L’evangelizzazione del Nuovo Mondo tra missio ad gentes e diritti umani degli indios (parte III)
03 Dicembre 2009
La scuola di Salamanca
Il primo periodo della conquista fu giudicato, dalla scuola teologico-giuridica di Salamanca, privo di ogni giustificazione morale e giuridica. Fra Alonso de Veracruz, agostiniano, allievo di Francisco de Vitoria, professore a Salamanca e co-fondatore dell’Università del Messico, nelle sue lezioni presso questa Università nel 1553, riunite nella sua opera “De Dominio infidelium et iusto bello contra indios”, afferma chiaramente l’invalidazione della prima conquista perché i popoli indiani erano per diritto di natura sovrani nelle loro terre e pertanto non potevano essere privati delle loro proprietà e giurisdizioni. Un altro agostiniano Juan de Zapata, vescovo creolo del Chiapas e del Guatemala, nonché cattedratico delle Università del Messico e di Valladolid in Spagna, consigliere reale, pubblicò nel 1609 l’opera “De iustitia distributiva”, nella quale sosteneva l’autogoverno indiano.
La condanna salmantina apriva, quindi, una questione fondamentale: a quali condizioni gli spagnoli potevano rimanere in quelle terre dove si trovavano in via di fatto ormai da decenni? I teologi-giuristi di Salamanca risolsero il problema affermando il principio della “sovranità dei popoli indiani sotto la corona di Castiglia”. La corona deve riconoscere le nazioni indiane sovrane e indipendenti per diritto naturale e deve confederarle, sotto la propria tutela, in una comunità di nazioni libere. La corona di Spagna ha il dovere di farsi garante della loro libertà nell’ambito di una confederazione di liberi popoli.
Per i teologi di Salamanca è indubbio che le regioni del Nuovo Mondo, appena scoperto, avessero già i loro legittimi possessori, ossia gli indios, e che, sebbene non fossero mancate offerte di alleanze, i conquistadores spagnoli avevano invaso quelle terre sul presupposto che la “inventio”, ovvero la scoperta, conferisse ad essi un idoneo titolo giuridico per l’occupazione delle stesse. Un titolo che fu immediatamente contestato da quei teologi e giuristi.
Il principale tra questi teologi della seconda scolastica, nonché capofila della Scuola di Salamanca, fu Francisco de Vitoria (Burgos 1492/1493 - Salamanca 1546). Sacerdote domenicano e professore alle Università di Salamanca e di Valladolid, è considerato universalmente il padre del moderno diritto internazionale. Tra i suoi studenti ebbe anche il futuro Carlo V. Raccolse il suo pensiero in un’opera che è una pietra miliare del pensiero teologico e giuridico, le “Relectiones de indis”. Si tratta della sistematizzazione delle sue lezioni universitarie sul tema della conquista e dei diritti degli indios e dei precedenti suoi scritti sull’argomento. Il primo scritto di Vitoria sulla legittimità della conquista è la sua lettera dell’8 novembre 1534 al confratello e superiore Miguel de Arcos. In essa sono già presenti tutti i fondamenti del suo pensiero successivo.
Vitoria denuncia i metodi e gli scopi della conquista. Afferma che la guerra di difesa degli indios deve essere considerata giusta in base al diritto naturale mentre la guerra di conquista condotta dagli ispanici è stata inizialmente ingiusta proprio sulla base della motivazione per essa addotta, ossia l’evangelizzazione, perché la diffusione del Vangelo non può mai essere pretesto di guerra, tanto è vero che neanche la crociata fu guerra giusta per tale motivo ma soltanto in quanto e nella misura in cui ebbe per fine, non la conversione degli infedeli, ma la liberazione del Santo Sepolcro e delle vie di accesso ad esso.
Guidato nei suoi giudizi da un forte senso di realismo cristiano, Vitoria esamina le numerose relazioni che i militari e gli amministratori ecclesiastici e civili trasmettevano a Madrid ma, a differenza di Las Casas, non accoglie acriticamente tutte le notizie che giungono in madrepatria e fra tutte seleziona quelle più veritiere e verosimili ben sapendo che molti, come il suo correligionario, tendevano ad esagerare o a inventare di sana pianta per intemperanza millenarista o per avversità personale verso qualche amministratore coloniale o con l’obiettivo di delegittimare del tutto la presenza ispanica in Sud America. Non si deve però pensare che il grande teologo intendesse nascondere le responsabilità ispaniche. Dalle testimonianze che Vitoria ritenne sostanzialmente veritiere emerge la crudeltà di molti conquistadores, ma non di tutti indiscriminatamente. Vitoria tuttavia non manca di rilevare la convinzione dei conquistadores, da essi nutrita in perfetta buona fede secondo i canoni culturali medioevali all’epoca ancora vigenti, di essere i luogotenenti dell’imperatore Carlo V e del Papa, ossia delle due massime autorità universali. Molti conquistadores, infatti, avevano tentato, con schietto convincimento, di instaurare un ordine fondato su tre pilastri, l’imperatore, il governatore imperiale ed il re inca, che in qualche modo integrasse nello stato di fatto comportato dalla conquista l’antico potere e l’antica organizzazione indigena.
Pur sapendo di aprire ferite spirituali nelle coscienze cristiane del tempo, Vitoria rigetta la concezione medioevale, sulla base della quale si sentivano legittimati i conquistadores, e non esita ad affermare che, per diritto naturale, gli spagnoli, con o senza autorizzazione del Papa, il quale è autorità universale soltanto nello spirituale e quindi non può disporre dei beni temporali degli uomini, non avrebbero potuto fare la guerra agli indios sul presupposto della loro idolatria religiosa o dei loro peccati contro natura, nella misura in cui tali peccati non arrecavano danni ad altri popoli o agli altrui diritti umani. Per diritto di natura, anche se idolatri o incestuosi, gli indios erano a tutti gli effetti liberi nonché legittimi sovrani nelle loro terre e sui loro beni.
