzitutto ai meriti del Cattolicesimo sociale e non certo di quello liberale – si può comprendere quanta vacuità si celi dietro i sofismi dell’ordoliberalismo che tanto piace ai catto-liberali. È contro la storia del cattolicesimo politico e sociale, e contro la stessa teologia, tentare di far passare la Dottrina Sociale Cattolica per la madre del liberalismo/liberismo.

Nella realtà fattuale, secondo la vicenda storica come si è andata sviluppando nel corso degli ultimi decenni a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, il pensiero catto-liberale, al di là dei suoi distinguo teorici ed anche delle intenzioni che pur vogliamo assumere in buona fede i molti cattolici liberali, ha portato acqua al mulino neoliberista, gonfiandone la forza come un fiume in piena che ora sta mettendo seri dubbi sul futuro di molta gente che oggi inizia a temere di non poter dare ai figli quanto ricevuto dai propri genitori in termini di avanzamento sociale. Un incidente del percorso occupazionale per molti oggi si tradurrebbe automaticamente nel taglio del futuro auspicato per i figli. E tutto questo, al di là della dotta retorica a proposito delle «magnifiche sorti e progressive» del libero mercato, è nient’altro che il risultato della globalizzazione neoliberista che non ha nulla, in un’ottica di teologia della storia, a che fare con l’Universalità cattolica, se non nel senso del suo rovesciamento umanitario e secolaristico.

Anche per questo restiamo convintissimi che dietro la proposta della scuola di pensiero catto-liberale ci sia una deriva impropria per chi si professa cattolico. Il che non significa che i cattolici liberali siano fuori dalla Chiesa ma solo che essi accettano, sul piano filosofico-politico, una prospettiva culturale di impossibile – perlomeno difficile – mediazione con la fede.

Caduto, negli anni ‘90, il comunismo, sono rimasti sul campo due tipi di capitalismo, quello individualista anglosassone e quello sociale, keynesiano, «corporativista», di matrice europea. Già all’epoca della fine del comunismo vi era chi, purtroppo facile profeta, scorgeva nella globalizzazione – che noi riteniamo per niente naturale, come sostengono i liberisti, ma del tutto artificiale perché per avviarla ci sono voluti trattati internazionali che la cattiva politica ha stipulato cedendo per ignoranza alle pressioni delle lobby globaliste e finanziarie – un processo che avrebbe travolto ilcapitalismo sociale a tutto vantaggio di quello anglosassone meglio predisposto verso la finanziarizzazione. La globalizzazione, d’altro canto, sta riaprendo la strada alle reazioni sociali popolari, e quindi alla lotta fra ceti e classi che invece il capitalismo europeo, costrettovi da Stato e sindacati,aveva saputo placare nell’equità redistributiva ed interclassista. Il trionfo del capitalismo finanziario di tipo anglosassone sta facendo persino tornare in auge il vecchio Marx che, infatti,oggi va ritrovando nuova pubblicistica. Eterogenesi dei fini: la vittoria del capitalismo individualista riporta in vita l’utopia comunista (anche questo è un segno della segreta e profonda connessione «filosofica» tra liberalismo e marxismo).

Mito e realtà idolatrica del Mercato

La modernità ha tentato di sostituire Dio prima con lo Stato e poi, ossia oggi, con il Mercato. Due idolatrie cui ha sottomesso gli uomini. La Chiesa non nega che Stato e mercato abbiano un loro legittimo spazio ed un ruolo nello sviluppo della vita associata. Tuttavia come lo Stato, se privo di riferimenti trascendenti, non è tout court il garante della Giustizia, ma può trasformarsi nel dominio assoluto del Sovrano sul suddito, così il mercato non è il garante automatico della Libertà: anzi spesso, dietro la retorica liberale, esso è strumento di dominio dell’uomo sull’uomo o, peggio, del capitale, sovente anonimo, sull’umanità.

