L’evangelizzazione del Nuovo Mondo tra missio ad gentes e diritti umani degli indios (parte II)
01 Dicembre 2009
Breve schematizzazione delle fasi della conquista
Per riepilogare schematicamente le diverse fasi della conquista si può con tutta verosimiglianza affermare quanto segue:
- dal 1493 al 1540 la conquista ebbe un carattere violento, confuso ed incontrollato, sebbene già in tale fase la corona, per iniziativa personale dei re cattolici, cercasse di esercitare la propria influenza ordinatrice e di giustizia,
- dal 1540 entra nel vivo la polemica teologica e morale, già avviata nella fase precedente, e si tenta un primo bilancio delle responsabilità,
- segue a partire dal 1542 e fino al 1573 il periodo vero e proprio di riconversione coloniale con il vistoso e più deciso cambiamento di rotta della politica ispanica verso gli indios,
- dal 1573 al 1609 viene raggiunta la pacifica convivenza tra spagnoli ed indios nelle colonie e si sviluppa ampiamente, favorito dalla Chiesa, il fenomeno del meticciato.
Quello del formarsi di un amplissimo meticciato è un fenomeno tipico della colonizzazione ispanica, che storicamente si riscontra in ogni processo di colonizzazione effettuata da parte di popoli cattolici e che si spiega soltanto con l’assenza di qualsivoglia incentivo all’apartheid razziale ed anzi con l’opposto incentivo alla mescolanza razziale di cui, a differenza delle confessioni protestanti, si è sempre fatta propugnatrice la Chiesa cattolica. Anche nel caso del Brasile, colonizzato dai portoghesi, che come si è visto praticavano alacremente la tratta dei negri, il meticciato ha assunto, su sollecitazione della Chiesa, caratteristiche generali come è evidente ancora oggi dai caratteri etnici della popolazione brasiliana.
Dunque può affermarsi che la corona spagnola, sotto la giuda spirituale e teologica della Chiesa cattolica e dei grandi teologi di Salamanca, prese sempre più coscienza delle proprie responsabilità etiche e politiche e che, dopo un inizio molto duro della conquista, sorse una ben chiara volontà sovrana, in questo dichiaratamente ossequiosa alla professata fede cattolica, di repressione dei mali che si erano manifestati in luogo di quella che doveva essere e doveva tornare ad essere soprattutto ed essenzialmente un’opera di promozione umana e di evangelizzazione.
La legislazione della corona a tutela degli indios
Già dal 1495, come si è visto, l’attività legislativa dei re cattolici a favore degli indios si palesa con evidenza: è di quell’anno infatti la prima disposizione sovrana che vieta la schiavitù degli indios. Nella seconda disposizione del 1500 gli indios sono dichiarati uomini liberi. Nel 1501 i re cattolici emanano le “Instrucciones reales” stabilendo che gli indigeni del Nuovo Mondo siano evangelizzati «
senza essere sottoposti a costrizione alcuna» e che si riparassero le offese di qualunque genere ad essi arrecate. Nel 1503 altre “Instrucciones reales” dispongono la costruzione di villaggi per indios «
dove ci sia una chiesa e un cappellano che si occupi di istruire e insegnar loro la nostra Santa Fede Cattolica…, insegnar loro a leggere e scrivere…, e che allo stesso tempo faccia in modo che alcuni cristiani si sposino con alcune donne indios, e le donne cristiane con alcuni indios, perché comunichino e si istruiscano a vicenda, per essere educati nella fede».
Applicando in pieno le sollecitazioni ecclesiali, la corona incentiva e favorisce i matrimoni misti e la formazione del meticciato, fenomeno tipico delle terre di evangelizzazione cattolica non avendo la Chiesa cattolica mai ammesso o praticato, a differenza delle confessioni protestanti, l’apartheid razziale.