Su tale dichiarato ed inderogabile presupposto, la Scuola di Salamanca sollecitò presso la Santa Sede una derogazione o perlomeno una nuova interpretazione della bolla alessandrina. Le idee di Vitoria e degli altri teologi di Salamanca furono fatte immediatamente proprie da molti sinodi americani. Esse furono recepite anche nelle opere di quegli indios che aspiravano ad una riconciliazione nella giustizia tra spagnoli ed indigeni, come Poma De Ayala che nella sua “Cronica”, ispirandosi dichiaratamente a Vitoria, scriveva: «
Ognuno nel suo regno è proprietario legittimo, possessore, ma non per il re ma per Dio e per la giustizia di Dio: Egli ha fatto il mondo e la terra e piantò in essa ogni semente, lo spagnolo in Castiglia, l’indio nelle Indie, il nero in Guinea».
Nelle sue “Relectiones”, pubblicate nel 1539, Vitoria proclama tre fondamentali principi: il fondamentale diritto degli indios in quanto uomini, non in quanto cristiani convertiti, ad essere liberi; il diritto fondamentale dei popoli indios, al pari degli spagnoli, di difendere la loro sovranità; il dovere dell’intera comunità internazionale a collaborare nella pace e nella solidarietà internazionale.
Alla luce di questi tre postulati Vitoria riesamina tutta la questione della conquista, dei diritti degli indiani e dei doveri della Corona. Le sue conclusioni possono così sintetizzarsi:
a) anche gli indios sono uomini e, dal momento che ogni uomo è persona fatta ad immagine e somiglianza dell’Eterno Dio e quindi padrone della sua anima come del suo corpo e dei suoi beni, ogni indios è persona responsabile dei suoi atti perché ha il libero arbitrio, che Dio ha dato a tutti gli uomini, con la conseguenza che indios e spagnoli sono fondamentalmente uguali in quanto uomini;
b) il titolo che ogni uomo ha sulle sue cose, compresa la sovranità politica, deriva dal suo esser stato creato ad Immagine di Dio e ciò significa anche che tale titolo non si perde a causa del peccato, così come l’uomo post-adamitico dopo la caduta originaria non ha perso la sua essenza fatta ad immagine divina, sicché ne consegue il principio della fondamentale uguaglianza giuridica di tutti gli uomini e di tutti i popoli e che né l’infedeltà né la barbarie tolgono agli uomini ed ai popoli il possesso dei loro beni e la sovranità sui loro regni, perché la sovranità politica non dipende dallo stato di Grazia ma dal diritto di natura;
c) per diritto naturale tutti gli uomini sono liberi e dotati di natura sociale: in attuazione di questa loro fondamentale libertà e socialità naturale gli indios si sono legittimamente costituiti in comunità politiche sovrane ed hanno legittimamente scelto i propri regnanti;
d) sono diritti naturali dell’uomo quelli alla verità, all’educazione, alla formazione e promozione culturale e spirituale, alla vita ed all’integrità psico-fisica, alla fama, all’onore ed alla dignità personale, all’accesso ai beni temporali che Dio ha creato con destinazione universale a servizio della soddisfazione delle umane necessità. Pertanto gli indios hanno diritto a non essere battezzati e a non essere costretti a convertirsi contro la loro volontà ma hanno anche il diritto di ascoltare, senza impedimenti, l’annuncio del Vangelo e di convertirsi spontaneamente;
e) anche i popoli indiani costituiscono, nelle loro comunità, repubbliche sovrane con tutti i diritti conseguenti a tale sovranità sia verso l’interno che verso l’esterno;
f) anche i popoli indiani sono parte dell’umanità per cui, per naturale solidarietà e per diritto delle genti, tutti gli uomini, indios e spagnoli, hanno diritto alla comunicazione ed allo scambio vicendevole di beni e servizi secondo equità e giustizia e nel rispetto dei reciproci diritti.
Poste queste premesse Vitoria esamina il problema della guerra giusta, riformulandone l’ambito etico e normativo secondo una prospettiva religiosamente neutra, giungendo alla conclusione che è legittimo l’uso della forza, deliberata da una legittima autorità secondo le vigenti forme giuridiche, per difendere se stessi o altri uomini innocenti. Tra i diritti umani Vitoria enuclea anche lo “ius peregrinandi” ossia l’emigrazione e l’immigrazione, sia a scopo religioso che di ricerca di migliori condizioni di vita.
Ecco l’elencazione che Vitoria fece dei diritti umani:
• Per nascita gli uomini sono liberi
• Per diritto naturale nessuno è superiore agli altri
• Il bambino non viene all’esistenza in ragione degli altri, ma di se stesso
• E’ meglio rinunciare al proprio diritto che violare quello altrui
• E’ lecita all’uomo la proprietà privata; ma nessuno è talmente proprietario che non debba, a volte, condividere con altri i suoi beni. In caso di estrema necessità tutte le cose sono comuni
• I dementi perpetui - che non hanno e non c’è speranza che avranno l’uso della ragione - sono soggetti di diritto e possono essere proprietari
• Al condannato a morte è lecito fuggire, perché la libertà si equipara alla vita
• Se il giudice, non curando l’ordine del diritto, ottiene a forza di torture la confessione del reo, non può condannarlo, perché così agendo non si è comportato da giudice
• Non si può mettere a morte una persona che non sia stata giudicata e condannata legittimamente
• Ogni nazione ha diritto a governare se stessa e può scegliere il regime politico che vuole, anche quando non è il migliore
• Tutto il potere del re viene dalla nazione (popolo), perché questa è libera per principio
• L’orbe intero, che in certa maniera costituisce una repubblica, ha il potere di dare leggi giuste e convenienti a tutta l’umanità
• Non è lecita una guerra che porti alla nazione un male ben maggiore dei vantaggi che per mezzo di essa si vogliono raggiungere, quali che siano le ragioni e i titoli per cui si ritiene che sia giusta
• Se il suddito constata l’ingiustizia della guerra, può rifiutarsi di parteciparvi, anche contro il mandato del principe
• L’uomo non è lupo per l’uomo, ma è innanzitutto uomo
Infine, Vitoria esamina la posizione e le responsabilità della corona spagnola in ordine alla situazione americana e le condizioni della legittimità della presenza ispanica nelle Indie. Vitoria, pur riconoscendo che all’inizio della conquista la Spagna non poteva vantare titoli di legittimazione all’occupazione delle terre indie, rifiutò il radicalismo alla Las Casas che condannava, senza appello, la corona e che premeva su di essa affinché abbandonasse quelle terre (senza porsi il problema che poi nei fatti esse sarebbero state occupate da altre potenze, come l’Inghilterra o l’Olanda, molto meno scrupolose verso i nativi).