Se il primato della Comunità Politica, di cui lo Stato è la forma moderna, può, se oltrepassa il limite naturale storicamente determinato che ogni Auctoritas ha davanti a sé, degenerare in «statalismo» con spreco di pubbliche risorse, è altrettanto vero, ed oggi lo possiamo constatare e toccare con mano, che il Mercato troppo facilmente si trasforma in Turbo-Capitalismo, ad egemonia finanziaria, ossia in un rullo compressore della dignità dell’uomo, Imago Dei, e delle identità dei popoli. Senza tra l’altro che il Mercato liberista risponda ad una più efficiente dislocazione delle risorse e del lavoro.

È un mito quello del mercato capace di allocare nel modo migliore, se lasciato libero di operare senza intralci pubblici, le risorse economiche a disposizione dell’umanità. Né si creda che sia stato Keynes a «dissacrare» il mito liberista. Infatti non è affatto vero che l’instabilità dell’economia di mercato sia un postulato keynesiano, per di più non spiegato. È vero piuttosto il contrario. È la teoria neoclassica, quella liberista, che assume il mercato sempre in equilibrio e che, pertanto, non si possa dare disoccupazione involontaria, quando è evidente che la disoccupazione c’era non solo negli anni ‘30 – gli anni della grande depressione che sono gli anni nei quali studia e scrive Keynes – ma c’è anche ai giorni nostri come c’era sin dagli albori del capitalismo.

Anzi secondo alcuni il capitalismo è all’origine stessa del fenomeno della disoccupazione – nell’economia di mercato il lavoro è un costo che si deve ridurre quanto e prima possibile – sconosciuto, nella forma propria del liberismo ossia della riduzione dei costi di produzione, al mondo tradizionale, che lo conosceva solo in quella connessa con le carestie o le guerre. Come può esservi, oggi, equilibrio quando in Europa vi sono più di 27 milioni di persone che cercano lavoro e non lo trovano? Né il problema della disoccupazione è connesso alle eccessive pretese salariali, come sostengono i liberisti: oggi in Italia si finisce per accettare lavori dequalificanti, per la formazione e gli studi conseguiti, pagati con stipendi da fame, da 400 a 800 euro al mese.

Nella sua «Teoria Generale» Keynes si dimostra tutt’altro che un rivoluzionario. Nel ventiquattresimo capitolo, dedicato alla filosofia sociale, egli scrive che la sua teoria: «… è piuttosto conservativa nelle conseguenze che implica». Keynes è sostanzialmente un conservatore. Vuole difendere quanto di buono l’economia di mercato ha consentito all’umanità, difendendo il mercato dalle sue stesse aporie, quelle che, ogni qualvolta esso si abbandona al dogmatismo liberista, rischiano di portarlo al disastro. Keynes, a differenza dei cantori delle noiose scolastiche neoliberiste dei Mises e degli Hayek o dei Friedman, era persona intelligente. Aveva visto la Russia abbandonare, con esiti catastrofici, il sistema di mercato e l’Italia e la Germania tentarne una correzione basata sull’intervento statuale in economia ma mediante l’instaurazione di sistemi autoritari o, peggio nel caso tedesco, totalitari. La sua teoria fu una risposta concreta alla crisi di quegli anni, un’alternativa, un New Deal, che voleva a sua volta dimostrare che è possibile percorrere la via della correzione pubblica del mercato, benefica per lo stesso capitalismo, senza dover per forza accettare come contropartita la dittatura. Certamente anche il keynesismo ha i suoi difetti e non è affatto una panacea universale (i keynesiani che come tale lo presentano gli fanno un torto) ma finora – come sta dimostrando anche la crisi mondiale in corso, che è una riedizione ampliata di quella del 1929 e per il superamento della quale la nomenklatura monetarista insiste, fino a costituzionalizzare il «pareggio di bilancio» ossia a proibire il keynesiano «deficit spending», sulla via dell’austerità iniettando dosi maggiori del bacillo che sta uccidendo il grave malato dell’economia mondiale – nessuno, neanche gli «austriaci» ed i loro discepoli di Chicago, ha saputo proporre soluzioni migliori.

