L’evangelizzazione del Nuovo Mondo tra missio ad gentes e diritti umani degli indios (parte I)
30 Novembre 2009
Premessa
Da molti segnali si può ormai capire chiaramente che è in atto una nuova ondata di anticattolicesimo viscerale che non esita a riprendere i vecchi luoghi comuni che i polemisti protestanti, massoni ed illuministi da cinque secoli usano contro la Chiesa cattolica. Si tratta di questioni storiche ormai abbondantemente indagate sul piano squisitamente storiografico e ben chiarite nella loro effettiva realtà dagli storici, molti dei quali, anzi la maggior parte, del tutto alieni da qualsiasi simpatia, per non dire da qualsiasi accostamento di fede, verso il Cattolicesimo.
Quando lo storico è persona seria ed usa far parlare la documentazione, dopo naturalmente averne accertato l’assoluta autenticità ed obiettività, non ha alcun problema a dare conto della realtà effettiva degli avvenimenti indagati anche quando questa non testimonia affatto a favore delle molte «leggende nere» costruite ad arte dalla propaganda anticattolica del passato e trapassata nei media e nei libri di scuola come fosse seria storiografia anziché quel che è: appunto mera propaganda.
Ma, al di fuori degli ambienti specialistici, i propagandisti continuano ad imperversare detenendo ancora il potere mediatico. Un potere che ha dalla sua una forza dirompente ossia quella dell’immagine capace di evitare allo spettatore la fatica dello studio e dell’autonoma ricerca delle fonti. Usando di tale potere, i propagandisti, travestendosi da storici, approfittano della grande ignoranza dei cattolici in materia storica e riescono in tal modo a convincerli che la storia della loro Chiesa sarebbe soltanto una immonda sequela di orrori, errori e misfatti.
Con la conseguenza, ed è questa il danno più grande, che molti tra i cattolici finiscono per mettere a rischio la loro fede. Perché se la Chiesa fosse davvero la responsabile unica di tutti i mali dell’umanità come credere alla Verità di fede di cui Essa si fa portatrice e come credere, in fondo, alla stessa Parola del Suo Fondatore?
Come rilevava, anni fa, il cardinale Giacomo Biffi, nell’introduzione ad un libro di Vittorio Messori
(1), i nostri ragazzi nella scuola di oggi sono a costante rischio di perdere la fede di fronte alle apodittiche affermazioni di questo o di quel professore di storia, perlopiù di formazione sessantottina e, soprattutto, ignorante come una capra di quanto la revisione storiografica - ripetiamo: non di parte cattolica - abbia scientificamente del tutto modificato le conoscenze storiche e, di conseguenza, i giudizi in passato elaborati, sulle vicende cruciali della Chiesa, sotto l’impulso della polemica politico-religiosa del momento.
Naturalmente, il fatto che la storiografia sia oggi molto più equilibrata ed avveduta nel giudizio e nella ricostruzione della realtà effettiva del passato non significa che essa abbia «certificato» la vecchia apologetica cattolica, imbevuta, al contrario, di «leggende auree» e di «racconti edificanti», altrettanto impresentabile perché anch’essa espressione delle vecchie contro-polemiche stile XIX secolo.
Tuttavia, come si diceva, nonostante l’enorme strada fatta dalla migliore storiografia per fare luce su certi eventi del passato, senza cadere nel vecchio pregiudizio anticattolico, oggi, in un rinnovato clima di anticattolicesimo sempre più palpabile, ecco che c’è chi rispolvera la confutata storiografia veterorazionalista per riproporre cliché storiografici del tutto insostenibili e superati.
Ci siamo di recente occupati, su questo giornale on line, di Aménabar e del suo film, anticattolicamente taroccato, sulla filosofa neoplatonica del V secolo, Ipazia. In tale occasione abbiamo indicato in La 7, una TV del circuito debenettiano di «Repubblica», una delle casse di risonanza del mito della «martire pagana». Abbiamo avuto modo, sempre di recente, di assistere, proprio su La 7, ad un documentario pseudo-storico, della serie «Imperi», di Valerio Massimo Manfredi sul «genocidio» degli indios nella conquista ispanico-cattolica dell’America Latina.
Manfredi è uno scrittore specializzatosi in bufale storiche come quella su Artorius ossia sulla presunta origine romana della leggenda di re Artù. Dopo aver tentato, senza successo, di surrogare un programma, altrettanto «bufalesco» come Voyager quando il suo autore passò armi e bagagli alla RAI, il nostro Manfredi si è ora lanciato, nella speranza di un maggior successo mediatico, nella documentaristica televisiva politicamente corretta.
Il documentario imbastito dal Manfredi sulle vicende della conquista dell’America latina era degno, appunto, della polemica massonica del tardo ottocento, riproposizione a sua volta di quella illuminista del XVIII secolo e di quella protestante del XVI-XVII secolo, e pertanto pieno di falsi luoghi comuni o di pseudo-verità per giunta reinterpretate in modo distorto per assecondare l’evidente intento della polemica anticattolica che era l’unico ed esplicito fine dello stesso. Per questo abbiamo sentito il dovere di fornire ai nostri amici e lettori qualche elemento di aggiornata conoscenza storiografica per meglio comprendere quale fu in effetti la realtà storica dell’evangelizzazione dell’America latina.