Egli conclude che l’unico titolo valido della presenza della corona spagnola nelle Indie è soltanto «la difesa del diritto ed il ristabilimento della pace e della sicurezza che si potranno garantire solo mediante relazioni di moderazione, comprensione e tolleranza».
Diventa perciò obbligo primario e fondamentale della corona quello di tutelare il bene comune dei popoli indiani. Questo deve essere lo scopo prioritario della sua politica. La corona non può anteporre il bene della metropoli a quello delle colonie e viceversa. La corona deve agire in modi distinti e separati nel governo della Spagna ed in quello delle Indie: deve cioè riassumere in sé, tenendoli distinti, i due regni come già era avvenuto per la riunificazione dei regni di Castiglia e di Aragona. Se non adempie a tali doveri il re diventa responsabile della violazione della legge naturale e dei diritti dei popoli indios.
L’influsso della Scuola di Salamanca fu fondamentale nell’opera di riconversione coloniale. Accettando gli insegnamenti dei teologi di Salamanca, la corona ed i missionari affrontarono con realismo e moderazione l’opera di riconciliazione fra le diverse culture ispanica ed indiana e realizzarono le condizioni necessarie per trasformare uno scontro iniziale in un fecondo incontro dal quale nacque una nuova e distinta cultura ispano-indiana o latino-americana.
Ispirate alla grande lezione salmantina nacquero in Sud America nuove università che favorirono sia l’inculturazione della fede sia lo sviluppo culturale nella pacifica convivenza e nella fusione civile ed etnica degli spagnoli e degli indigeni. La corona ebbe la grande e cristiana saggezza di non fare proprie le posizioni contrapposte e radicali del “machiavellismo mistico” di Sepùlveda e dell’“utopismo sopranaturalista” di Las Casas.
Nel 1562, sotto la guida del vescovo di Charcas e sotto gli auspici del Consiglio Reale, si svolse a Mama, in Perù, un congresso indio al quale presero parte centinaia di rappresentanti indiani. Tale evento fece concretamente toccare con mano che l’opera di riconciliazione e di riconversione coloniale procedeva nel consenso generale ad iniziare da quello degli indios stessi. Fu anche il primo evento che segnò i contorni di massima delle future nazioni latino-americane. Durante questo congresso gli indios giurarono fedeltà alla corona spagnola ottenendone la riconsegna delle terre di loro antica proprietà. Essi, inoltre, a garanzia del patto di mutua convivenza pacifica, nel rispetto dei diritti reciproci, elessero come loro rappresentanti, con pieni poteri, presso la corona oltre che l’arcivescovo di Lima anche fra Domingo de Santo Tomàs, fra Jerònimo de Loaysa e fra Bartolomé de Las Casas. Tale congresso sancì il primo esperimento di auto-governo peruviano nell’ambito di una confederazione sotto la corona spagnola, Questa sanzionò con il proprio riconoscimento gli accordi presi a Mama. Solo tre anni dopo, nel 1565, quegli accordi furono perfezionati con un atto di conciliazione fra il nuovo Stato incaico, sorto dal congresso di Mama, governato dall’inca Tipu Cusi Yupanqui e la corona spagnola nella persona di Filippo II. Era il trionfo delle dottrine cristiane e gius-naturaliste dei teologi di Salamanca.
A proposito della Scuola di Salamanca è opportuno ricordare la bella espressione di Fidel Gonzàlez-Fernàndez: «
Questi umanisti e missionari della Chiesa diventano la coscienza morale del Nuovo Mondo. Infatti rivendicano i diritti fondamentali della persona e la responsabilità dei popoli contro gli aggressori dell’umanità. Così contro la schiavitù rivendicano la libertà fondamentale degli indios; contro la repressione religiosa la libertà della coscienza. Rivendicano la solidarietà e la sovranità popolare dei popoli indios; la protezione della corona e il diritto di autodeterminazione e ultimamente il diritto fondamentale che ogni uomo ha all’annuncio evangelico, che deve essere accolto liberamente. Ecco perché si può dire che l’evento americano spronò la coscienza cattolica sia in America (attraverso i suoi missionari), sia in Spagna (attraverso soprattutto i suoi teologi) nella formulazione dei diritti fondamentali dell’uomo e dei popoli già nel 1500»
(10).
Il realismo cristiano. Josè de Acosta e la pastorale indiana
La Scuola di Salamanca influenzò profondamente anche la pastorale del clero impegnato nell’opera di evangelizzazione. Nella prima fase dell’evangelizzazione la pastorale era stata vittima dell’utopismo lascasiano. Molti religiosi seguivano il teocratismo di Las Casas impedendo un realistico approccio con la cultura indiana. Questo clero, infervorato di millenarismo, aveva intrapreso un braccio di ferro con le autorità civili, anche quando queste erano del tutto ben disposte verso gli indios, negando a coloni e governatori i sacramenti e pretendendo che la Spagna abbandonasse il Nuovo Mondo affinché esso fosse consegnato alla diretta giurisdizione della Santa Sede. Si trattava di un atteggiamento clericale nel quale riecheggiava molto del temporalismo medioevale.
Questo atteggiamento fu superato nella seconda fase dell’evangelizzazione in sintonia con la virata di riconversione della politica coloniale. Il superamento delle tendenze teocratiche e millenariste del clero lascasiano fu reso possibile da alcuni concili sudamericani nei quali riuscirono a prevalere più realistiche tendenze pastorali sostenute da teologi e vescovi profondamente influenzati dalla lezione salmantina.