È il banchiere centrale che deve obbedienza all’Autorità Politica, non il contrario


Il mercato globale non assicura né la giustizia, né la libertà, né la dignità umana universale ma, nel cuore del pensiero liberale, è proprio questa la sua pretesa «millenaristica». Molto più prosaicamente il mercato è suscettibile, senza condizionamenti morali e politici, di diventare niente altro che lo strumento del dominio più assoluto dell’uomo sull’uomo. Molto più dello Stato di un tempo. Era per questo motivo che Augusto Del Noce nel mercato globale, realizzato dall’occidentalizzazione del mondo, vedeva la forma più perfetta di reificazione dell’uomo, molto più avanzata di quella che tentarono di inverare i vecchi, ed in questo «primitivi», totalitarismi di matrice giacobina.

La necessità attuale di riscoprire il primato del Politico sull’economia è misurata, nelle attuali contingenze della crisi europea dei «debiti sovrani» ossia dei debiti pubblici, dal ruolo che la Banca Centrale Europea ha conseguito attraverso la sua piena indipendenza. Un ruolo tecnocratico che si sostanzia nella destatualizzazione della sovranità monetaria – questa insieme alla toga ed alla spada è uno degli elementi naturali della sovranità politica – ed in quello della non monetizzazione del fabbisogno finanziario degli Stati. Alla base di tale svolta tecnocratica, segno incipiente di un’età, la nostra, di depoliticizzazione globale (e quindi di disumanizzazione dal momento che quella politica è dimensione naturale dell’uomo), sta il pretesto dell’inflazione che si produrrebbe se si lasciasse in mano agli Stati un potere inebriante come il «fiat money», la creazione di denaro dal nulla. In realtà dietro questa giustificazione formale si cela il disegno delle élite finanziarie e bancocratiche di impadronirsi di quel potere per usarlo a fini di speculazione sottomettendo gli Stati, come fossero aziende (6), alla regola dell’egemonia del creditore, del prestatore, del finanziatore privato.

Se è vero che al vertice degli Stati dovrebbero esserci degni statisti, capaci di comprendere i limiti del potere sovrano di monetizzazione del fabbisogno finanziario dello Stato, è pur vero che l’inflazione, anche quella a due cifre (7), è fisiologica ad un sistema economico sano, laddove da evitare, tenendo sotto controllo il potere di emissione monetaria, è soltanto l’iperinflazione. L’inflazione fisiologica è il fiume placido che, scorrendo tranquillo nel suo letto, irroga le terre circostanti rendendole produttive. L’iperinflazione è la piena – questa sì distruttiva – che fa straripare il fiume dal suo alveo annientando i raccolti. Tuttavia, la deflazione – ossia l’obiettivo tipico della casta dei banchieri centrali e della finanza globale che tendono a conservare un valore assoluto e spesso anti-economico alla moneta solo perché è dall’uso (usuraico) della stessa che quelle caste traggono il proprio profitto ed il proprio potere – è nient’altro che il fiume in secca, la siccità che rovina la produttività delle terre circostanti, ovvero, fuor di metafora, gli Stati e l’economia reale.

Il monetarismo è l’ideologia neoliberista dei banchieri e degli speculatori. Costoro sono riusciti, complice un sistema mediatico prezzolato e classi politiche corrotte ed ignoranti, ad imporre globalmente a tutti i popoli il loro dogma ideologico. Si tratta di un vero Potere Globale che, come tutti i poteri umani che si pretendono universali al modo di Babele, presenta chiare fattezze anticristiche ed è destinato, prima o poi, all’implosione (purtroppo non senza lasciare morti e feriti sul campo!).

