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Mumbai: il terrorista lavorava per la CIA e la DEA
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Il 27 ottobre scorso, l’FBI ha reso noto di aver arrestato un terrorista islamico che – secondo l’accusa – stava preparando un attentato contro il Jyllands Posten, il giornale danese che aveva pubblicato le vignette offensive contro Maometto. Faccia orientale, ma cittadinanza americana: il terrorista è nato a Washington da un diplomatico pakistano e da madre statunitense, ha vissuto tra Filadelfia e Chicago dove ha l’ex moglie e i figli, ha cambiato il suo nome di nascita (Daood Gilani) in quello di David Coleman Headley. Un uomo di 49 anni.

Il nome ha fatto drizzare le orecchie agli inquirenti indiani che indagano sulla strage di Mumbai: come si ricorderà, nella strage ebbero parte almeno due uomini in abiti occidentali, capelli a spazzola di taglio militare, che apparivano ben addestrati nell’uso micidiale delle armi. Persino i giornali inglesi ebbero qualche sospetto:



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Ora, questo mister Headley risultava alla polizia aver visitato l’India per ben nove volte prima (e dopo) l’attentato di Mumbai, esibendo il suo passaporto americano con regolare visto: non turistico, ma d’affari.

«Stanno emergendo indizi» dicono gli inquirenti indiani, che Headley ed un un pakistano americano arrestato con lui, Tahawwur H. Rana, in quei viaggi abbiano compiuto i sopralluoghi e la mappatura dei luoghi in cui doveva avvenira la tragica sparatoria: la stazione ferroviaria Chatrapati Shivaji, l’Hotel Taj e l’hotel Oberoi Trident, di cui infatti gli attentatori mostravano di conoscere benissimo  gli interni.

Sempre Headley sarebbe la persona che, fingendosi ebreo, si sarebbe fatto ospitare dalla «Nariman House», l’ostello per soli ebrei gestito da un rabbino della potente organizzazione americana dei Chabad Lubavitcher, in cui poi gli attentatori avrebbero ammazzato sei persone: finzione che il passaporto americano di Headley ha sicuramente facilitato.

Secondo gli investigatori indiani, Headley è membro del gruppo islamista Lashkar e-Taiba e (come risulterebbe da intercettazioni telefoniche) «è stato in contatto con le stesse persone che davano ordini ad Ajmal Amir Kasab», l’unico terrorista catturato vivo a Mumbai, ed ora sotto processo.

E’ probabile che a precipitare l’arresto dell’americano sia stata l’indagine condotta dalla Digos, che a Brescia ha smantellato una «cellula» composta da due pakistani, padre e figlio, che – riporto notizie di stampa – «hanno pagato l’utenza telefonica di chi impartiva ordini e dava istruzioni ai terroristi che hanno ucciso 195 persone ferendone quasi 300 l’anno scorso a Mumbai, in India, era stata pagata con denaro partito da Brescia. Si tratta di 229 dollari (...) Secondo le indagini i due, usando l’identità di una persona ignara, avrebbero pagato l’account telefonico utilizzato da soggetti in contatto con gli attentatori», e la loro agenzia di trasferimento di denaro avrebbe  trasferito in due anni 400 mila dollari a quello che la nostro polizia definisce «un fantasma», la cui identità e nota ma non divulgata.

Si tratta della «persone» o delle  «persone che davano ordini» ai terroristi in azione, magari dalla sede stessa dell’ostello dei Lubavitcher? E perchè resta anonimo per tutte le polizie?

Fatto sta che la vicenda ha indotto l’FBI a fare, a pezzi e a bocconi, ammissioni a dir poco imbarazzanti.

Nel 1998 Headley (allora si chiamava ancora Daood Gilani) era stato arrestato per traffico di eroina dal Pakistan agli USA: «I documenti giudiziari» ha scritto il New York Times, «attestano che dopo il suo arresto l’uomo diede tante informazioni sul suo coinvolgimento nel traffico di droga da essere condannato a meno di due anni, dopodichè fu mandato in Pakistan a compiere operazioni di sorveglianza sotto copertura per conto della DEA, Drug Enforcement Agency».

terrorista_mumbai_1a.jpgInsomma, anche da questo reticente resoconto si capisce che cosa è successo: Gilani diventa collaboratore di giustizia, come si direbbe da noi, e viene incaricato di infiltrare le reti del narcotraffico pakistano. Fornito per giunta di un nome americano, David C. Headley, su un passaporto nuovo di zecca, perchè i suoi viaggi tra varie frontiere (specie quella sorvegliatissima India-Pakistan) non suscitassero sospetti nè la possibilità di risalire al suo passato di delinquente. 