Il sistema delle “reducciones”, che sarà successivamente sperimentato con ottimi risultati dalla Compagnia di Gesù nel territorio dell’odierno Paraguay, è già in nuce in tali disposizioni concernenti la costruzione di villaggi per il ricovero e l’educazione degli indios. In queste disposizioni, su iniziativa di Isabella di Castiglia, era inoltre ordinato che «
gli indios siano liberi e non soggetti a servitù» e che «
sia pagato ad ognuno il giorno lavorativo con un salario che corrisponda alla quantità della terra, delle persone e del lavoro che svolgevano… e non sia consentito che persona alcuna faccia loro danno o ingiustizia alcuna».
Una delle fonti normative più importanti nella legislazione indiana della corona spagnola, e che dimostra anche la santità di Isabella di Castiglia, purtroppo ancora non ufficializzata dalla Chiesa, è il codicillo che la regina fece apporre al suo testamento pochi giorni prima di morire. Con esso la regina impone ai suoi successori che: «
… non permettano che gli indios ricevano… alcun danno nella persona e nei beni, ma facciano in modo che siano trattati bene e con giustizia. E se alcun danno hanno subito, si provveda affinché sia riparato».
Pur trattandosi di una disposizione testamentaria, il codicillo divenne parte del diritto costituzionale indiano-spagnolo il quale rimase sostanzialmente in vigore fino alle dichiarazioni di indipendenza a seguito delle rivoluzioni liberal-massoniche ottocentesche: inutile dire che esso fu abolito, insieme a tutta la legislazione monarchica a tutela degli indios, dai nuovi padroni con il pretesto che tale legislazione, impedendo lo sfruttamento della manodopera indiana, era di nocumento allo sviluppo dell’economia liberale.
Il fatto che dopo la morte di Isabella, avvenuta nel 1504, l’impegno della corona a favore degli indios non cessò, anzi divenne ancora più forte, dimostra che la grande regina aveva lasciato un’eredità spirituale immensa e che il problema dei diritti degli indios non fu soltanto la questione di coscienza dei sovrani ma quella di un intero popolo cristiano. Nel 1512-1513 furono emanate da Ferdinando il Cattolico le “Leggi di Burgos” che contengono un formale riconoscimento dei diritti indiani. In tale periodo, subito dopo la morte di Isabella, iniziano i primi dibattiti sulla conquista innescati dall’arrivo in Spagna dei memoriali dei missionari, dei conquistadores e degli amministratori della corona. Sotto la reggenza del vecchio Ferdinando, il francescano Francisco Ximénez de Cisneros, cardinale ed arcivescovo di Toledo, è tra i primi ad impegnarsi nell’ampio dibattito sulla questione indiana che si aprì nel regno. Fu egli a delegare a Bartolomé de Las Casas un “piano per la riformazione delle Indie”.
Nelle Antille spagnole iniziano intanto a comparire le prime “reducciones”. Quando Carlo V, nipote dei re cattolici, divenne re di Spagna affrontò immediatamente il problema indio in totale sintonia di intenti con il suo antico precettore diventato Papa con il nome di Adriano VI. Quest’ultimo emanò la bolla “Omnimoda” nella quale era dettata la disciplina regolatrice dell’attività missionaria nel Nuovo Mondo.
Nel 1542 Carlo V promulga le “Leyes Nuevas” con le quali la questione indiana trovò la sua definitiva sistemazione giuridica. A proposito delle “Leyes Nuevas” il grande storico Pierre Chaunu ha scritto che esse: «
sul piano del pensiero segnano… la vittoria della filosofia scolastica cristiana sull’umanesimo pagano-rinascimentale, sulle scappatoie offerte dalla categoria greco-aristotelica applicata agli indiani, servi a natura»
(7).