L’avversione protestante al mondo latino-americano
A partire dal XIX secolo l’America latina è stata oggetto di una violenta aggressione, religiosa, culturale e politica, da parte dell’America protestante. Sulla scorta della dottrina Monroe, che stabiliva l’allontanamento degli europei dal suolo americano («l’America agli americani») e quindi il diritto di supremazia degli Stati Uniti sull’intero emisfero occidentale, all’epoca limitato al solo continente americano, gli Stati Uniti finanziarono e appoggiarono le rivoluzioni liberal-massoniche anti-ispaniche in tutto il Centro e Sud America.
Ancora oggi gli Stati Uniti, a supporto della loro politica di egemonia continentale in base alla quale essi non hanno esitato ad appoggiare le peggiori dittature militari sorte a difesa di un liberismo spietato e di un latifondo schiavista, finanziano la penetrazione nel sud America delle sette protestanti nordamericane allo scopo di decattolicizzare l’America latina, facendo purtroppo leva su un terreno già preparato dai disastri provocati in seno alla Chiesa cattolica sudamericana dalla cosiddetta «teologia della liberazione», di stampo marxista. Del resto una simile «protestantizzazione» fu tentata anche nell’Italia post-risorgimentale dalla cricca liberal-massonica giunta al potere nel 1860.
La vecchia storiografia asservita a tale progetto egemonico ha dipinto la storia dell’evangelizzazione dell’America latina nei termini di un genocidio perpetrato dalla corona asburgica con la complicità della Chiesa cattolica. Di contro a tale evangelizzazione criminale quella protestante nell’America anglosassone sarebbe stata limpida, pura, civile ed avrebbe creato nella parte settentrionale del continente americano uno spazio di libertà e di progresso nel quale, terra promessa al «nuovo popolo di Dio» dei «veri cristiani», è sorto l’Occidente liberale inteso come «cristianità» secolare, finalmente liberata dagli oscuri dogmi papisti, e pronta alla sua missione universale consistente nell’esportazione globale dell’«economia libera» redentrice delle ataviche piaghe dell’umanità.
Convergente con tale storiografia protestante, pur partendo da presupposti definibili di sinistra, ma la cosa non deve meravigliare semmai deve far riflettere sull’utile ruolo subalterno che la sinistra svolge nei confronti del liberismo occidentalista, è la storiografia detta «indigenista» secondo la quale il 1492 segna la data dell’inizio di un genocidio, conseguente a guerre di conquista e ad un’evangelizzazione effettuata con la spada, nel quale perirono milioni di indios soggetti a lavori forzati, disumane punizioni, spoliazione delle loro terre e dei loro diritti fondamentali, violenza deculturalizzante, imposizione forzata del Vangelo.
Queste due storiografie, affini nella loro avversione al Cattolicesimo, portano a riprova delle proprie asserzioni la nota, ma, diciamolo subito, faziosa, «Brevisìma historia de la destrucciòn de las Indias» del domenicano fra Bartolomé de las Casas, un personaggio che oggi classificheremmo nella tipologia dei cattolici pacifisti, terzomondisti e no-global alla stregua di un padre Alex Zanottelli.
Il clima spirituale e culturale della Spagna del XVI secolo
La Spagna, nel 1492, aveva appena terminato il secolare processo di «reconquista» della penisola iberica occupata, non senza complicità cristiane, otto secoli prima dai mussulmani. I re cattolici, Isabella e Ferdinando, soprattutto la prima, donna di grande fede e santità, avevano impresso all’intera vita nazionale un profondo carattere cattolico chiamando intorno alla corona i migliori teologi del tempo ed iniziando quell’opera di rinnovamento della Cristianità che sfocerà più tardi nella riforma cattolica del Concilio Tridentino.
Si trattava di una Spagna piena di latenti energie spirituali, culturali, missionarie e politico-economiche che aspettavano soltanto l’occasione propizia per espandersi al di là dei confini del regno. La direzione di tale espansione sembrava, naturalmente, l’Africa mussulmana, come ideale continuazione della riconquista, ed infatti l’occupazione delle Canarie e le circumnavigazioni, in concorrenza con il Portogallo, del continente nero erano indicative di tale strategie geopolitica. Ma la scoperta di un Nuovo Mondo, al di là dell’Oceano Atlantico, catalizzò subito tutte le giovanili ed impazienti energie sociali, militari e missionarie della Spagna.