Fatto signiificativo, nel mandato d’arresto l’FBI non menziona il «lavoro» di Headley per la DEA.

Quanto ad Headley – rivela l’agenzia ebraica Voz  Is Nejas (che c’è di nuovo?, che si definisce «la voce della comunità ortodossa ebraica americana») – «nei suoi incontri in India si presentava spesso come agente della CIA». Il che non è strano, aggiunge l’agenzia, «perchè dall’11 settembre il muro di separazione fra queste due agenzie è caduto, a causa dei collegamenti tra droga e terrorismo, specie nel contesto delle operazioni fra Pakistan ed Afghanistan» (1).

Logico, logico. Ora la versione che filtra ufficiosamente è che Headley, «lacerato fra due lealtà», avrebbe finito per aderire al gruppo terroristico Lahkar i-Tahiba, che i nostri media sono lieti di definire «un braccio di Al Qaeda», e che gli indiani sanno essere una formazione indipendentista del Kaskmir, collegata con l’ISI, i servizi pakistani. Ridiventato islamico e terrorista, Headley-Gilani (quasi cinquantenne) avrebbe superato anche un periodo di addestramento in un campo guerrigliero. Fino a partecipare all’attentato di Mumbai, non è chiaro se solo come preparatore, o sparando.

La figura dell’agente traditore e passato al nemico però – ammette anche l’organo ebraico – contrasta col fatto che, a quanto pare, anche diventato «terrorista», Headley ha continuato a fornire agli americani preziose informazioni sul gruppo che aveva infiltrato, e che è così difficile infiltrare.   Addirittura avrebbe avvertito i suoi capi in USA (CIA e DEA non importa) che stava per avvenire un attacco terroristico a Mumbai a settembre.

L’attacco, come sappiamo, è invece avvenuto il 27 novembre 2008 (190 morti e 300 feriti). Ma proprio grazie a queste informazioni, «le autorità americane erano state in grado di allertare il governo del Maharastra (la cui capitale è Mumbai) di imminenti attentati a specifiche installazioni di Mumbai», giungendo a precisare che avrebbero preso di mira degli alberghi: il Taj, ma anche il Sea Rock e il Land’s End, che sorgono nella stessa zona.

Tutto quasi esatto, tranne la data. Che disdetta. Non accade sempre così nell’imminenza dei più tremendi attentati «islamici»?

Mesi prima dell’11 settembre, numerosi servizi di mezzo mondo avevano avvertito che «Al Qaeda» stava preparando qualcosa di grosso a New York, usando degli aerei come bombe. Nell’attentato alla metropolitana di Londra del luglio 2005, il Mossad ebbe il tempo di avvertire Netanyahu – che si trovava a Londra – di non uscire dall’hotel perchè ci sarebbero state delle esplosioni: ma purtroppo, come sappiamo, gli agenti israeliani non ebbero il tempo di avvertire le autorità britanniche della strage imminente.

Succede sempre così: le spie occidentali o sioniste sanno tutti degli attentati che stanno per avvenire, avvertono anche (così nessuno potrà accusarli di aver mancato ai loro doveri) ma non riescono mai a sventarli.

Così, a volte, accade che a dover sventare attentati islamici, o a dare informazioni sui perpetratori, siano modestissimi individui – come la sguattera messicana Maria, che segnalò gli «israeliani danzanti» l’11 settembre e provocò il loro temporaneo arresto – o semplici passanti, privi di abilità d’intelligence. Come quella signora Niva Ben-Harush che qualche giorno fa (il 23 o 24 novembre, secondo la BBC) ha segnalato alla polizia israeliana un giovanotto sospetto che aveva posto una bomba sotto un veicolo nei pressi del porto di Tel Aviv: prontamente arrestato, il sospetto si è rivelato essere «un agente principiante del Mossad in addestramento», e ancor più prontamente rilasciato (2). Alla donna è stato spiegato che «si trattava solo di un’esercitazione». E il Mossad ha fatto sapere che «non è solito informare gli agenti di polizia in uniforme delle sue esercitazioni».