Il legittimo ordine naturale vuole che sia il banchiere centrale, mero organo tecnico e non politico, pur nell’autonomia (non però indipendenza!) della sua funzione tecnica consulenziale, ad obbedire al Sovrano, all’Autorità politica, servendo il debito pubblico. Non il contrario. D’altro canto, lo stesso ordine di natura vuole che l’Autorità politica sia consapevole del limite oltre il quale, nella monetizzazione del debito sovrano, essa non può andare senza indurre iperinflazione, ossia senza far straripare il placido fiume della circolazione monetaria mantenendone, invece, il flusso in quantità sufficiente per evitare la siccità deflazionista.

La posta oggi in gioco

Il cristiano sa certamente che i poveri li avrà sempre con lui. Egli non può dare credito a nessun millenarismo sociale. Tuttavia non può neanche rimanere indifferente di fronte ad un mercato totalizzante e globale che ci sta riportando alle condizioni – se non sociali (ma ben presto anche quelle) perlomeno di assenza delle tutele e dei diritti faticosamente conquistati dalle classi più deboli, per merito sopratutto della politica cattolica (almeno di quella del tempo eroico che fu) – della prima industrializzazione quando il banchiere ed il «padrone» disponevano di tutta la forza, anche legale, con cui mantenere la concorrenza tra i padri di famiglia disposti a lavorare, pur di lavorare, a salari da fame.

La «riserva di disoccupati», che secondo Marx era necessaria al capitalista del XIX secolo per mantenere basso il costo del lavoro, è riapparsa oggi, nel capitalismo globalizzato, nella forma della precarizzazione del lavoro, consentita ed imposta da una globalizzazione realizzata al ribasso,la quale ha messo il costoso Welfare dell’Occidente in gara con le economie schiavistiche emergenti di Cina ed India (anziché, prima di aprire le frontiere, far lievitare le garanzie sociali di quelle economie al nostro livello con opportuni programmi di aiuto culturale, politico ed economico: il fatto è che per il liberismo, in nome della spontanea mano invisibile, ogni intervento di solidarietà, anche internazionale, è una bestemmia).

Sia chiaro: non stiamo divinizzando lo Stato. Abbiamo presente i limiti che esso non deve travalicare, ma non per questo chiudiamo, da cattolici, gli occhi di fronte alla pericolosa idolatria, oggi egemone, del mercato. Nella attuale situazione storicacrediamo sia necessario, soprattutto per i cattolici, rendersi conto che il pendolo non pende più tutto dalla parte dello Stato ma dalla parte del Mercato e che se si tratta di equilibrio, come infatti si tratta, bisogna riportare quel pendolo dalla parte dell’Autorità politica senza cadere nell’eccesso opposto, nello statalismo.

È necessaria una politica, internazionalmente concordata, di deglobalizzazione onde ricostruire le nostre economie su spazi auto centrici, dirigisticamente guidati e selettivamente protetti. Una politica che, ad esempio, introduca alti dazi per le imprese che lasciano il territorio nazionale, per delocalizzare, o che non investono sul territorio nazionale, precludendo loro il mercato interno magari reso appetibile dal sostegno pubblico della domanda aggregata. Dazi da abbassare nella misura in cui quelle imprese ritornino o investano nella produzione all’interno dei confini nazionali impiegando i nostri lavoratori. Una politica che sappia imporre al capitale condizioni di tutela sociale come, ad esempio, il versamento di apposite «cauzioni» periodiche che lo Stato, al fine di distribuirle a titolo di sussidio di disoccupazione, incamererebbe nel caso in cui intervengano delocalizzazioni aziendali. Si tratta solo di alcuni esempi di provvedimenti tra i molti che si potrebbero adottare, meglio se concertati perlomeno a livello continentale tra Stati confinanti o comunque geograficamente vicini.