La sorpresa di tale scoperta ed il contatto con genti che non conoscevano la fede cristiana risvegliò lo spirito missionario spagnolo non senza accenti di tipo escatologico: non aveva forse detto Cristo che un segno della fine dei tempi sarebbe stata la predicazione del Vangelo in tutto il mondo? E se fino a quel momento le promesse escatologiche non si erano adempiute si doveva al fatto che la predicazione del Vangelo non era ancora giunta a popoli dei quali si ignorava del tutto l’esistenza. Inoltre, come apparve dalle prime relazioni, e tra esse una lettera dello stesso Colombo, quei popoli pagani potevano essere facilmente cristianizzati perché, a differenza di ebrei e mussulmani, «non avevano setta alcuna».
I re cattolici, con il parziale assenso dei dotti di Salamanca, avevano approvato il progetto di Colombo di trovare l’oriente navigando verso occidente, allo scopo di aggirare l’accerchiamento islamico intorno all’Europa, nella speranza, condivisa tra i sovrani e lo stesso Colombo, di stabilire contatti permanenti ed alleanze con i popoli delle Indie orientali, dei quali aveva scritto Marco Polo. Si favoleggiava persino, sulla scorta di leggende medievali, che tra quei popoli vi fosse un potente regno cristiano governato da un re-sacerdote, il Prete Gianni, naturale alleato in una possibile nuova crociata. Con tutta probabilità questa leggenda era alimentata dalle incerte notizie relative alle antiche comunità nestoriane che i viaggiatori medioevali avevano incontrato lungo la via della seta.
Lo stesso navigatore genovese si sentiva investito di una particolare missione, della quale vedeva un segno nel suo nome che significava «portatore di Cristo», e sognava, da uomo ancora sostanzialmente medioevale, l’organizzazione di una nuova crociata, che portasse alla definitiva liberazione di Gerusalemme. Fermo in tali convinzioni, Cristoforo Colombo non comprese mai di aver scoperto un nuovo continente e rimase sempre convinto di aver davvero raggiunto l’«oriente navigando verso occidente».
Alla notizia della scoperta di nuove terre da evangelizzare il Papato intervenne subito con la bolla «Inter coetera» nel 1493 di Papa Alessandro VI. Sin da tale documento fu chiara l’intenzione della Chiesa, nell’assegnare le terre appena scoperte alla Spagna, di condizionare tale assegnazione allo scopo primo dell’evangelizzazione. Del resto l’evangelizzazione era lo scopo primario che si erano prefissati anche i re cattolici nel chiederne ed ottenerne dal Papa il mandato.
In tale bolla il Papa dopo aver riconosciuto ai re cattolici il merito della «Reconquista» e dopo aver approvato il loro «
progetto di cercare e trovare alcune terre e isole remote, sconosciute e non scoperte fino ad oggi da nessun altro, con lo scopo di attrarre al culto del nostro Redentore e alla conoscenza della fede cattolica i loro naturali e moratori…» ingiungeva ad essi di dover
«
… mandare alle terre e isole sopradette uomini retti e timorati di Dio, dotti, periti ed esperimentati, per istruire nella fede cattolica i naturali e gli abitanti sopradetti ed indurli ai buoni costumi». Già nel secondo viaggio di Colombo, su ordine reale, si imbarcarono alcuni missionari guidati da fra Bernardo Boyl. Seguiranno, successivamente, altri gruppi di missionari sempre più numerosi ed appartenenti a tutti gli ordini, agostiniani, domenicani, francescani, etc. Croce e spada inizialmente camminarono insieme ponendo così, sin da quel primo momento, gravi problemi di coscienza ai re cattolici, ai missionari ed agli stessi colonizzatori.
Bartolomè de Las Casas
Fra questi missionari vi era anche un frate domenicano, particolarmente focoso nel suo acceso millenarismo, destinato a svolgere un ruolo decisivo nell’elaborazione della «leggenda nera» anti-ispanica ed anti-cattolica sulla quale ha poi prosperato la propaganda protestante ed illuminista. Egli, nella sua opera sulla distruzione delle Indie, presenta da un lato gli indios quasi fossero senza peccato, secondo un cliché utopistico che ha fatto storia e che oggi rivive nelle utopie del pacifismo terzomondista, e dall’altro gli spagnoli come lupi rapaci, violenti, avidi.
Il suo manicheismo è proverbiale quanto mistificatorio. Inseguendo le proprie pulsioni millenariste, che lo portavano a vedere il Nuovo Mondo come «il paradiso terrestre ritrovato» abitato da genti pure ed immuni da malizia, egli non si accorgeva, oppure faceva finta di non accorgersi, dei sacrifici umani di massa che quelle pur mansuetissime pecorelle praticavano alacremente (nella sola capitale azteca per la consacrazione del tempio principale furono in una sola volta sacrificati migliaia di giovani delle etnie sottomesse militarmente dagli aztechi: questi popoli sottomessi poi si rivelarono i migliori alleati dei conquistadores spagnoli guidati da Cortés).