Queste Leggi Nuove furono il mirabile punto di arrivo di un lungo cammino costellato di una serie di provvedimenti sempre più incisivi nella direzione della tutela dei diritti degli indiani. A partire dal 1526, con le “Ordinanzas” di Carlo V, si era fatta forte la consapevolezza che la precedente legislazione spagnola, sic et sempliciter trapiantata in America, non era del tutto sufficiente a garantire con pienezza i diritti degli indios. Infatti dalla prima “Instrucciòn” della corona del 29 maggio 1493, nella quale si ordinava a Colombo la missione dell’evangelizzazione degli abitanti del Nuovo Mondo, fino al 1526 erano state mandate in America decine di “instrucciones” con riguardo alla tutela degli indigeni. Si era particolarmente insistito sullo status di “liberi vassalli” da riconoscere agli indios, al pari dei liberi vassalli di Castiglia, e quindi con tutte le prerogative riconosciute a tale status giuridico dal diritto castigliano.
Esemplare in tal senso è l’‘Instrucciòn’ del 16 settembre 1501 indirizzata a fra Nicolas de Ovando, governatore delle Isole e di Tierra Firme del Mar Oceano, con la quale gli si ordina che: «
gli indios siano ben trattati come nostri buoni sudditi e vassalli, e che nessuno osi di fare danno; …e se qualcuno facesse male o danno o prendesse alla forza qualcosa di loro proprietà, che i loro capi Vi lo facciano sapere perché voi possiate castigare in maniera tale che da adesso in avanti nessuno osi fare loro del male».
Nella prima fase della conquista, dunque, la corona, preoccupata della sorte degli indios, tenta di estendere ad essi le prerogative proprie del diritto ispanico semplicemente trapiantando in America l’ordinamento giuridico di Castiglia. Successivamente, come si è detto, sotto il regno di Carlo V si prende coscienza della necessità di creare un vero e proprio diritto indiano che non fosse la semplice trasposizione nel Nuovo Mondo delle leggi di tutela dei sudditi castigliani.
L’imperatore Carlo V, uomo religiosissimo benché molto attratto dalla bellezza femminile (lasciò qua e là qualche figlio naturale, ai quali però non fece mai mancare le sue cure provvedendo al loro avvenire mediante opportune nozze o carriere militari o ecclesiali), prese a cuore il problema indio come un personale caso di coscienza. Il travaglio dell’imperatore era in realtà il travaglio di tutta la Spagna. Non si era mai visto, e forse non si è mai più visto, un intero popolo che, guidato dalla riflessione della sua classe dirigente intellettuale e politica, abbia vissuto un travaglio spirituale come quello che visse il religiosissimo, fino all’eccesso, popolo spagnolo.
A partire dal 1526, con le “Ordinanzas” promulgate da Carlo V il 7 novembre e l’8 dicembre di quell’anno, inizia un processo di “riconversione coloniale”. A queste ordinanze seguì tutta una serie di normative sempre più favorevoli alla tutela dei diritti degli indios e sempre più restrittive dei poteri dei coloni. Nel novero possono citarsi quelle di Madrid del 22 aprile 1528, Toledo del 20 novembre e del 4 dicembre 1528, Toledo del 17 agosto 1529, Madrid del 2 agosto 1530, Madrid del 26 maggio 1536 e 5 novembre 1540, Talavera del 13 febbraio 1541, Fuensalida del 7 ottobre 1541, Valladolid del 21 maggio 1542, Barcellona del 20 novembre 1542 (ossia le cosiddette “Leyes Nuevas”), Valladolid del 21 giugno 1543.
Questo corpo normativo è composto da una serie di direttive volte alla tutela degli indios ed alla punizione dei trasgressori e di coloro che compissero atti di violenza o di riduzione in schiavitù degli stessi. Molte di tali disposizioni, oltre ad esigere dettagliate informazioni sulle violenze commesse a danno degli indios e sullo svolgimento dei processi contro i colpevoli, ordinano la restituzione di quanto era stato tolto agli indiani o la riparazione dei danni loro arrecati.