Tra i vescovi e teologi che maggiormente si adoperarono per una revisione delle strategie pastorali si deve ricordare il grande missionario gesuita José de Acosta, arcivescovo di Lima. Egli fu l’autore di un resoconto sulla evangelizzazione del Nuovo Mondo che divenne la base di discussione del III Concilio di Lima (1582-1583). Questo Concilio, oltre a consentire la traduzione del catechismo nelle tre lingue spagnola, aymara e quechua, fissò le linee portanti dell’azione pastorale, missionaria e sociale ancora oggi in uso nel continente latino-americano.
Acosta constatò che molti fallimenti della prima evangelizzazione erano dovuti a molteplici fattori: l’utopismo lascasiano, la mancata promozione dei diritti degli indios, la necessità di una formazione teologica dei missionari idonea alla situazione del Nuovo Mondo. Erano necessari, come sottolineava Acosta, buoni teologi che procedessero ad un’attenta opera di studio delle culture indie in modo da poter evangelizzare le stesse, cristianizzandole, senza violenza. Per questo motivo Acosta fu un infaticabile propugnatore e fondatore di università e convocò innumerevoli sinodi diocesani e concili provinciali.
Il problema più grave che Acosta e gli altri teologi missionari dovettero affrontare fu quello della riparazione dei danni provocati da alcuni casi di conversione forzata o di conversione utilitaristica da parte degli indios per il conseguimento di vantaggi sociali. I padri conciliari del III Concilio di Lima pertanto progettarono ed attuarono, con notevole successo, una strategia pastorale globale fondata sull’offerta della conversione nella libertà e che toccasse la vita personale, politica e sociale degli indios. L’incontro di quelle popolazioni con il Cristianesimo cambiò radicalmente nei metodi e molti missionari testimoniarono della disponibilità degli indios all’accettazione volontaria e gioiosa della fede in Gesù Cristo.
In molti casi, in particolare nell’approccio con popolazioni particolarmente debilitate come quelle antropofaghe, l’evangelizzazione fu anche opera di prioritaria umanizzazione. Acosta stesso aveva raccomandato che bisognava prima umanizzare gli indios e dopo offrire ad essi liberamente la fede. Nella fase di riconversione della politica coloniale, l’evangelizzazione fu quindi fondata sul riconoscimento dell’umanità degli indiani e tale riconoscimento divenne anche la: «… base del pluralismo politico… affermata più di due secoli prima della Rivoluzione Francese. Ma in questo caso nasceva da un concetto di persona con radici totalmente diverse: il fatto della sua creazione e del suo fine trascendente» come scrive ancora Fidel Gonzàlez-Fernàndez
(11).
Mentre in Europa con la pace di Augusta (1555) prevaleva il principio giurisdizionalista del “cuius regio eius religio”, il catechismo del III Concilio di Lima (“Doctrina Christiana y Catechismo para Instrucciòn de Indios”, Lima 1582) proclamava la libera adesione alla fede cristiana ed il rispetto del non cristiano o dell’ancora non cristiano. L’episcopato sudamericano, coadiuvato in questo da una figura eccellente di missionario giurista come Juan de la Pena, accolse, sulla scia della grande lezione dei teologi di Salamanca, l’interpretazione esclusivamente missionaria della bolla alessandrina, rigettando senza tentennamenti l’interpretazione vicariale.
Possiamo quindi affermare che i missionari come Acosta ed i Concili americani, portatori delle idee dei teologi di Salamanca, operarono congiuntamente in due ambiti:
a) quello pastorale, con un metodo pedagogico consistente in una intelligente formazione umana e cristiana degli indios attraverso l’abbandono graduale dei loro crudeli riti oppure attraverso la cristianizzazione dei contenuti delle culture indie pur nel mantenimento delle loro forme apparenti;
b) quello politico, attraverso l’impulso ecclesiale affinché si desse corpo all’ideale della comunità pluralista ossia alla convivenza pacifica dei diversi gruppi sociali, etnici e culturali all’interno della stessa unità politica fondamentale.
L’America pontificia
Finora abbiamo visto il grande dibattito che si svolse in Spagna e che vide coinvolti i sovrani, i teologi, i missionari, i conquistadores e l’opinione pubblica nel senso più vasto del termine. E’ ora di vedere come tale dibattito abbia avuto influenza sul Magistero della Chiesa.
Nel 1991, in occasione del cinquecentenario della scoperta dell’America, il Vaticano ha pubblicato una raccolta degli interventi pontifici relativi al Nuovo Mondo
(12). Molti di questi interventi papali si riferiscono direttamente alla questione dei diritti umani degli indios. Essi sono il risultato delle sollecitazioni che i teologi di Salamanca, ma anche gli stessi sovrani come Carlo V, rivolsero alla Santa Sede affinché codificasse in solenni pronunciamenti la dottrina cristiana sulla piena umanità degli indiani e sui loro diritti come persone e come popolo.
Il Papato non rimase affatto sordo a tali sollecitazioni e, quasi a convalida delle elaborazioni teologiche e giuridiche della Scuola di Salamanca e parallelamente ad esse, nel 1537 Papa Paolo III (1534-1550) promulgò la bolla “Veritas ipsa” con la quale consacrò i princìpi fondamentali del diritto umano e di quello indiano.
La bolla in questione non nacque però in modo estemporaneo ma alla fine di un lungo processo di stratificazione catechetica e normativa che aveva formato un vero e proprio “corpus iuridicum” ecclesiastico e pontificio che accompagnò il non facile lavoro missionario. La distanza tra la cultura india e quella europea era a dir poco abissale. Molti usi indiani, come i sacrifici umani, i matrimoni incestuosi, l’ebbrezza rituale e la poligamia, erano sconcertanti per gli spagnoli, anche per i missionari, che non possedevano le necessarie conoscenze antropologiche per un giusto approccio a quelle culture. Ma, dopo il primo impatto frontale, i missionari, secondo la millenaria e sapiente metodologia della Chiesa, iniziarono a studiare le culture locali per trovare le giuste vie per un’evangelizzazione che nel momento stesso in cui apriva agli indios le vie della Salvezza né rispettasse però l’umanità sia nel senso ontologico che antropologico.