Per Las Casas gli indios erano:
«La gente più benevola mai vista, aperta e amica dei cristiani…, mansuetissima…, molto bene disposta, sensata, …e ben educata, caratterizzata dalla prudenza, senza vizi e peccati,…ricchissima in oro, argento e pietre preziose, (che) abitava in regioni ammirevoli per la loro fertilità, prospere, delle più popolate del mondo…».
Insomma con Las Casas nasce quel mito del «bon sauvage» che sarà poi coltivato dall’illuminismo. Gli spagnoli, sempre stando alle parole di Las Casas, si avventarono sugli indios come «
lupi, tigri e leoni crudelissimi, affamati da molti giorni…(e) li finirono … crudelmente». A motivo della brama di ricchezze - continua Las Casas - i conquistadores mediante guerre ingiuste e violenze inenarrabili, e difatti egli non le narra limitandosi soltanto a generiche descrizioni, sottoposero quelle popolazioni «immacolate» alla più dura servitù.
Las Casas se la prende in particolare con la politica del «requerimento». Tale politica aveva per fondamento la concezione, allora comune a tutta la Cristianità, sul potere del Papa come signoria universale non solo spirituale ma anche indirettamente temporale. Alla luce di tale concezione sostanzialmente ancora medioevale, il Papa, signore universale, con la propria bolla, sopra ricordata, anche se con lo scopo primario dell’evangelizzazione, aveva dato il possesso di quelle terre ai re cattolici e quindi gli spagnoli erano in diritto di chiedere agli indios la consegna di quei territori e la loro sottomissione alla sovranità del re di Spagna: la risposta negativa giustificava la «guerra giusta». Il teologo domenicano, invece, in questo non a torto, riteneva tale pratica disonorante per la corona e per la Chiesa e giustificava, al contrario, come «guerra giusta» la resistenza indigena, con la conseguenza di condannare come aggressione ingiusta la conquista spagnola.
E’ da notare che Las Casas ebbe una notevole influenza a corte nonostante che per la corona sarebbe stato più vantaggioso appoggiare le tesi «imperialiste» di Sepùlveda. L’opera di Las Casas fu stampata con il permesso reale e fu dedicata al principe Filippo erede al trono. La propaganda protestante anti-ispanica si impossessò immediatamente di quest’opera utilizzandola per costruire la leggenda nera anti-cattolica che permane ancor oggi nel luogo comune e, purtroppo, nei testi scolastici. Carlo V volle persino che Las Casas leggesse pubblicamente ampi brani della sua opera a corte e ne favorì la nomina a vescovo. Sempre di fronte all’Imperatore, a Valladolid, si svolse la nota diatriba tra Las Casas e Juan de Sepùlveda, sostenitore, quest’ultimo, della tesi della schiavitù naturale degli indios.
Se non si può negare il lato positivo della denuncia di Las Casas, ossia l’intento di separare Chiesa e corona dalle responsabilità dei conquistadores, tuttavia non si può tacere del fatto che il suo atteggiamento manicheo gli impedì di dare un sereno giudizio sia sugli spagnoli, che non erano i «lupi» da lui descritti, sia sugli indios, che non erano le «pecorelle» della sua fervida ed apocalittica immaginazione. Uno tra gli studiosi più accreditati di Las Casas, l’Hanke, afferma che quello della polemica lascasiana è un esempio della: «
… storia dell’esagerazione umana…», aggiungendo che il domenicano è più un polemista veemente che uno storico obiettivo dei fatti e che egli è manicheo nei suoi giudizi dividendo senza esitazione il mondo in buoni e cattivi
(2). Secondo il suo biografo, Las Casas per provare le sue tesi non esitò perfino ad inventare crimini di sana pianta ed a moltiplicare a milioni le vittime di tali crimini. Un’altra studiosa, Marianne Mahn-Lot, afferma che:
«La ‘destrucciòn’ (l’opera lascasasiana)… è interamente negativa e ingiusta, e non si può parlare di distruzione quando il meticciato varia nell’America ispana fra il 30% e l’80%»
(3).
Un esempio delle esagerazioni e della dubbia obbiettività dei resoconti di Las Casas è costituito dal cosiddetto massacro di Choula. Las Casas accusa Cortés di essere il responsabile dello sterminio, in una sola notte, di circa cinquemila/seimila indios nella località di Choula. Bernardino Vàzquez de Tapia, che era presente in detta località al momento dei fatti, ha invece testimoniato, e lasciato agli atti, che il massacro non fu perpetrato dagli spagnoli ma dai loro alleati tlaxclaltechi, una delle tante tribù crudelmente sottomesse dagli aztechi ed in cerca di vendetta e riscatto, che esso non fu affatto un macello di inermi, come pretendeva Las Casas, ma il risultato di uno cruento scontro guerriero e che le vittime, di ambo i lati, non superarono complessivamente le tremila.