Se non fosse stato per la signora Niva, saremmo qui a piangere una «strage di Hamas» (o forse dell’Iran: ottima ragione per bombardare) nel cuore di Israele. Un altro orribile attentato dei sanguinari musulmani.

Ma torniamo ad Headley. L’FBI fa capire che la spia americana ha «tradito» subito dopo aver dato l’informazione esatta (tranne per la data) del prossimo attentato a Mumbai. La polizia indiana si lamenta che l’FBI  «ritarda ogni nostro tentativo di avere accesso ad Headley», ossia ne impedisce l’interrogatorio da parte degli indiani, ed è «insolitamente renitente» a fornire dettagli sulle attività del terrorista super-islamico, ancorchè passato al nemico.

Per indovinare i motivi del ritorno all’Islam e al Jihad di Headley (Gilani), non ci restano che le poche notizie fornite dal New York Times (3).

Come abbiamo detto, è figlio di un diplomatico pakistano dell’ambascita di Washington, e di un’americana, Seril Headley (di cui evidentemente ha preso il nome). Donna interessante, la signora Seril (è morta nel 2008): per anni ha tenuto un pub a Filadelpia, il «Khyber Pass», noto a tutti i grandi bevitori. Lei stessa amantissima del whisky (e delle relazioni sessuali multiple) aveva passato la passione al figlio, di cui aveva avuto la custodia dopo il divorzio. Secondo un amico di nome Jay Wilson, ciò avveniva negli anni ‘70, «quando ragazze, erba e qualunque altra cosa erano facili, e Daood non era immune dai piaceri dell’adolescenza americana».

Un comportamento non del tutto islamista: simile a quello di Mohammed Atta, il capo dei terroristi islamici dell’11 settembre, entusiasta consumatore di superalcoolici.



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Foto di famiglia: Daood Gilani (David Headley) da piccolo, con la mamma e la sorellina


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Il bar per bevitori Khyber Pass a Filadelfia, dove Gilani-Headely ha passato anni non-islamici con la mamma



Anche se nei suoi primi anni di vita, per interessamento del papà diplomatico, Daood aveva frequentato una scuola militare pakistana, per cadetti da preparare alla carriera di ufficiale. Fino ai 16 anni. Ma poi il ragazzo aveva preferito tornare in USA con l’allegra mamma, e diventare un vero americano, fino al giorno in cui si è fatto beccare per traffico di droga, ed ha dovuto rispondere al richiamo della CIA o della DEA, insomma della patria.

Nonostante la delusione – ci informa la Reuters – la CIA sta cercando attivamente di reclutare americani di origine araba e iraniana (4). A Dearborn, Michigan, luogo dove abita una forte colonia arabofona, l’Agenzia ha postato inserzioni a tutta pagina offrendo l’arruolamento. L’Agenzia ha persino diffuso degli spot nelle TV locali. In uno si presentano cinque professionisti con la faccia da arabi e un ottimo inglese, un ingegnere, uno scienziato, un economista, un avvocato e un docente universitario – che poi proclamano in coro: «Noi lavoriamo per la CIA».

In un altro spot, si vede una cena in una casa americana di evidente aspetto arabo, e la voce fuori campo intona: «La tua nazione, il tuo mondo. Vale la pena proteggerli. La CIA offre una carriera».

Non sembra che la seduzione stia funzionando. Molti abitanti del luogo si dicono contrari alla politica USA in Medio Oriente. Altri dicono: «Sono gli stessi che tengono sotto intercettazione tutte le nostre telefonate. Ne abbiamo le scatole piene di gente che ci dice: ti chiami Mohammed? Sarai un terrorista».

Si può capire che aver dovuto arrestare l’agente Headley per la strage di Mumbai sia stato duro, per l’Agenzia. Può anche risultare il peggio, che l’attentato sia stato istigato da questo collaboratore.




1) «Mumbai - Indian Newspaper: American Suspect Eyed In Chabad House Attack, Might Be A CIA Double Agent», Voz is Nejas, 26 novembre 2009.
2) «Israel police ‘arrest Mossad spy on training exercise’ », BBC, 24 novembre 2009.
3) Ginger Thompson, «A Terror Suspect With Feet in East and West», New York Times, 21 novembre 2009.
4) «CIA goes hiring in heart of Arab America», Reuters, 27 novembre 2009.



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