Tra il XVI ed il XVIII secolo i missionari istituirono, allo scopo, almeno 11 juntas eclesiàsticas, celebrarono 89 sinodi in 45 città, 14 concili provinciali in 9 città. Furono pubblicati un centinaio di catechismi indiani e di “confesionarios de indios” in due ed anche tre lingue e si impose ai sacerdoti e missionari in cura d’anime presso popolazioni indiane di imparare le lingue indigene. Si dettarono molte norme di pastorale indiana in particolare sull’amministrazione dei sacramenti agli indios.
A questo punto ci sia permessa una breve ma importante digressione per evidenziare che il Cielo, come è già avvenuto in altre occasioni nella storia della Chiesa (si pensi, per rimanere in ambito ispanico, alla “venida” di Nostra Signora del Pilar nei primi anni dell’evangelizzazione apostolica della penisola iberica), non solo ebbe a ratificare l’inteso sforzo missionario, che si svolgeva in Sud America, ma intervenne anche direttamente. Con questo diretto intervento gli ostacoli e le resistenze incontrate dai missionari, che le sole forze umane non erano in grado di superare, all’improvviso si dileguarono dimodoché l’evangelizzazione si trasformò quasi istantaneamente in un processo inarrestabile che si allargava a macchia d’olio. Stiamo facendo riferimento, naturalmente, all’Apparizione di Nostra Signora di Guadalupe, in Messico, nel 1531, all’indio Cuauhtlatohuac nato nel 1474 e battezzato cristiano nel 1525 con il nome di Juan Diego, e che la Vergine chiamava teneramente “Juanito”.
Questa evento sopranaturale si verificò proprio all’inizio della riconversione coloniale e pastorale e segnò l’avvio della riconciliazione tra indios e spagnoli. La Madonna, in sostanza, volle ricordare agli spagnoli che davanti a Dio un indio vale quanto uno spagnolo ed infatti Ella scelse proprio un indiano affinché portasse al vescovo i suoi ordini celesti. La Madonna con tale esempio sostenne apertamente, e la coscienza cristiana degli spagnoli lo capì perfettamente, che il luogo della Chiesa in America era il popolo indiano prima di quello ispanico, sopraggiunto, e che tra i due popoli vi doveva essere fusione non solo culturale ma anche etnica, come difatti avvenne con il formarsi, favorito dalla Chiesa e dalla corona, di un vasto meticciato.
Per tornare al nostro discorso principale, la Chiesa al momento della scoperta del Nuovo Mondo si trovò impreparata ad un’impresa missionaria che davvero aveva del sovrumano. La Santa Sede iniziò immediatamente la promulgazione di documenti magisteriali e canonici tutti finalizzati ad accompagnare lo sforzo dell’evangelizzazione. In alcuni casi, come in Messico, su richiesta dello stesso vescovo di Città del Messico il francescano Juan de Zumàrraga, si permise la residenza permanente di un legato pontificio cui i vescovi potessero rivolgersi per avere consigli e direttive sull’attività missionaria. Dall’opera di consultazione continua con il Papa scaturirono anche gli interventi di Paolo III tra i quali il più importante, come si è detto, fu la bolla “Veritas ipsa”.
All’origine di tale bolla vi fu l’invio al Papa da parte del vescovo di Tlaxcala, in Messico, il domenicano fra Juliàn Garcés, per mezzo di un missionario, fra Bernardino de Minaya, di una lettera contenente, a scopo di approvazione o correzione, una sintesi della filosofia e della pratica cristiana che quei domenicani applicavano all’opera di evangelizzazione. Per venire incontro alle richieste del vescovo Garcés, il Papa emanò, nel 1537, tre documenti sui diritti degli indiani. Nel più importante di tali documenti, appunto la bolla “Veritas ipsa”, Paolo III affermò solennemente i seguenti inderogabili principi-guida dell’opera di evangelizzazione del Nuovo Mondo:
l’uomo è stato creato da Dio per raggiungere il suo destino di finale conoscenza di Dio stesso e di felicità eterna, questo destino dell’uomo non si può raggiungere senza la grazia e la fede in Gesù Cristo, ne consegue che ogni uomo è atto all’accoglimento di Cristo ed è questa capacità naturale ad accogliere il Verbo Incarnato di Dio ad essere la base ontologica dell’inviolabile dignità umana e dei diritti dell’uomo. Pertanto se l’annuncio evangelico è un mandato irrinunciabile della Chiesa, avendo Dio stesso ordinato di annunciare il Vangelo a tutte le nazioni senza esclusione alcuna, ad esso corrisponde il diritto degli indios ad essere evangelizzati ma nel rispetto dei loro diritti umani, sicché l’evangelizzazione deve essere anche opera di rigenerazione umana degli indiani.
Con particolare riferimento, poi, alla situazione indiana, Paolo III rigetta del tutto le tesi sulla servitù naturale degli indios e condanna senza appello coloro che: «
… servendo soltanto la loro avidità hanno avuto l’ardimento di affermare che gli indios possono essere ridotti a schiavitù come delle bestie dovuto all’incapacità in cui si trovano per poter accogliere la fede ed effettivamente li riducono in schiavitù e li maltrattano infamemente».
Segue a tale inequivoca condanna, la proclamazione della naturale libertà degli indios e del loro diritto naturale a possedere beni. Infine il Papa sancisce il fermo principio per il quale gli indios devono essere evangelizzati soltanto mediante l’annuncio, la predicazione e l’opera di carità missionaria bandendo ogni metodo coercitivo.
Sempre nel 1537 Paolo III, a proposito della decisione del governo portoghese di proibire agli indiani il libero transito in Europa sotto il pretesto che potessero convertirsi al giudaismo, emanò un’istruzione al vescovo di Lisbona nella quale, anticipando quanto avrebbe poi solennemente proclamato nella “Veritas ipsa” ed affermando la piena libertà naturale degli indios, sanciva che era meglio che essi incorressero nel rischio di diventare giudei «
per loro male volontà che per nostra iniquità non potendo a ogni modo Sua Maestà violentarli la volontà, che Dio ha fatto libera…».