Oggi sono in gioco direttamente le basi dello sviluppo sociale come furono impostate a partire dagli anni ‘30, dal New Deal in America, dal Fascismo in Italia. In discussione – ormai è detto apertamente (si veda l’intervista di Mario Draghi al Wall Street Journal di qualche mese fa) – è niente di più e niente di meno che l’abbattimento anche formale del Welfare, l’abolizione (marxiana!) dello Stato, che si vorrebbe finalmente liquefatto nel mercato globale, portando a termine il processo di secolarizzazione alla fine del quale c’è lo scioglimento di ogni trascendenza (anche di quella «artificiale» dello Stato) nell’immanenza più assoluta rappresentata dal mercato globale ossia dal relazionarsi solo orizzontale e contrattuale di tante solipsistiche monadi quanti sono gli individui, «liberi e responsabili» (come li definisce la retorica liberale che non tiene per niente conto della forza condizionatrice, sui singoli come sui popoli, della finanza e dell’economica di assoluto libero mercato), che, nell’ottica liberista, compongono sinallagmaticamente, ossia contrattualisticamente, l’umanità senza più distinzioni in ordine a culture, religioni, identità, fedi, etc.

Opporre alle scatenate forze del globalismo finanziario e mercantile – tra l’altro sottovalutando la realtà, purtroppo sempre presente, del peccato originale – la «welfare community» o la sussidiarietà reticolare, orizzontale (la sussidiarietà autentica, contemplata dal Magistero Sociale Cattolico, è solo quella verticale), è come affrontare Golia con la fionda. Certo a Davide la cosa è riuscita ma solo con l’aiuto soprannaturale di Dio. Solo i santi, non per sola loro forza umana, hanno saputo fare quel bene che a noi non sempre riesce di fare.

Cosa insegna lesperienza storica

Ecco perché, sul piano naturale del Politico, è necessario riflettere sulle esperienze storiche alle quali il cattolicesimo politico, nel solco dell’organicismo e non del liberalismo, potrebbe oggi richiamarsi, pur con tutti i necessari aggiustamenti temporali dovuti alle variate condizioni storiche attuali.

Pio XI, nella Quadragesimo Anno, consapevole delle diverse basi filosofiche che lo distinguevano da quello di matrice cattolica, dopo averlo elogiato criticava il corporativismo fascista perché tendeva, totalitaristicamente, a «fagocitare», anziché vivificare, i corpi intermedi sindacali (i sindacati, datoriali ed operai,del regime erano sindacati pubblici, di Stato, unici per ogni categoria,inseriti in organi statuali, le corporazioni, corrispondenti ai vari settori economici nazionali). Un «difetto», questo della mancanza di autonomia sindacale, di cui si erano resi conto per primi propri i fascisti più avveduti come Sergio Panunzio, Gino Arias, Giuseppe Bottai. Ed infatti nel dibattito del tempo, che vide la partecipazione anche di molti cattolici (come Amintore Fanfani, giovane professore di storia dell’economia e di diritto corporativo dell’Università Cattolica), venivano avanzate serie proposte di riforma – ad esempio, le nomine sindacali dal basso al posto di quelle dall’alto – più «liberali» del sistema, che tra l’altro, per quel difetto di libertà sindacale, non sempre riusciva a centrare gli obiettivi di una maggior giustizia sociale.

Tuttavia, a dimostrazione che Pio XI non aveva errato nel ritenere l’esperimento fascista emendabile e correggibile, se Giuseppe Toniolo, uno dei padri nobili del «corporativismo cattolico», fosse vissuto oltre il 1918 avrebbe sicuramente osservato con interesse, se non appoggiato, l’esperimento del regime magari avanzando critiche simili a quelle del Papa e degli stessi «fascisti di sinistra».