Il nuovo corpo normativo riformò anche alcuni istituti tipici della prima fase della conquista come l’encomienda, la servitù, la guerra giusta di conquista. Vengono proibite sia la schiavitù che i lavori forzati degli indios. Si proibisce la compravendita di indiani, si restituisce la libertà a tutti gli indios fatti in precedenza schiavi e si proibisce di fare schiavi i prigionieri indios di guerra giusta. Con le Nuove Leggi del 1542 infine la proibizione della schiavitù è estesa a tutti i territori della corona senza eccezione alcuna, salvo temporaneamente e fino a rieducazione per gli indios antropofagi. Ai trasgressori sono comminate pene severe compresa la confisca dei beni e la perdita di ogni ufficio, privilegio o concessione avuta in precedenza.
L’“encomienda”, che come si è già detto da sistema di schiavitù era presto diventata un sistema di protezione degli indios, viene ulteriormente regolata e disciplinata sempre nella prospettiva di una maggiore tutela degli indios. Si stabilisce che gli indios sono affidati all’encomendero «come persone libere e cristiane con lo scopo di essere istruite nella fede e a beneficio degli indios».
E’ inoltre stabilito che gli indios anche se affidati in encomienda rimangono sotto la diretta autorità e tutela della corona: ciò tra l’altro significa per essi la possibilità di ricorrere ai tribunali regi contro l’encomendero e Jean Dumont cita numerosi e significativi esempi di azioni giudiziarie intentate dagli indios contro gli spagnoli e di sentenze, favorevoli agli indiani, che condannavano gli encomenderos al risarcimento nei loro confronti. Si proibiscono l’affitto e il prestito degli indios encomendati nonché i lavori eccessivamente pesanti. Si stabilisce che in tutti i territori spagnoli del nuovo mondo le comunità indie, encomendate o meno, rimangono sempre e comunque sotto la diretta autorità della corona. Viene sancita la condanna regia per i conquistadores che hanno fatto violenza fisica nelle persone o nelle cose agli indios e vengono pertanto sospese tutte le concessioni a suo tempo concesse “per guerra giusta”.
In tutto questo percorso di revisione della politica coloniale, intervenuto tra il 1526 ed il 1542, la corona, uniformandosi ai pareri dei teologi di Salamanca ed alle sollecitazioni della Chiesa, si fece carico, senza infingimenti, delle accuse contro gli spagnoli e si propose una drastica correzione di rotta con la punizione dei colpevoli dei misfatti denunciati. Come si è scritto: «
Essa diventava accusatrice dei reati commessi contro gli indios e difensora degli stessi»
(8).
Ecco perché uno storico protestante, ma intellettualmente e professionalmente onesto, come Gerhardt Ritter non ha potuto fare a meno di riconoscere che: «Particolarmente da elogiare sono i risultati dell’amministrazione coloniale spagnola, che seppe, dopo la confusione dei primi tempi di conquista, frenare la violenza dei conquistatori, impedire l’eccessivo sfruttamento privato e costruire un sistema di economia e di produzione che era un vero capolavoro. Soprattutto, al contrario del metodo più tardi seguito nelle colonie di popolamento inglese… dell’America del nord, gli indiani non furono cacciati o sterminati, bensì salvati dalla distruzione grazie a un ben ponderato sistema di leggi protettive quale non fu mai raggiunto da nessun altro popolo colonizzatore»
(9).
Il rapporto tra missionari, potere politico e teologi di Salamanca nell’evangelizzazione del Nuovo mondo
L’evangelizzazione del Nuovo Mondo fu il risultato dello stretto collaborare tra Chiesa, corona, missionari e i grandi teologi e giuristi cristiani della Scuola di Salamanca. Le Leggi di Burgos del 1512-1513, ad esempio, furono il risultato di una polemica iniziata dal domenicano fra Antonio de Montesinos e dai suoi confratelli. La quarta domenica di Avvento dell’anno 1511 egli in una famosa predica denunciò, davanti a tutta la colonia spagnola di Santo Domingo, la riduzione in schiavitù degli indios che gli encomenderos praticavano contro le disposizioni della corona. Questo frate non si limitò soltanto alla denuncia ma pose sul tavolo il problema della legittimità della conquista e quello del rapporto tra conquista e missione protestando che non si poteva convertire nessun indio se l’accoglimento della fede cattolica doveva coincidere con la riduzione in schiavitù.