Di fronte al travaglio di coscienza del mondo cattolico, nella questione dei diritti degli indiani, travaglio dal quale nacque la grande lezione pontificia e salmantina sul saldo fondamento cristiano e metafisico della dignità umana, un vero e proprio schiaffo alle dichiarazioni atee dei diritti umani del XVIII secolo che non hanno mai garantito in due secoli di tragedie occidentali il rispetto di quella dignità, è interessante sottolineare che nel mondo protestante, quello dal quale è nato l’attuale Occidente americanocentrico globale, non è dato registrare nessun travaglio etico in ordine alla dignità umana degli indiani nordamericani. Anzi, come è noto, il detto che andava per la maggiore tra i coloni di cultura anglosassone e di religione protestante del Nord America era quello secondo il quale: «
l’unico indiano buono è quello morto».
Ed i coloni puritani furono assolutamente conseguenti con tale affermazione, radicata nella veterotestamentaria convinzione di costituire essi il nuovo popolo eletto, quando donavano ai pellerossa coperte infettate dal vaiolo affinché la mano divina sterminasse i “nuovi cananei” che si opponevano al dominio dei “santi” e dei “perfetti” sul Nuovo Mondo ossia su quella che essi consideravano la nuova terra promessa nella quale Dio avrebbe adempiuto la sua promessa di redenzione dell’umanità.
In proposito il Martina ha rilevato che: «
… mentre la legislazione spagnola si era ormai allineata su posizioni favorevoli agli indigeni, quella delle colonie anglosassoni continuava a mostrarsi irriducibilmente ostile: le leggi nella Virginia nella seconda metà del Seicento non solo proibivano matrimoni misti, ma negavano a meticci e mulatti il diritto di proprietà, consideravano schiavi perpetui i prigionieri indiani, autorizzavano i bianchi a catturare gli indiani in riparazione di eventuali danni arrecati, stabilivano il principio della responsabilità collettiva per tutto un villaggio nel caso dell’uccisione di un bianco»
(13).
Una parola finale sui conquistadores
In una raccolta del 1680-81 di tutta la legislazione promulgata dalla corona ispanica sulla questione indiana è detto: «
Il fine principale che ci muove a fare nuove scoperte è la predicazione della Santa Fede Cattolica e che gli indios siano educati e vivano in pace e concordia». I documenti storici ed i fatti documentati dimostrano che tale dichiarazione non era soltanto una pletorica petizione di principio. Non lo era per il continente sudamericano ma non lo era neanche negli altri possedimenti coloniali ispanici. Il Consiglio di Stato suggerì a Filippo II, il figlio di Carlo V, l’abbandono per motivi economici delle Filippine: troppo costose sotto il profilo coloniale rispetto ai vantaggi che il regno ne conseguiva. Ma Filippo si oppose all’abbandono di quelle isole «
perché non si perdano i molti cristiani che vivono in quelle terre e il frutto che ha prodotto la fede».
Non si è mai sentito un regnante protestante parlare in questi termini e prendere decisioni anti-economiche ma obbedendo solo alla propria coscienza cristiana nella consapevolezza di dover rendere conto a Dio anche della salvezza spirituale dei propri sudditi. Eppure non è possibile dimenticare che i conquistadores invasero le terre del Nuovo Mondo con violenza e che si resero colpevoli di estreme nefandezze. Dunque quale giudizio storico dobbiamo dare di essi? E’ necessario innanzitutto rifiutare qualsiasi giudizio manicheo che ne faccia delle incarnazioni del demonio o degli angeli. Essi furono semplicemente dei poveri peccatori, cristiani e peccatori. Non furono né criminali né santi e tra essi vi furono persone malvagie e cupide come altre di sentimenti cristiani.
Il conquistador era il frutto sociale dell’epopea della “reconquista”. Egli apparteneva ad un ceto professionale di uomini d’arme. Erano hidalgos in cerca di fortuna ma al tempo stesso professavano sinceramente il loro cristianesimo. Essi si ritenevano strumento della corona e della Chiesa e, forse, della Provvidenza: in un modo certo confacente all’epoca ed alla loro condizione sociale ma tuttavia non si può dubitare, senza arrecare loro torto, della sincerità di tale convinzione. Ciò è evidente persino dai loro scritti, nei quali essi insieme alla gloria di Dio non nascondono anche la volontà di arricchirsi (se fossero stati insinceri avrebbero nascosto questa volontà). Uno di essi, Bernal Dìaz del Castillo, così motiva la propria missione: «
Per servire Dio e Sua Maestà e dare luce a coloro che vivono nelle tenebre; e anche per avere ricchezze che comunque tutti gli uomini cercano».
Il cappellano di Cortés, Lòpez de Gòmara, ha scritto: «
La causa principale per cui siamo venuti a queste parti è per esaltare e predicare la fede di Cristo, e allo stesso tempo ci segue onore e profitto, che poche volte possono essere contenuti nello stesso sacco». La realtà umana di peccatori che tuttavia cercavano con sincerità di essere cristiani risulta anche da questo ritratto di Cortés tramandatoci da fra Motolinia: «Anche se come uomo era un peccatore, egli aveva fede e opere di buon cristiano e un desiderio molto forte di impiegare la sua vita nel diffondere la fede di Gesù Cristo».
La fede cattolica era parte integrante della loro personalità di conquistadores e della loro visione del mondo. Il fatto che fossero anche e soprattutto dei peccatori non inficia la sincerità dei loro intenti missionari. L’evangelizzazione dell’America Latina si deve anche a loro e non soltanto ai missionari ed ai teologi. Nel conquistador si trovano sia la fede, l’umiltà cristiana, la generosità cristiana e sovente aristocratica, sia l’orgoglio, anch’esso tipicamente aristocratico, l’intransigenza spinta a volte al fanatismo, l’avidità di ricchezze e di privilegi. Ciononostante essi si sentivano in tutta sincerità dei “defensores fidei”.