La conquista vista dalla parte degli amerindi
Uno studioso di fama come Miguel Leon Portilla ha effettuato approfonditi studi sulle fonti indigene relative alla conquista
(4). Si tratta delle narrazioni di parte india sui fatti intervenuti nel periodo 1519-1521 inerenti la conquista del Messico
(5). Sono testimonianze che non nascondono nessuna delle efferatezze commesse dai spagnoli e che non esitano ad indicare conseguenze e responsabili dei fatti. Tuttavia, quel che è singolare è che nessuna di tali fonti imputa la responsabilità delle violenze alla corona o alla Chiesa. Le fonti indigene responsabilizzano i singoli capitani e soldati spagnoli oppure ripartiscono le responsabilità fra indios ed ispanici.
Nel primo periodo della conquista, in effetti, lo scontro fu durissimo e moltissime le vittime. Il numero più ingente delle quali fu dalla parte degli indios benché gli spagnoli fossero poche centinaia di avventurieri. Il fatto che essi possedessero una superiore tecnologia militare, in sostanza le armi da fuoco, ignota agli indios non spiega, da solo, l’esito della contesa. In aiuto dei conquistadores ispanici si sollevarono, contro gli antichi padroni, le tribù indigene sottomesse al dominio azteco o inca, che furono a loro volta spietate nel vendicarsi delle sofferenze patite. Questo fatto, l’immediato passaggio degli indios vittime della feroce dominazione azteca o inca dalla parte degli spagnoli, per sfuggire alla loro situazione di sottomissione, sta a dimostrare il carattere anche di «guerra civile» indiana che ebbe la conquista.
Uno degli eventi più drammatici di essa fu l’annientamento dell’impero Incas. Un evento che segnò profondamente la coscienza cristiana ispanica a tal punto che molti ritennero del tutto illegittima l’intera colonizzazione spagnola del nuovo mondo. L’imperatore Carlo V fu a tal punto toccato in coscienza da quegli eventi sudamericani che pensò seriamente all’ipotesi di abbandonare la colonizzazione del Nuovo Mondo. Fu il senso cristiano di colpa per la sorte degli indios uno dei motivi che lo indussero ad abdicare in favore del figlio Filippo II per ritirarsi nel monastero di Yuste dove morirà. Per più di cinquant’anni, come vedremo, il dibattito teologico, giuridico e politico circa la legittimità della conquista divampò in tutta la Spagna.
Relativamente ai fatti del Perù abbiamo molte testimonianze sia di parte indigena che di parte spagnola o indio-ispanica. Le principali furono quelle dell’indio don Juan de Santacruz Pachacuti (figlio di caciques, era di etnia collahua nemica di quella inca), dell’indio meticcio nonché gesuita Blas Valera, dell’inca Garcilao de la Vega (pure di etnia inca fu uno dei poeti classici di lingua spagnola), dell’indio don Felipe de Guaman Poma de Ayala (era un nobile inca in rapporti di amicizia intellettuale con i teologi e giuristi salmantini e scrisse l’opera «
El primer nueva crònica y buen gobierno»), dell’inca Titu Cusi Yupanqui. E’ necessario soffermarsi su questi ultimi tre testimoni per la loro equità di giudizio e di azione.
L’inca Titu Cusi Yupanqui era figlio dell’inca Manco II e fu il penultimo re Inca. La sua relazione fu ufficialmente presentata al re di Spagna Filippo II. Ebbe come consigliere spirituale l’agostiniano fra Garcìa de Castro e firmò la pace di Acobamba nel 1566, ratificata per parte ispanica dal suo stesso consigliere spirituale e poi nel 1569 dal re Filippo II e dall’inca stesso per parte india. Titu Cusi amava indicare in quell’accordo di pace l’inizio della riconciliazione e della convivenza tra indios e spagnoli.
Garcilao de la Vega relazionò soprattutto in merito alla sua terra di origine, ossia il Cile, sostenendo che lo spopolamento fra gli indios aveva la sua principale causa nelle guerre fratricide fra l’inca Atahualpa e l’inca Huascar e nello sterminio che gli inca solevano praticare sulle altre popolazioni indie sottomesse. La crudeltà dell’impero inca cui erano assoggettate le popolazioni sottomesse era, a giudizio del de la Vega, immensamente più grande di tutti gli eccessi dei conquistadores.
Dal canto suo, Poma de Ayala denuncia senza pudori le colpe degli spagnoli, rinvenendone la causa nella cupidigia di oro ed argento, nella sete di potere e nella lussuria: li accusa dei rapimenti e delle violenze sulle donne indie, dell’imposizione di pesantissimi tributi e della riduzione in schiavitù degli indios per i lavori nelle miniere. Egli non esenta dall’accusa neanche alcuni chierici e giudica illegittima la conquista sotto il profilo politico perché - a suo dire - i popoli andini avevano accettato pacificamente la sovranità del re di Spagna e pertanto non si sarebbe dovuto muovere loro guerra. Tuttavia Poma de Ayala non tralascia di ricordare anche l’opera preziosa di promozione umana e cristiana condotta da tanti gesuiti e francescani nonché il comportamento cristiano di tanti conquistadores tra i quali cita i viceré don Juan Lòpez de Quintanilla, che definisce «
cristianissimo, amico dei poveri e amante della giustizia», don Luis de Velasco, che «
governò cristianissimamente», don Fernando de Torres y Portugal, che era «
molto cristiano, amico dei poveri, non interessato all’argento», don Martìn Enrìquez, che «governò cristianissimamente sin dare aggravio alcuno agli indios». Ma Poma de Ayala non dimentica di sottolineare le responsabilità degli indios stessi dediti alle guerre intestine, al dominio spietato sugli altri popoli indiani sottomessi, alla pratica della tirannide più spietata che giungeva fino ai sacrifici umani.