Questa denuncia diede occasione alla promulgazione delle già ricordate Leggi di Burgos. Esse costituirono il primo codice di legislazione india, nel senso di prima organica raccolta di norme a tutela degli indiani. Dopo quell’episodio la corona strinse rapporti ancora più stretti con la Chiesa ed iniziò ad inviare in America missionari scelti esclusivamente tra gli Ordini religiosi riformati. Fu creata la figura dell’ecclesiastico con mandato regio, che faceva di esso un regio funzionario, per l’ispezione delle colonie e la repressione degli abusi (“visitador” e “defensor de los indios”). A tale carica, dotata di poteri superiori a quelli delle autorità locali, vennero chiamati quei vescovi che si erano più distinti per l’amore dimostrato agli indios.
Mentre questi missionari agivano sul campo impostando eque relazioni sociali tra spagnoli ed indios, i teologi e giuristi di Salamanca iniziavano l’approfondimento scientifico e teoretico della problematica indiana sul piano del diritto naturale e del diritto internazionale. Da tale approfondimento nacquero il moderno diritto internazione euro-cristiano e la concezione cristiana dei diritti umani.
Il dibattito teologico-giuridico
Tutto il dibattito teologico e giuridico che si sviluppò intorno alla conquista ed all’evangelizzazione ebbe per tema cardine l’interpretazione della, già ricordata, bolla alessandrina e del significato giuridico del patronato sul Nuovo Mondo concesso, con tale bolla, ai re cattolici. Per comprendere a fondo tale dibattito è necessario tenere presente la rinascita del tomismo nella Spagna dell’epoca e la concezione medievale dell’autorità papale che quella bolla presupponeva.
A partire dalla seconda metà del XV secolo e per tutto il XVI secolo in Spagna si assiste alla rifioritura della teologia tomista. Il tomismo sarà il fondamento della antropologia cristiana alla quale si ispireranno generazioni di missionari, teologi e giuristi. La rinascita del tomismo, inoltre, rese possibile, non contro ma in continuità con i presupposti in tal senso già posti nel medioevo, la chiarificazione definitiva della naturalità della comunità politica, dopo i tentennamenti teocratizzanti cui soggiacque il Papato nei secoli medioevali durante la lotta ingaggiata con l’impero per la riforma della Chiesa.
Al momento della scoperta dell’America, nel 1492, la concezione del mondo degli europei era ancora quella medievale. In base a tale concezione l’intero universo era retto da due supreme potestà, entrambe derivanti da Dio (ed il problema della derivazione diretta da Dio anche della potestà temporale era stato l’assillo di tutto il medioevo), ossia l’autorità spirituale del Papa ed il potere temporale del sacro romano imperatore. La contesa tra le due massime autorità medioevali si era risolta con una sorta di accordo che, pur salvaguardando le prerogative sacrali dell’impero, in effetti aveva sancito, e la cosa fu alla lunga ben chiara, la supremazia del Papa.
L’autorità spirituale finì per esercitare il proprio potere, sebbene indirettamente, anche “in temporalia”. Con la crisi che tra il XIV ed il XV secolo colpì l’impero, e dalla quale esso non si risolleverà mai più fino alla sua definitiva scomparsa nel 1918 con la caduta dell’ultimo imperatore asburgico, il beato Carlo d’Asburgo, il Papato, nonostante il temporaneo scisma d’Occidente, ebbe modo di accrescere il proprio potere anche politico occupando tutti gli spazi lasciati liberi dal declinante impero. Pertanto sul finire del XV secolo il Papa appariva come l’unico Signore Universale, anche “in temporalia”. E la cosa doveva essere ancora più evidente per tutti quei regni di recente consolidamento, come quelli fuoriusciti dall’epopea della “Reconquista” nella penisola iberica, che erano sostanzialmente lontani dalla sfera di influenza di un impero ormai ridotto ad un mero regno germanico-danubiano ed a modello simbolico di un’unità europea in procinto di sgretolarsi tanto sul piano politico quanto su quello religioso.