Il socialista riformista Bruno Buozzi, che sarà ucciso dai nazisti su soffiata – così pare – del PCI, ebbe l’incarico, nel periodo badogliano, di liquidare il patrimonio dei sindacati fascisti. Invece Buozzi non solo non liquidò quel patrimonio (consentendo, così, nel dopoguerra, alla CGIL unitaria e poi, dopo la scissione sindacale degli anni cinquanta, anche alla UIL ed alla neonata CISL, di suddividerselo) ma ebbe pubblicamente parole di elogio verso i sindacalisti fascisti che, come disse, pur in un clima autoritario e privo di libertà sindacale, avevano operato per il bene delle classi lavoratrici edificando un monumento giuridico e sindacale del quale, nell’età democratica, bisognava conservare princìpi e fondamenti per ulteriormente svilupparli (secondo alcuni storici furono proprio queste esternazioni a costargli la vita in quanto cadde in sospetto al PCI che quindi ne agevolò la cattura da parte dei nazisti, dopo l’8 settembre).

Quando oggi si parla di «concertazione» si invoca, pur senza dirlo, un sistema di relazioni sindacali che gli studiosi non esitano a definire di tipo corporativista, nel quale, poi, l’equilibrio nei rapporti di forza tra le diverse componenti sociali è mediato dallo Stato. È un dato di fatto che nell’articolo 39 della Costituzione del 1948, mai attuato, laddove insieme alla libertà sindacale si parla di riconoscimento giuridico dei sindacati e della loro «rappresentanza unitaria» finalizzata a stipulare contratti collettivi nazionali con efficacia erga omnes, ossia verso tutti gli appartenenti ad una medesima categoria, iscritti o meno ai sindacati, è proposto un modello corporativista «democratizzato», che teneva conto delle critiche avanzate negli anni Trenta nell’ambito dello stesso regime fascista. Anche se, poi, furono proprio i sindacati cattolici, timorosi dell’eventuale prevalenza di quelli comunisti nelle «rappresentanze unitarie», ad opporsi all’attuazione dell’articolo 39, alla sua formulazione, nel testo vigente di chiara ispirazione corporativista, lavorarono principalmente le forze politiche di ispirazione cattolica, interessate a conservare quanto di buono era stato realizzato nella precedente esperienza «autoritaria».

Quei cattolici, evidentemente, pur essendo passati per la dittatura, non avevano paura di un ruolo forte – che non significa affatto onnipervadente – dello Stato. Piuttosto, eredi del cattolicesimo sociale otto/novecentesco, essi cercavano di evitare entrambi gli errori dello statalismo e del liberismo, ma senza negare la funzione giusta e necessaria della Comunità Politica ossia, nella modernità, dello Stato. Uno Stato Organico, uno Stato di corpi intermedi ma uno Stato sovrano. E non succube dei «mercati finanziari» e quindi schiavo del ricatto dello spread.

Affermiamo tutto questo appoggiandoci anche sulla Autorità di Benedetto XVI, che i catto-liberali citano di continuo tentando di farlo passare come uno dei loro. Benedetto XVI, di recente, ha parlato di necessità di una proporzionata Autorità politica – dunque conscia dei suoi limiti naturali ma altrettanto consapevole del suo ruolo non solo regolativo – in quanto il mercato da solo, contraddicendo il mito della mano invisibile, non è capace di autoregolarsi (8). Basta anche solo questo per porre fine al sogno dell’utopia catto-liberale.