Le deportazioni di intere popolazioni indiane ordinate da Atahualpa e lo spopolamento conseguente alla guerra civile tra Atahualpa e Huascar, con connesse carestie ed epidemie, sono ricordate anche dall’indio cuzqueno don Juan de Santacruz Pachacuti, mentre è il gesuita Blas Valera a ricordare alcune, sebbene limitate, conversioni forzate verificatesi all’inizio dell’evangelizzazione.
Quel che è importante evidenziare è che queste testimonianze provengono tutte da discendenti degli Inca, quindi dai «vinti» della conquista, e che tuttavia, pur non nascondendo le responsabilità spagnole nei mali della prima fase della colonizzazione, questi testimoni intendono ricostruire gli avvenimenti per favorire, mediante un giudizio equilibrato, un superamento dello scontro iniziale nella prospettiva di un futuro cammino comune di conquistatori e conquistati nella reciproca giustizia. Essi stessi si proclamano fedeli sudditi del re cattolico al quale si rivolgono affinché reprima gli abusi degli spagnoli.
Luci ed ombre della conquista
La conquista fu un processo, durato alcune decine di anni, contrassegnato da luci ed ombre. Può tuttavia dirsi che con il passar del tempo le luci hanno sovrabbondato sulle ombre. Molti elementi hanno finito per trasformare una conquista feroce in un incontro fecondo tra popoli diversi: innanzitutto l’evangelizzazione ed in secondo luogo la costante sorveglianza della Chiesa e della corona affinché gli indios fossero trattati con umanità fino alla loro protezione totale come liberi sudditi al pari dei coloni ispanici.
La Spagna dell’epoca si fece interpellare implacabilmente dalla propria coscienza cattolica e tutto il travaglio teologico e giuridico in atto nelle sue università come a corte e nelle stesse colonie sta lì a dimostrarlo. Furono gli stessi soldati, conquistadores, encomenderos, missionari ed amministratori della corona a fare ampia autocritica ed a cambiare gradualmente politica verso gli indios. Un travaglio che invece non è dato riscontrare nella spietata colonizzazione protestante dell’America del nord. E’ emblematico, in proposito, che mentre un protestante come John Mair poteva scrivere che gli indiani non erano in fondo uomini ma bestie, perché non conoscevano il commercio e la proprietà privata della terra, il tentativo di alcuni conquistadores della prima ora di giustificare le loro violenze con la presunta ferinità degli indios fu immediatamente condannato dalla Chiesa. Uno dei primi missionari, fra Antonio de Remesal, ebbe a bollare tale tentativo come «opinione diabolica» ed i suoi assertori come seguaci della «scuola di Satana». In tal senso si pronuncerà anche Papa Paolo III.
E’ vero che i conquistadores sottoposero inizialmente gli indios al lavoro schiavistico nelle miniere e che imposero ad essi altre servitù di tipo feudale. Ma va detto che non furono essi ad introdurre la schiavitù nel nuovo mondo: piuttosto essi furono, all’inizio, colpevoli di non averla combattuta come si sarebbe dovuto subito fare ma di averla tollerata nel proprio interesse, subentrando di fatto ai vecchi dominatori indigeni.
La servitù feudale, poi, con il suo sistema di prestazioni personali esisteva anche in Europa, ma, come sottolinea Jean Dumont sulla scorta degli studi di Silvio Zavala, l’encomienda indiana non fu affatto un sistema permanente di riduzione in schiavitù, come hanno affermato gli storici protestanti, perché si trasformò ben presto nella trasposizione in America delle «signorie puramente giurisdizionali» del XVI secolo spagnolo. In questo tipo di «signoria» il signore non era il possessore della terra ma la riceveva dal re in beneficio di governo e per l’usufrutto delle rendite e delle imposte dovute dagli abitanti al monarca. L’encomienda indiana era inoltre priva dei due attributi caratteristici della signoria giurisdizionale in uso in Europa ossia la perpetuità (l’encomienda era concessa solo «fino a che il re lo vorrà», come recitano gli atti di concessione) e la giurisdizione stessa (dal momento che i coloni furono invece sottoposti all’occhiuta vigilanza degli ecclesiastici e dei viceré, ai quali gli indios potevano ricorrere contro eventuali soprusi dei coloni)
(6).