Carlo V fu l’ultimo imperatore del sacro romano impero che coltivò, insieme al suo precettore e poi Papa Adriano VI, il sogno dell’impero universale sul quale “non tramonta mai il sole”, ampliato dai domini oltreoceanici. Quando si rese conto che si trattava di un’utopia (nel frattempo a causa della lacerazione protestante era venuta meno anche l’unità religiosa dell’Europa), all’atto dell’abdicazione divise i suoi regni in due affidando quello ispanico, comprensivo delle colonie americane, al figlio Filippo II e quello germanico, a cui era connessa la corona imperiale, al fratello.
Fatte queste brevi premesse torniamo al problema dell’interpretazione della bolla alessandrina. All’indomani della scoperta del Nuovo Mondo, i re cattolici sollecitarono da Papa Alessandro VI un intervento pontificio che sancisse il diritto della corona spagnola all’occupazione ed all’evangelizzazione delle nuove terre. I sovrani si rivolsero al Papa proprio sulla base della concezione sopra descritta riconoscendo in lui l’unico signore universale anche nel temporale. Alessandro VI, non senza lo scopo parallelo di evitare un conflitto tra la Spagna ed il concorrente Portogallo che rivendicava anch’esso diritti sulle nuove terre, con la bolla “Inter Coetera” del 3 maggio 1493 approvò il progetto di conquista ed evangelizzazione dei re cattolici e quindi affidò alla corona spagnola l’invio di missionari sulle nuove terre (al Portogallo furono riconosciuti gli stessi diritti ma limitati da alcune linee territoriali che in sostanza ne facevano il padrone dell’odierno Brasile).
Il mandato pontificio veniva a porre le basi giuridiche, secondo la concezione ancora medievale dell’epoca, per l’esercizio da parte della corona ispanica del “patronato” (successivamente ufficializzato con la bolla “Universali Ecclesiae” di Giulio II del 1508). Benché in alcuni autori del XVI secolo non mancò l’affiorare della tesi interpretativa per la quale il mandato papale ai re cattolici costituisse un vero e proprio vicariato (il Papa in quanto signore universale avrebbe inteso conferire ai re cattolici una sorta di vicereame sulla nuove terre) la tesi che alla fine prevalse fu quella, perorata dalla Scuola di Salamanca, dell’interpretazione missionaria.
Secondo tale interpretazione il Papa aveva concesso ai re cattolici unicamente il mandato di evangelizzare e di difendere i nuovi convertiti. Questo perché, ed è qui il punto nodale dell’elaborazione salmantina che, come si è detto, è alla base della nascita del moderno diritto internazionale e della dottrina cattolica dello Stato come comunità politica di diritto naturale, il Papa non è signore universale nel temporale ma soltanto nello spirituale e quindi non avrebbe mai potuto concedere ad altri ciò che egli stesso non possedeva.
Da questa interpretazione scaturiva per logica conseguenza il riconoscimento dei diritti umani degli indios e, più in generale, dei diritti umani secondo la prospettiva cristiana, ossia fondati sulla natura essenziale dell’uomo come è rivelata dal biblico “Imago Dei”. La dichiarazione illuminista dei diritti dell’uomo del 1789, tardiva di oltre due secoli rispetto a quella cattolica della Scuola di Salamanca, è di essa soltanto una riduttiva scimmiottatura umanitaria, ispirata dal moderno immanentismo ateo.