Come i missionari ed i teologi, anche i conquistadores ebbero sempre piena consapevolezza di appartenere alla Chiesa di Cristo e proprio per questo per essi più lacerante fu il doloroso travaglio di coscienza al quale furono chiamati nel rispondere dei loro atti. Ma da tale travaglio, unito alla sincera adesione al Cattolicesimo, nacque semplicemente una nuova cristianità: la cristianità latino-americana, fusione miracolosa di oppressori ed oppressi riconciliati nella Carità della Chiesa e nell’uguaglianza tutelata dalla corona. Abbiamo detto che la Spagna che iniziò la colonizzazione del Nuovo Mondo era quella, appena fuoriuscita dalla “reconquista”, piena di energie spirituali e materiali e di ardore missionario. I conquistadores rappresentarono, nel bene e nel male, il frutto di questo ardore formatosi all’ombra della “crociata” per la riconquista delle terre cristiane occupate dai mussulmani. In questo senso essi sentivano la missione nel Nuovo Mondo come la naturale prosecuzione della “crociata” e con tale spirito di crociata, ossia di guerra giusta per la diffusione della Fede, la iniziarono.
La Chiesa, tuttavia, che ebbe sin dall’inizio chiara la diversità di situazioni tra la “reconquista” e la “conquista”, attraverso i missionari che accompagnavano conquistadores e governatori ha fatto del tutto, riuscendovi, per far nascere in questi uomini il bisogno di un riesame, in coscienza, del loro operato fino ad indurli ad una conversione, dalla quale nacque la riconversione della politica coloniale.
Quello della Spagna del XVI secolo, forse, è stato l’unico caso, nella storia, di un popolo conquistatore che, nel pronunciare un solenne “mea culpa”, fece tutto ciò che era umanamente possibile per riparare sinceramente al male fatto. Il caso più noto di crisi di coscienza, al quale già si è accennato, è stato quello dell’imperatore Carlo V che fu sul punto di abbandonare l’impresa coloniale nella consapevolezza, instillatagli dai suoi teologi, che non è moralmente lecito per nessun popolo dominare su altri popoli.
Tutto questo travaglio spirituale si trasformò in concreto in veri e propri atti di riparazione effettuati dai conquistadores. I loro teologi ed i loro direttori spirituali furono inflessibili: la morale cattolica impone a chi ha rubato o rapinato di restituire quanto ingiustamente tolto. Gli archivi sia in America Latina che in Spagna sono pieni di testamenti di conquistadores ed encomenderos che dispongono riparazioni dei torti da essi arrecati agli indios. La cosa più sorprendente è che in tali testamenti le colpe denunciate, e per le quali si dispongono le riparazioni, non sono soltanto le violenze, le guerre, i maltrattamenti ma anche peccati di omissione come la trascuratezza nell’opera di evangelizzazione degli indios affidati in custodia. All’ammissione delle proprie colpe seguiva la riparazione che consisteva nella restituzione dei beni sottratti ingiustamente laddove possibile oppure in una riparazione equivalente dove la restituzione non era più praticabile.
La questione della riparazione tuttavia non sempre fu cosa facile. Molti conquistadores, all’epoca della conquista, avevano stretto alleanze con popolazioni indiane che, un tempo sottomesse ad altre etnie indie, si erano vendicate, macchiandosi di efferatezze indicibili, nei confronti dei loro antichi dominatori: ciò comportava seri dubbi sui limiti della restituzione dei beni maltolti perché spesso i conquistadores erano soltanto subentrati in guerre tra popolazioni indigene. Quindi si poneva in tali casi il problema di chi fosse il soggetto beneficiario della restituzione. Si tentarono così amichevoli composizioni o accordi con gli indios o i loro discendenti. Altri invece preferirono passare i propri beni alla corona affinché fosse essa a restituirli agli indios secondo più alte ed eque valutazioni. Altri ancora con i beni maltolti fondarono scuole, ospedali ed opere di carità per gli indios. Non pochi conquistadores, come fece Cortés, restituirono sic et simpliciter i loro beni ai legittimi proprietari. Altri preferirono lasciare i beni ai propri esecutori testamentari,che spesso erano i vescovi del luogo, affinché compissero essi le dovute riparazioni, chiedendo inoltre la celebrazione di Sante Messe per la conversione degli indios.
Dalle ricerche di archivio sono venuti fuori documenti ed atti notarili con cui conquistadores e coloni sposati con donne indie hanno lasciato i propri beni alla loro prole meticcia o che, avendo concepito figli naturali con indiane, hanno ripartito equamente i loro beni tra figli legittimi e figli naturali. Molti conquistadores, come ad esempio alcuni marinai provenienti da Palos con il primo viaggio di Colombo, lasciarono le armi per farsi religiosi e consacrarsi all’evangelizzazione degli indios. Alonso de Molina, mercenario di Pizzarro, ad esempio, lasciate le armi, fondò tra gli indiani una comunità cristiana.
Infine deve essere ricordato un altro fenomeno che diventò comune nella Spagna del tempo ossia la istituzione di “commissioni di scarico di coscienza” la cui costituzione fu favorita dalla stessa regina Isabella che affidò ai suoi confessori, riuniti in tali commissioni, i poteri per la riparazione, al di là di ogni opportunismo economico e politico, delle ingiustizie commesse nel suo regno. Tali commissioni lavorarono a pieno regime per tutta la fase di riconversione della politica coloniale.
San Paolo affermava che “
Dove abbondò il peccato, sovrabbondò la Grazia” (Romani 5,20).
Conclusione: la genesi della seconda cristianità
In America latina nel secolo XVI si ripete quel che già accadde in Europa tra il V ed il X secolo ossia la nascita di una nuova civiltà mediante l’incontro e la fusione anche etnica di popoli di diversa cultura.
Dopo la caduta dell’impero romano, come è noto, lo sforzo costante della Chiesa, che della grandezza umana e giuridica di Roma fu erede ed al tempo stesso continuatrice nella fecondità della Luce di Cristo, fu quello di amalgamare romani e popoli germanici. Essa vi riuscì perché la fede cristiana ha questo di peculiare: la capacità di penetrare nelle culture e nelle coscienze senza annullarle ma soltanto trasformandole nell’apertura verso una più alta Verità che nulla disdegna di quanto vi è nell’uomo di naturalmente buono, nobile, giusto perché tutto ciò altro non è che riflesso della Legge da Dio direttamente impressa nel cuore umano. La Chiesa è storia incarnata di salvezza tanto per i singoli quanto per i popoli e le loro culture.