Certamente parte degli encomenderos tendeva a sottrarsi illecitamente alle disposizioni dalla corona poste a tutela degli indios e non mancano negli archivi appelli e ricorsi con i quali quei coloni protestano presso la corte perché la legislazione indiana intaccava i loro interessi coloniali. Ma tutto questo dimostra da un lato la chiara intenzione favorevole agli indios della politica reale e dall’altro che gli abusi coloniali, che pur non mancarono, erano in realtà trasgressioni della legislazione canonica e reale pro-indios.
Un’idea molto diffusa all’epoca era quella, di origine aristotelica, sostenuta dallo stagirita nel Primo Libro della «Politica», sull’esistenza di uomini schiavi per natura. In questa categoria rientravano i prigionieri di «guerra giusta» e i «selvaggi» ossia i «barbari». Su tale base Juan Gines Sepùlveda, umanista e storiografo di Carlo V nonché maestro di Filippo II, sostenne la legittimità della conquista e della riduzione in schiavitù di popolazioni barbare come quelle indie. Francisco de Vitoria, che, insieme a Francisco Suarez, è stato il maggior rappresentante della Scuola di Salamanca, oppose fermamente agli argomenti pagani di Aristotele e Sepùlveda l’evidenza cristiana del fatto che gli indigeni sono uomini e che possiedono anima immortale. Lo spirito tomista del grande teologo lo portava a dichiarare inconciliabile con la fede cristiana tutto ciò che di pagano sussisteva nel pensiero, pur per tanti versi pre-cristiano, di Aristotele. Gli indios, sosteneva Vitoria, saranno pur «barbari» ma sono sempre uomini e non bestie: «
Gentes licet barbarae tamen humane» diceva già Sant’Agostino («
De Civitate Dei», I, 14) di fronte ai popoli nordici che calavano sulla Roma in decadenza.
La convinzione aristotelica sulla schiavitù naturale dei popoli barbari era condivisa anche da Cristoforo Colombo che, infatti, di ritorno dal suo secondo viaggio portò in Spagna alcuni indios ridotti in schiavitù. A richiesta dello stesso Colombo, i re cattolici il 12 aprile 1495 permisero una prima vendita di schiavi. Ma soltanto cinque giorni dopo essi la vietarono. Era accaduto che la regina Isabella in persona, scossa profondamente nella sua coscienza cristiana, volle chiedere un parere ai suoi teologi in merito alla liceità della riduzione in schiavitù dei popoli non cristiani. Ottenuto, come sperava, un parere assolutamente contrario, di propria iniziativa ordinò l’immediata liberazione degli indios e la loro restituzione alla terra nativa.
Non solo: questa grande regina, il cui senso di giustizia fu pari soltanto alla sua santità, risarcì, con il proprio denaro, i compratori, che evidentemente avevano agito sulla base di un permesso che benché errato era stato concesso dalla corona, e promulgò, di concerto con il consorte, la Real Cedùla del 20 giugno 1500 con la quale proibì nei suoi regni la riduzione in schiavitù e la deportazione degli indios.
I re cattolici furono fermi anche nella repressione delle violazioni alle disposizioni antischiaviste: se ne accorse Cristobal Guerra, un avventuriero che nella conquista aveva intravisto un buon affare. Egli nel 1501 portò in Spagna altri schiavi e, su ordine dei sovrani, fu immediatamente arrestato e punito mentre gli indios venivano liberati.
La questione della riduzione in schiavitù venne comunque quasi del tutto chiusa il 2 agosto 1530 con una Real Provisiòn di Carlo V che sopprimeva ogni forma di schiavitù, anche quella dei «prigionieri di guerra giusta» e quella degli indios dediti al cannibalismo che i suoi avi non avevano potuto vietare perché, con una Real Provisiòn del 1503, furono costretti, dalla pressione dell’opinione pubblica, a riammettere come estrema eccezione per casi particolari. Sempre Carlo V ribadirà la proibizione con le Leyes Nuevas del 1542. Alla proibizione seguì la graduale ma ferma scomparsa dell’iniquo istituto anche se in taluni casi, come nel distretto di Popoyan o per gli indios araucani fino alla definitiva proibizione del 1672, esso fu temporaneamente tollerato a causa della particolare bellicosità degli indios antropofagi.
La questione per i re cattolici e per il loro discendente Carlo V, prima di essere giuridica o politica, fu una questione che investiva l’adesione della propria coscienza alla Legge d’Amore di Cristo e a quel suo riflesso che è la Legge naturale. Essi si sentivano massimamente responsabili di fronte a Dio del rispetto della dignità degli indios tanto quanto sentivano la responsabilità per la loro salvezza spirituale. Contro le idee dominanti nell’Europa dell’epoca, in procinto di abbandonarsi all’umanesimo ateo e neo-pagano, che come si è visto considerava la schiavitù qualcosa di naturale, essi usarono tutti i mezzi a loro disposizione per combatterla e sradicarla. Allo scopo di tutelare gli indios furono persino soppressi nelle encomiendas i pur limitati servizi personali imponendo in esse il lavoro libero e retribuito.