Si tenga conto che la dottrina salmantina sarà successivamente abbandonata in Spagna, nel corso del XVII secolo, in coincidenza, e forse non è un caso, con l’inizio del declino della potenza e del prestigio internazionale ispanico, quando tornò a dominare la tesi dell’interpretazione vicariale sostenuta da Solòrzano Pereira: ormai si era già nell’età dell’assolutismo monarchico, della pratica del giurisdizionalismo e dell’imperialismo coloniale. In questa età diventò dominante la teoria dell’origine divina del potere monarchico, sostenuta ad esempio da Giacomo I d’Inghilterra contro il quale polemizzava il cardinale Roberto Bellarmino, santo, dottore della Chiesa e grande erede della Scuola di Salamanca. Alle tesi dell’assolutismo monarchico seguirono le teorie, altrettanto assolutiste, della democrazia contrattualista e totalitaria del XVIII secolo illuminista e giacobino.
Il dibattito ispanico sull’interpretazione delle bolle pontificie iniziò sin dai tempi dei re cattolici. La regina Isabella, donna di una grande fede che pur non sottraendosi mai ai suoi doveri di sovrana visse ponendo costantemente la priorità del regno di Dio sul suo regno terreno (e forse proprio per questo ha dato prova di grande santità anche nel governo temporale), interpretava il mandato papale come mandato di evangelizzazione alla quale ogni altro fine, anche politico o militare o economico, doveva essere subordinato. Il re Ferdinando, suo marito, invece tendeva verso la tesi dell’interpretazione vicariale e del patronato.
Secondo Pedro Martir de Anglerìa, consigliere dei re cattolici, le bolle dovevano essere lette soltanto come arbitrato papale tra Spagna e Portogallo per la composizione della reciproca contesa. Bartolomé de Las Casas propendeva esclusivamente per l’interpretazione missionaria ma la esasperava in un senso utopicamente “pacifista” negando ogni legittimità alla presenza armata ispanica (si rese conto, forse, della sua utopia, quando una spedizione missionaria disarmata da lui organizzata in Florida rischiò lo sterminio per mano dei bellicosi indigeni locali).
Più realista di Las Casas era Juan de Ovando, presidente del Consejo de Indias, un organismo preposto agli affari coloniali presso la corona, per il quale l’evangelizzazione doveva essere realizzata innanzitutto con mezzi sopranaturali ai quali poi dovevano affiancarsi quelli materiali nella misura in cui erano di necessario supporto ai primi ed all’opera educativa.
La Scuola di Salamanca, come si è già accennato, ed i suoi maggiori teologi ossia Francisco de Vitoria, Domingo de Soto, Luis de Molina e Francisco Suarez, propendeva invece per l’interpretazione missionaria giungendo alla realistica conclusione che se l’evangelizzazione non poteva essere il titolo che legittimava la presenza spagnola nelle terre degli indios, e delle quali questi dovevano essere riconosciuti i veri e legittimi proprietari, tuttavia esistevano altri titoli che legittimavano il governo spagnolo del nuovo mondo. In tal modo il problema dei rapporti tra indios e spagnoli veniva fatto rientrare nell’ambito del diritto internazionale che regola i rapporti tra comunità politiche diverse ed agli indios fu riconosciuto uno status giuridico di rango pari a quello posseduto dagli ispanici.
La posizione dei teologi di Salamanca si discosta sia dall’utopismo pacifista e sopranaturalista di Las Casas sia dal machiavellismo pagano di Juan Ginés Sepùlveda, Palacio Rubios e Matìas de Paz i quali invece, sul presupposto della presunta ferinità degli indios che ne faceva degli schiavi per natura, vedevano nel mandato papale una donazione in favore dei re spagnoli delle terre indie.