Luigi Copertino





1) Diciamo solo che il nostro interlocutore è docente presso una nota università pontificia. Questo dimostra quanto il liberalismo sia purtroppo penetrato in tutte le istituzioni cattoliche, laddove un tempo esso ne era proscritto se non addirittura «scomunicato». Il fatto che oggi invece il liberalismo tiene cattedra nelle università cattoliche non toglie che poi, quando si va in fondo alle questioni senza sorvolare sui «fondamentali», la posizione catto-liberale si rivela incompatibile con il Cattolicesimo.
2) Confronta Joseph Ratzinger «Fede, Verità, Tolleranza. Il Cristianesimo e le religioni del mondo», Cantagalli, Siena, 2003, pagina 122, dove l’autore concede che: «Non si può disconoscere un certo diritto al relativismo nell’area politico sociale».
3) Senza però dimenticare che, d’altro canto, i cattolici hanno a loro volta, anche se non sempre e non ovunque, perseguitato gli altri e questo è avvenuto quando tra gli stessi cattolici il Politico è stato troppo assolutizzato, magari per risposta ad eventi come scismi ed eresie.
4) Naturalmente non senza distinguere a quale tipo di «organicismo» bisogna fare riferimento, dal momento che ne esiste anche uno immanentistico, «neopagano», che falsifica le basi comunitarie della convivenza umana riducendole all’espressione di un sostrato sociologico, culturale, meramente identitario, naturalistico, senza alcuno spazio all’Amore trascendente.
5) Non è un caso se gli anarcoliberisti – radicali del liberismo che invocano l’abolizione completa dello Stato e di qualsiasi Autorità – si richiamino, facendolo proprio, al pensiero di Marx e si definiscono «marxiani» anche se non «marxisti» ossia non comunisti.
6) Gli Stati, invece, non sono affatto aziende e pertanto non sono tenuti al pareggio di bilancio in quanto devono servire i cittadini nei loro effettivi bisogni primari ossia la salute, l’istruzione e la formazione, la cultura, il lavoro stabile, la vecchiaia serena. Non devono al contrario rientrare nelle prestazioni di un welfare sano quelli che non sono assolutamente bisogni primari come, ad esempio, l’aborto, il riconoscimento delle unioni civili o omosessuali, le prestazioni assistenziali superflue perché non socialmente lesive, agevolazioni pensionistiche deleterie sul tipo delle «baby pensioni» o agevolazioni fiscali sul tipo della bassa tassazione delle ricchezze patrimoniali cospicue.
7) Per inflazione fisiologica a due cifre, stando a quanto sostengono diversi economisti, intendiamo un limite massimo del 20-30% che, a fronte di una relativa diminuzione del valore reale della moneta, consentirebbe una riduzione della disoccupazione in misura direttamente proporzionale al predetto tasso di inflazione. Non è, come sostengono i liberisti, il tasso «naturale» di disoccupazione ad essere fisiologico al sistema e, quindi, moralmente accettabile ma, al contrario, quello di inflazione. Né tale tasso fisiologico di inflazione può essere ritenuto, come sostengono i monetaristi, una sorta di tassa occulta che lo Stato preleva sul reddito di impresa e sui salari. Esso è, piuttosto, il costo necessario per mantenere il sistema in un equilibrio socialmente accettabile, evitando le eccessive disuguaglianze che poi portano ad altrettante inefficienze economiche oltre che allo scatenarsi della conflittualità sociale, dalla quale derivano, infine, quei danni che si sarebbero voluti evitare con le politiche di austerity e che il solo «Stato di polizia» alla lunga non può fermare. La monetizzazione del debito pubblico, mediante una Banca Centrale sottoposta ad una Autorità Politica responsabile e conscia dei suoi limiti, è lo strumento principale delle politiche keynesiane di «deficit spending», le uniche capaci di aumentare o, nei periodi di recessione, sostenere la domanda aggregata ossia il potere d’acquisto ed i redditi e, quindi, i consumi. Con l’effetto collaterale di attrarre gli investimenti privati, i quali si dirigono solo nelle aree dove sussiste la possibilità di vendere la produzione ossia dove la domanda aggregata è forte. Non è un caso se recenti statistiche ci dicono che gli investimenti privati stanno abbandonando l’eurozona a causa della contrazione della domanda aggregata imposta dalle politiche liberiste di austerity. Si tenga infine conto che lo Stato monetariamente sovrano se, da un lato, ha la possibilità di immettere liquidità nel sistema, dall’altro, ha quella di farla defluire, rallentando o sospendendo la creazione di moneta oppure aumentando il tasso di sconto o la pressione fiscale, non appena si manifestano segni di eccessiva inflazione.
8) L’occasione è stata data al Papa durante una udienza concessa nel 2011 ai partecipanti ad un congresso internazionale promosso dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.



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