In Europa tra il V ed il X secolo furono poste le basi per la nascita della prima Cristianità. Nell’America latina nel XVI secolo nacque quella che possiamo definire una seconda Cristianità. Una Cristianità che lasciò, come cammino incompiuto dall’Occidente, purtroppo altrimenti sedotto da Lutero e da Cartesio, dal quale, se fosse stato portato a termine nella continuità cattolica con la prima Cristianità, sarebbe emersa un’altra modernità, un incommensurabile magistero teologico e giuridico sulla inviolabile dignità dell’uomo, creato ad Immagine di Dio, nonché sulla naturale appartenenza di ciascuno alla propria comunità politica e sull’eguaglianza, per diritto internazionale, dei popoli.
Questa seconda Cristianità nacque dalla fusione, consentita dal Cattolicesimo, dei mondi ispanico ed indiano e nacque proprio quando in Europa la prima Cristianità veniva aggredita dalla sedizione protestante. Forse in questo vi è un segno. Philip Jenkins, sociologo delle religioni, ha affermato che la terza Cristianità, quella del XXI secolo, nascerà con tutta probabilità nel terzo mondo, dove infatti l’adesione al Cristianesimo è in forte aumento, nonostante l’antagonismo islamico e nonostante il disinteresse quando non la sottile persecuzione dell’occidente americanocentrico. Che Dio voglia far comprendere al mondo occidentale, diviso tra un’Unione Europea nascente all’insegna del rifiuto delle sue radici cristiane ed un’America protestante in preda a convulsioni millenariste per l’esportazione imperiale della “libertà” in tutto il mondo, che la civiltà può nascere soltanto dall’apertura del cuore verso l’Alto, verso di Lui? E che pertanto essa degenera e muore laddove Egli viene rifiutato? Non è un caso se, infatti, il destino dell’Occidente oggi, nonostante tutta la sua potenza materiale, sembra essere proprio quello dell’implosione nichilista.
Come nell’Europa del Medioevo dove dalla fusione culturale ed etnica degli antichi romani, greci, longobardi, franchi, sorsero i francesi, i tedeschi, gli italiani, gli spagnoli, così nell’America latina, all’alba della modernità, dalla fusione di ispanici, aztechi, inca, maya, sono nati i popoli peruviano, argentino, messicano, cileno, brasiliano. Vogliamo chiudere con le belle parole dei vescovi sudamericani riuniti qualche anno fa nel sinodo di Puebla: «E’ il Vangelo incarnato nei nostri popoli che unisce in un’originalità storica culturale quella che chiamiamo America Latina. Quest’identità è rappresentata molto chiaramente nel volto meticcio di Maria di Guadalupe, che si erge all’inizio dell’evangelizzazione».
Oggi, però, e questo sia di monito a tutti i cattolici infatuati dagli Stati Uniti d’America e che si sentono solidali con un Occidente nato sulle macerie della Cristianità europea medioevale, l’identità latino-americana, forgiata nei secoli della colonizzazione ispanica, è seriamente messa in pericolo dall’invasione delle sette protestanti fondamentaliste nord-americane, supportate dagli ingenti finanziamenti della destra repubblicana, il cui obiettivo primario è la decattolicizzazione in nome della globalizzazione liberista. Ancora una volta la sorte dell’America Latina è affidata alla sicura intercessione della Madonna di Guadalupe, Patrona dei popoli latino-americani
(14).
(fine)
Luigi Copertino
• Mondo tra missio ad gentes e diritti umani degli indios (parte I)
• Mondo tra missio ad gentes e diritti umani degli indios (parte II)
10) Confronta F. Gonzàlez-Fernàndez, “La coscienza cristiana …”, opera citata, in AA.VV., “Processi alla Chiesa - mistificazione ed apologia”- Piemme, 1994.
11) Confronta F. Gonzàlez-Fernàndez, “La coscienza cristiana …”, opera citata, in AA.VV.,
“Processi alla Chiesa - mistificazione ed apologia”, Piemme, 1994, pagina 314.
12) Confronta “America Pontificia”, Città del Vaticano, 1991.
13) Confronta G. Martina, “La Chiesa nell’età dell’assolutismo”, Brescia, 1980, pagine 245-246.
14) Come promesso diamo ai lettori interessati all’approfondimento qualche sintetico suggerimento bibliografico, in aggiunta ai testi già citati nelle note precedenti. In particolare su Vitoria, Suarez e la Scuola di Salamanca possono consultarsi il capitolo 2, pagine 104-140, di Carl Schmitt, “Il Nomos della terra”, Milano, 1991; Ramon Hernandez Martin, “La lezione sugli indios di Francisco de Vitoria”, Milano, 1999; Claudio Finzi, “Gli indios e l’impero universale - scoperta dell’America e dottrina della Stato”, Rimini, 1993; C. Finzi, “Europa Occidente Americhe - saggi di geofilosofia politica”, Roma, 2009. Per la conoscenza dell’attività missionaria è utile consultare AA.VV., “Un francescano tra gli indios - Diego Valadés e la Rhetorica Christiana”, (atti del convegno di Perugia, 1992), Rimini, 1995; Luigi Guarnieri Calò Carducci, “Nuovo Mondo e Ordine Politico - la Compagnia di Gesù in Perù e l’attività di José de Acosta”, Rimini, 1997. Notizie utili per inquadrare l’intera questione nell’ambito della storia della controversa autocoscienza occidentale si rinvengono anche in Franco Cardini, “L’invenzione dell’Occidente”, Rimini, 2002. Importante anche il volume collettaneo “500 anni di Americhe” (atti del convegno “La scoperta dell’America: problemi storici e politici”, 1991), Rimini, 1991. Importanti contributi anche in Vittorio Messori, “Pensare la storia”, Milano, 1992, in particolare da pagina 637 a pagina 660. Per la sua eccezionale importanza riteniamo che, al di là di tutto, sia necessario quantomeno leggere il già citato Jean Dumont, “Il Vangelo nelle Americhe - dalla barbarie alla civiltà”, Effedieffe, Milano, 1992, che è un capitolo di una ben più vasta opera del noto storico francese “L’Église au risque de l’histoire”, che si spera possa vedere al più presto la sua traduzione integrale anche in Italia.
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