La scelta cristiana di vietare la schiavitù nelle proprie colonie fu mantenuta dalla Spagna anche quando ci si accorse che essa comportava uno svantaggio notevole nella competizione internazionale. Infatti mentre le altre potenze usavano come manodopera a basso costo gli schiavi negri deportati dall’Africa, la legislazione ispanica fu tassativa anche contro tale forma di schiavitù che non fu mai praticata nelle colonie spagnole. Ne approfittarono dapprima i portoghesi, in palese contraddizione con la professione di fede cattolica che pur proclamavano, ma soprattutto e massicciamente i protestanti calvinisti, olandesi, francesi, inglesi e quelli luterani danesi. Nel 1713, con il trattato di Utrecht il monopolio della tratta dei negri fu assegnato all’Inghilterra anglicana. Non si dimentichi poi il fatto che agli schiavisti europei gli schiavi negri erano venduti dalle tribù di mercanti beduini convertitisi all’Islam che da secoli, anche in tal caso però in stridente contrasto con l’etica islamica, praticavano la tratta schiavistica delle popolazioni africane.
Le vere cause dello spopolamento indiano
Una delle presunte prove del genocidio indiano sotto il dominio spagnolo che di solito si addita è quella dello spopolamento che in effetti si registra, sulla base delle statistiche demografiche, nel periodo della conquista.
Le più recenti ricerche storiche, demografiche ed epidemiologiche hanno però confutato questa presunta prova. Lo spopolamento, come testimoniavano gli stessi indios, fu dovuto principalmente alle numerose guerre civili indiane, alla fame ed alle deportazioni precolombiane: un quadro al quale si aggiunsero poi le pestilenze che seguirono l’arrivo degli spagnoli.
Si calcola che nel 1492 la popolazione india dell’America latina era di circa 11.300.000 abitanti. Nel 1570 la popolazione bianca raggiungeva soltanto l’1,6% e la nera e la meticcia il 2,26% mentre quella india era pari al 96,58% che in cifre assolute corrisponde a circa 8/9 milioni di abitanti. Ma in tale periodo, ossia nel 1570 e dunque a conquista avvenuta, gli indios colonizzati dagli spagnoli erano soltanto il 18% circa della popolazione indiana ossia non più di 2 milioni di anime.
Questo dimostra che il calo demografico della popolazione india non fu provocato dalla dominazione spagnola ma da altre cause ed in primis dalle epidemie. Gli spagnoli, infatti, portarono involontariamente in quelle terre malattie assolutamente sconosciute, come la febbre gialla e il vaiolo, contro le quali gli indios, già debilitati dalle carestie sorte a causa delle guerre fratricide in cui furono sorpresi dagli ispanici al loro arrivare, non avevano consolidate difese immunitarie. Del resto la cosa fu reciproca perché nello stesso periodo, a causa degli sconosciuti morbi importati dal nuovo mondo, la popolazione della Spagna calò da otto a sette milioni di abitanti.
(fine prima parte)
Luigi Copertino
• Mondo tra missio ad gentes e diritti umani degli indios (parte II)
• Mondo tra missio ad gentes e diritti umani degli indios (parte III)
1) Confronta G. Biffi introduzione a Vittorio Messori «Pensare la storia», Paoline, Milano, 1992; il libro è stato di recente ripubblicato.
2) Citato in Fidel Gonzáles-Fernández, «La coscienza cristiana e i problemi della conquista nella formazione dell’America latina», in AA.VV. (a cura di Franco Cardini) «Processi alla Chiesa - Mistificazione ed apologia», Piemme, Casale Monferrato, 1994, pagina 307. Il nostro presente contributo deve molto all’appena citato saggio del Fidel Gonzáles-Fernández, oltre che naturalmente a tutte le altre opere che saranno citate ed a quelle della succinta bibliografia finale.
3) Confronta M. Mahn-Lot, «El Evangelio y la violencia», pagina 58; citato in F. Gonzáles-Fernández, «La coscienza cristiana …», opera citata, pagina 307.
4) Confronta Miguel Leon Portilla, «El riverso de la conquista. Relaciones azteca, mayas e incas», Mexico, 1974.
5) Tra le fonti esaminate dal Portilla ci sono: «El codice de Aubin», «Los cantares mexicanos», «Los anònimos de Tlatelolco», «Los informantes de Sahagùn», «Historia de la Naciòn chichimeca», «La Crònica».
6) Confronta Jean Dumont, «Il Vangelo nelle Americhe - dalla barbarie alla civiltà», EFFEDIEFFE, Milano, 1992.
Home >
Storia Back to top
|
La
casa editrice EFFEDIEFFE, diffida dal riportare attraverso attività di spamming e mailing
su altri siti, blog, forum i
suddetti contenuti, in ciò affidandosi alle leggi che tutelano il
copyright ed i diritti d’autore. |
|
Nessun commento per questo articolo
Aggiungi commento