Nell’Europa dell’epoca la crisi religiosa innescata dal protestantesimo aveva fatto perdere alla riflessione sul politico il senso unitario della vita sociale, come conseguenza della perdita, in teologia, del senso della corrispondenza in unità, nella diversità dei piani, tra Grazia e natura ed, in antropologia, della complessità ontologica dell’uomo. Le correnti del protestantesimo radicale e millenarista dichiaravano che legittimato a regnare è solo colui che è in stato di grazia e fino a che lo rimane. Dunque il peccatore è escluso da ogni governo e siccome, secondo la teologia luterana, siamo tutti irrimediabilmente corrotti dal peccato ne conseguono o l’anarchia, nessuno essendo legittimato a governare, oppure, dal momento che si devono pur avere dei governanti, la necessità di ridurre al minimo il potere, di per sé sempre malvagio, del governo (si noti che è questa la base religiosa sulla quale è nata la costituzione degli Stati Uniti d’America: solo i santi ed i puri, come consideravano se stessi i puritani fondatori delle prime tredici colonie nordamericane, hanno diritto di governare e di possedere la terra e - aggiungiamo noi - di sterminare i nuovi cananei, ossia i pellerossa, che ostacolano l’avanzare del “popolo dei santi” nella nuova terra promessa americana).
A questo radicale soprannaturalismo, per contraccolpo, si oppose un radicale naturalismo il quale, prescindendo ed anzi negando il fine trascendente dell’uomo e la sua creaturalità, fondava la legittimità del potere sul potere stesso inteso come pura espressione di forza materiale e coercitiva, anche laddove era pretesa una giustificazione umanitaria.
A tali complementari e contrapposte posizioni, la Scuola di Salamanca, sulla base della teologia tomista, oppose la reintegrazione dell’unità di Grazia e natura e della complessità ontologica dell’uomo pervenendo alla conclusione che la legittimazione a governare non dipende dall’essere in stato di Grazia e dal permanervi ma dal diritto di natura, riflesso della legge divina, ossia dalla natura sociale dell’uomo. Proprio perché deriva il suo potere dal diritto naturale, il governo non può negare quei diritti delle comunità e dei singoli che derivano essi stessi dalla legge naturale: qualora il sovrano violi tali diritti naturali, egli si trasforma in tiranno e giustifica come estrema ratio la ribellione.
Su questa base i teologi di Salamanca potevano affermare che i sovrani pagani, anche laddove governassero sudditi cristiani, sono, per diritto di natura, del tutto legittimati all’esercizio del governo. Viceversa i sovrani cristiani, anche se in stato di peccato mortale, sono legittimati dal diritto di natura a governare, tanto che i loro sudditi siano cristiani tanto che invece siano pagani. Insomma non è la fede a giustificare l’esercizio della sovranità ma il diritto di natura. Quindi, affermavano i teologi-giuristi di Salamanca, i re indios sono re quanto i re cristiani e nulla giustifica la supremazia dei secondi sui primi o viceversa: neanche, si badi, il diritto di scoperta perché, osserva acutamente Vitoria, avrebbero ben potuto essi, gli indios, scoprire noi.
La riflessione degli scolastici salmantini dimostra che essi, pur cattolici e forse proprio per questo (Suarez fu tra i più influenti consulenti teologici nel Tridentino, mentre Vitoria, chiamatovi a parteciparvi, non poté perché colto dalla morte poco prima), non cedettero a nessuna esigenza di propaganda politica o anche religiosa nel trattare della legittimità della conquista e che essi non accettarono alcuna sua dubbia o strumentale legittimazione. Tuttavia questo non impedì loro, realisticamente, di porsi il problema del necessario regolamento pacifico della convivenza tra spagnoli ed indios, rigettando contemporaneamente anche le utopie lascasiane di tipo “indigenista”.
Luigi Copertino
• Mondo tra missio ad gentes e diritti umani degli indios (parte I)
• Mondo tra missio ad gentes e diritti umani degli indios (parte III)
7) Citato da Marco Tangheroni, “Prefazione” a J. Dumont “Il Vangelo nelle Americhe dalla barbarie alla civiltà”, Effedieffe, Milano, 1992, pagina 17.
8) Confronta F. Gonzàlez-Fernàndez, “La coscienza cristiana …”, opera citata, in AA.VV.,
9) “Processi alla Chiesa - Mistificazione ed apologia”, Piemme, 1994, pagina 102.
Confronta Gerhardt Ritter, “La formazione dell’Europa moderna”, Laterza, 1985, pagina 375
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